Importantissima
per redigere (e per decifrare) un alfabeto segreto è la conoscenza
delle basi della crittografia.
Gli esempi che riportiamo sono, per la maggior parte, monoalfabetici,
ovvero corrisponde, per ogni simbolo, un carattere della lingua di base.
La sua decodifica risulta quindi essere abbastanza semplice, in quanto
si basa sulle frequenze delle lettere, nella lingua usata.
In italiano, per esempio le lettere più diffuse sono la 'A'
e la 'E', per verificarlo è sufficiente prendere un testo qualunque,
purchè abbastanza ampio, e calcolare le occorrenze per le varie
lettere e poi ordinarle dalla più frequente all'ultima. Applicando
lo stesso processo al testo criptato potremo iniziare una fase comparativa.
Sostituiremo il simbolo più frequente con la lettera più
frequente e così via, finchè, con un po di pazienza e di
fantasia scopriremo il messaggio criptato.
Storicamente si hanno
i primi esempi di codifica del testo già nel IX secolo a.C. All'epoca
si adoperava un cilindro di legno intorno al quale veniva avvolto un lungo
laccio di cuoio in modo tale che lo ricoprisse. In un secondo tempo si
scriveva il testo longitudinalmente in modo tale da avere un solo carattere
della stessa riga per avvolgimento. Slegato dal bastone il laccio risultava
illeggibile se non si disponeva di un'altro cilindro dello stesso diametro
sul quale avvolgerlo.
Il generale della
lega arcadica Enea, pochi anni prima del 400, inventò un sistema
di codifica basato su di un disco avente 24 fori, uno per ogni lettera,
lungo la circonferenza, più uno centrale. Da quest'ultimo veniva
legato il filo che sarebbe passato nei fori delle varie lettere fino a
comporre il messaggio. A quel punto si scrivevano le lettere sul disco
e si svolgeva il filo, scrivendo il messaggio. La decodifica avveniva leggendo
a ritroso.
Geremia, nella Bibbia,
adoperava un codice semplice, invertendo l'ultima lettera dell'alfabeto,
in quel caso l'Ebraico, con la prima. La penultima con la seconda e così
via. Questa tecnica viene chiamata Atbash. In un esempio pratico,
la prima lettera dell'alfabeto Ebraico, aleph, viene sostituita con l'ultima,
taw, e la seconda, beth, con la penultima, shin. Da questo scambio è
nato il nome Atbash.
Nel 200 a.C, lo storico
greco Polibio descriveva una matrice per rappresentare con una coppia di
numeri i 24 caratteri dell'alfabeto greco. Quindi, in una matrice 5x5 possiamo
rappresentarli tutti e ne avanza uno, usato poi per indicare l'inizio e
la fine della trasmissione. Con estrema facilità e 10 torce, poste
su due bancate, una di destra ed una di sinistra diventa un ottimo alfabeto
visivo tipo telegrafo. Avremo così:
A (1,1) Ovvero una torcia accesa a sinistra ed una a destra;
B (1,2) Una torcia a sinistra e due a destra;
e così via fino alla lettera F, dove cambieremo riga e riprenderemo
dalla colonna 1:
F(2,1).
Pare che Giulio Cesare
adoperasse una tecnica molto semplice per redigere i sui documenti. Scriveva
in pratica la lettera successiva a quella originale. La A diveniva B, la
B una C e così via. Non si era sempre obbligati ad incremetare di
un solo carattere, sovente si sommava 3. Ovviamente, nel trattare le ultime
lettere dell'alfabeto, si riprendeva la conta dalla A.
Nel Medioevo (e lì
veramente pochi sapevano leggere…) si adoperano le tecniche di codifica
in un primo momento solo per celare nomi, adoperando alfabeti molto simili
a quello usato da Giulio Cesare. Tra il XIV e l'XVIII secolo vediamo nascere
ed
usare alfabeti monografici che si riferiscono anche a nomenclature,
ovvero dei brevi dizionari che abbinano i termini più frequenti
ed usati a dei simboli.
Poco prima del 1400 si usava sostituire le vocali e le consonanti di
uso più frequente con dei simboli e le stesse lettere presenti nel
messaggio criptato avevano valore nullo.
In seguito allo scisma di Avignone, Gabriele Lavinde, nel 1379 scrisse
per conto del Papa Clemente VII un manuale dove avrebbe unificato i sistemi
di cifrature dell'Italia Settentrionale.
Giunti al XIV secolo
si usa adoperare più simboli per rappresentare le stesse vocali,
questo metodo serviva per depistare coloro i quali avrebbero tentato di
decifrare il testo tramite l’analisi statistica delle occorrenze. Si diffondono
così le cifre con simboli arbitrari per ogni lettera, usandone di
omofoni per le vocali, il tutto abbinato ad un nomenclatore. La moda verrà
mantenuta, salvo eccezioni fino ai tempi del telegrafo del 1800.
Nel 1640, fu il Cardinale
Richelieu su consiglio di Antonio Rossignol ad implementare l’uso di repertori
invertiti con gruppi cifranti variabili, uniti a due documenti; uno per
cifrare e l’altro per decifrare con omofoni per le singole lettere.
Sistemi analoghi furono usati anche per le comunicazioni riservate
tra Luigi XIV ed il suo esercito, verso la fine del 1600. In questo caso
i gruppi cifranti differenti erano più di 11.000.
Invece, all’epoca di Napoleone, venivano usati solo 200 gruppi e la
tecnica della crittografia fu ridotta di parecchio.
Dal 1500 in poi sono
stati inventati numerosi alfabeti circolari derivati da una parola chiave,
detta verme. La prima metà della parola chiave viene scritta su
di una riga, la seconda sotto di essa. Di seguito alla prima riga viene
scritto metà dell’alfabeto, e, sulla seconda riga, viene aggiunta
la seconda metà. Ovviamente le lettere già presenti nella
parola chiave non vengono più ripetute. Così si ottiene il
primo alfabeto. Il secondo si ricava facendo circolare la seconda riga
di un carattere. Si procede in questo modo fino a rappresentare un numero
sufficiente di alfabeti. Il metodo è comunque piuttosto complesso
da spiegare.
Altri metodi hanno
visto usare ancora due dischi, di diametro differente, con lettere e numeri
incrociati, altri, per esempio, erano vere e proprie macchine che adoperavano
cilindri in legno con i simboli incisi sopra.
Ogni messaggio ha la sua chiave ed usa i suoi caratteri. Anche le mappe,
alcune lastre di pietra e, in alcuni casi, delle lapidi contenevano simboli
all’apparenza misteriosi, che poi, dopo attenta analisi si scopriva rivelare
un luogo, un nome o un tesoro...
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