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Un
viaggio nelle regioni del Bel Paese...
- VALLE
D’AOSTA: Il caffè Valdostano
E’ adatto
al clima pungente delgi inverni alpini, alla cucina robusta della Valle,
a conclusione gioconda di una giornata di sport tra le nevi. Si serve in
una coppa di legno di linea barocca, bassa e panciuta, con quattro, sei,
otto o più beccucci, secondo le dimensioni, attorno all’apertura
centrale. Al caffè bollente si aggiungono scorza di limone e grappa
a volontà… Si accende la mistura e, mentre fiammeggia, si fa scivolare
nella bevanda lo zucchero. Si beve a turno, ciascuno da un beccuccio. Il
recipiente pittoresco del caffè valdostano talvolta vien chiamato
“Grolla” ma non è corretto, la bella gorlla valdostana è
un calice di legno tornito, con coperchio, di forma simile al ciborio ecclesiastico.
Il nome è da taluno messo in rapporto col Graal, citato nelle leggende
e nei poemi del ciclo dei cavalieri della Tavola Rotonda: la coppa di smeraldo
che Gesù usò nel Cenacolo e in cui Govanni d’Arimatea raccolse
il sangue del Criso, colato dal costato ferito dalla lancia del centurione.
Una grolla di fattura artigiana è ricordo quasi canonico di un passaggio
nella Valléé.
- PIEMONTE:
IL VERMUT
Si chiama
Wermuth, alla tedesca con parola che vuol dire amaro, poi si scrisse anche
vermouth. E’ un vino aromatizzato che secondo una ricetta casalinga del
Trattato del Vialardi, cuoco di Vittorio Emanuele II, deve risultare dalla
macerazione in “vin bianco generoso” di una mistura lavorata al mortaio
di tredici ingredienti, tra cui legno quassio, angelica, genziana, spezie
e prevalentemente “sommità di assenzio gentile”. Nasce nel cuore
di Torino, all’angolo di Piazza Castello con via Barbaroux, nel 1786, regnante
Vittorio Amedeo III, inventato da Antonio Benedetto Carpano, che lo fece
propagandare in piazza a gran voce. Può essere bianco dolce, rosso,
secco, amaro. Quest’ultima variante Carpano la chiamò “punt e mes”
che in piemontese vuol dire “punto e mezzo” cogliendo l’opportunità,
si dice, dal lapsus di un agente di cambio che, la mente volta alla caduta
di un punto e mezzo del listino, con quelle parole si rivolse al barista
per chiedere il solito aperitivo. Il secco, che ormai si chiama “dry” è
il componente subalterno del Martini, che non prende il nome dalla marca
vèrmut, ma da un tal Martinez, barman leggendario dell’Ottocento,
operante a New Orleans, o a Chicago , a Boston e forse altrove.
- LIGURIA:
LA PATRIA DI COLOMBO
Diroccata
e avvinta dall’edera, in piazza Dante nella vecchia Genova, presso la porta
Soprana, vi è la casa in cui Cristoforo Colombo visse la fanciullezza.
E’ tuttavia una ricostruzione settecentesca. Ma dov’è nato il navigatore?
In molti hanno provato a dimostrare che nacque altrove, e la questione
ha fatto rempire centinaia di libri. Vari documenti provano però
che è nel giusto il cronista genovese Antonio Gallo quando scrive
che il navigatore "era nato a Genova da genitori plebei”. Lo stesso ammiraglio,
nel Mayorazgo, sorta di testamento a favore del figlio Diego, dettato a
Siviglia nel 1498 prima di partire per il terzo viaggio oltre oceano, dice
“Siendo yo nacido en Génova”.
- LOMBARDIA:
IL TORRONE
Secondo
la grammatica italiana “torrone” è l’accrescitivo di “Torre”, quindi
torrone è uguale a “grande torre”. A questo abitualmente non si
pensa quando si addenta quel dolce lombardo. Ma il nome, con la torre qualche
rapporto l’avrebbe. Nel XIV sec. la città di Cremona venne in mano
ai Visconti signori di Milano; il duca Filippo Maria la assegnò
in dote alla figlia Bianca Maria, quando, nel 1441, andò sposa al
fortunato avventuriero Francesco Sforza, grande e spregiudicato capitano
di soldati di ventura, che con quel matrimonio preparò la
strada per diventare padrone di queelo che allora era forse il più
ricco stato italiano. Non è strano quindi che il dolce nuziale richiamasse
in qualche modo la città di Cremona: era un dolce monumentale di
bianco d’uovo, miele e mandorle tostate, nella forma della grande torre
campanaria, alta 111 m., del Duomo cittadino. Ecco il legame: ma, come
si sa, la torre campanaria di Cremona è nota come il Torrazzo..
- VENETO:
VENETI E WENEDI
La civiltà
dei veneti è documentata nel Museo astestino, e dal territorio di
Este proviene la maggior parte delle iscrizioni nella loro lingua, il venetico.
L’età dei veneti, popolo indoeuropeo, va dal VI sec. a. C. fino
alla latinizzazione, lentamente avviata nel III. Nelle carte che rappresentano
le aree lessicali indoeruopee nel II millenio, veneti e protolatini occupano
un’area a settentrione del Danubio, grossomodo corrispondente alla Slovacchia;
a oriente hanno i traci e gli slavi, a occidente i celti, a sud gli oscoumbri
e gli illiri, tutti mossisi poi a occupare le loreo sedi storiche. Si sostiene
– e di questo è assertrice la scuola archeologica polacca – che
una parte dei veneti si spostò a nord insediandosi nelle terre tra
l?oder, la Vistola e il Baltico. Questi veneti baltici vennero lentamente
slavizzati, mentre i nostri veneti si latinizzarono; nel I sec. a. C. i
germani che confinavano a est con loro li chamavano wenedi. Il rito della
cremazione, la presenza di figurine animali e di simboli legati al culto
del sole e della fertilità sono fra gli indizi dell’affinità
dei due popoli.
- TRENTINO
ALTO ADIGE: I MASI CHIUSI
La parola
"Maso" ricorre spesso nella toponomastica e nella linguistica altoatesina:
indica infatti una proprietà fondiaria, una masseria o una abitazione
temporanea connessa con l'allevamento. L'origine è nalla parola
latina "mansum" che indicava la quantità di terreno coltivabile
da una fagmiglia di coloni con una coppia di buoi o un solo aratro. Era
in sostanza l'appezzamento base della colonizzazione romana, su cui si
fondava l'ordinamento della proprietà agricola, la coscrizione
militare,
il pagamento dei censi. Mas è un un'unità aziendale
di montagna (sopra i 1300-1500 metri) agricola e di Allevamento, che viene
trasmessa, per eredità o per vendita, soltanto nella sua interezza.
E' un istituto che ha avuto assetto giuridico al Tempo di Maria Teresa.
L'estensione del Maso Chiuso dovrebbe essere tale da assicurare il sostentamento
di una famiglioa; la sua indivisibilità ha avuto effetti positivi,
evitando quel frazionamento eccessivo, col succedersi delle generazioni,
che altrove ha segnato negativamente l'agricoltura specie di montagna
o di collina, ma d'altra parte ha avuto discutibili riflessi sociali sulla
condizione dei fratelli del primogenito, praticamente esclusi dalla proprietà
e costretti a un ruolo subalterno.
- FRIULI
VENEZIA GIULIA: MIRAMARE
Candido
contro il verde del parco, di fronte al mare azzurrissimo del golfo di
Trieste, sembra un castello di favola. Architettonicamente è un
perfetto esempio di quel curioso stile eclettico che piacqui nel secolo
scorso. Era stato costruito per l'arciduca Massimiliano (fratello dell'imperatore
Francesco Giuseppe) che, tenuto lontano dal potere, ingannava la sua malinconica
noia con viaggi per mare. Napoleone III, per riaccostarsi agli Asburgo,
cui aveva fatto togliere la Lombardia con la campagna del 1859, fece in
modo che un'assemblea di notabili offrisse a Massimiliano la corona di
imperatore del Messico e ve lo installò con un suo corpo di spediozione.
Nel 1864, quando l'Asburgo partì per il Messico, il castello di
Miramare non era ancora finito ed egli aveva abitato il Castelletto nella
parte superiore del parco. Tre anni dopo, lo sfortunato principe austriaco
fu fatto fucilare da Benito Juarez. La moglie, Carlotta, figlia di Leopoldo
I, re dei Belgi, a Miramare impazzì.
- EMILIA
ROMAGNA: L'OMBELICO DI VENERE
Si trova
nella Secchia rapita del Tassoni questa fondamentale informazione ". l'Oste
ch'era guercio e bolognese, imitando di Venere il bellico (ombelico), l'arte
di fare il tortellino apprese". La sfoglia di pasta fresca, con cui si
fanno i tortellini è uno dei tre solidi pilastri su cui poggiano
le delizie gastronomiche della regione. Il secondo sono i condimenti, ricci
di corpo e di sapore, sposati all'uso copiosissimo del formaggio grana,
che qui s'ha da chiamare parmigiano reggiano, distinguendolo la legge dal
grana padano. Il terzo pilastro è il maiale: prosciutto di Langhirano,
salame di Felino, culatello di Zibello, mortadella di Bologna.
- TOSCANA:
IL PALIO DI SIENA
Il primo,
della serie da allora ininterrotta, fu corso nel 1656, il 2 luglio, festa
della Madonna di Provenzano, e fu vinto dalla contrada della Torre; nel
1701, per iniziativa della contrada dell'Oca fu deciso di ripetere il palio
il 16 agosto, festa dell'Assunzione, e da allora così si fa. Ma
la cosa a Siena e in Italia è molto più antica. Palio, viende
dal latino pallium che vuol dire MANTELLO, e l'abitudine di mettere come
premio di gare, di cavalli o d'altro, un drappo di stoffa preziosi, si
riscontra nel medioevo in molte città. Nel XVI e XVII sec.
vi fu anche la voga di bufalate e asinate, ovvero palii con bufale e asini.
Poi il palio si cristallizzò nella sua forma attuale, nella meravigliosa
cornice della piazza del Campo. E' nel 1720 la regola che
possano
scendere in gara solo i cavalli di dieci contrade sorteggiate fra le diciassette,
territoralmente e definitivamente delimitate da un bando del 1729. I nomi
delle contade sono: Aquila, Bruco, Chiocciola, Civetta, Drago, Giraffa,
Istrice, Leocorno, Lupa, Nicchio, Oca, Onda, Pantera, Selva, Tartuca, Torre
e Valdimontone. Altre sei contrade non esistono più (Gallo, Leone,
orso, Quercia, Spadaforte, Vipera), ma sei cavalieri in loro rappresentanza
partecipano al fastoso corteo in
costume
che è il lungo preliminare della corsa che si brucia in pochi elettrizzanti
attimi.
- MARCHE:
IL BRODETTO
E' il nome
della zuppa di pesce nell'alto Adriatico, da Trieste a Pescara. Ve ne sono
varianti infinite: in Romagna si proclama che ogni spiagga abbia il suo;
nelle Marche ha sette patrie: San Benedetto, Porto San Giogio, Porto Recanati,
Numana, Ancona, Falconara e Senigallia. Si discute se si debba o meno includervi
crostacei o molluschi. Nel brodetto marchigiano entrano spigolette, triglie,
cefali, sogliole, pesci rondine, seppie e calamaretti. Si cuoce in un soffritto
d'olio, cipolla, prezzemolo, aglio, pepe e sale. Il tutto si versa nella
zuppiera su fette di pane. Il Cònero fa da confine a due varianti:
a sud di quel promontorio si usa infarinare il pesce, si fa un sugo
denso, si adopera lo zafferano e le fette di pane sono abbrustolite; a
nord non si infarina il pesce, il sugo è sciolto, si adopera l'aceto
e le fette di pane sono solo strofinate con l'aglio.
- UMBRIA:
MARMORE
Con tre
salti le acqui del fiume Velino precipitano bruscamente dal livello della
piana di Rieti a quello della valle del Nera, 165 m. più in basso:
è la cascata delle Màrmore, la più alta d'Italia.
Il bacino della piana di Rieti è chiuso da ogni parte dai monti
della Sabina e dal massiccio del Terminillo; dai monti scendono acqui ricche
di sali di calcio che finiscono nel Velino; lo sbocco nel Nera, e quindi
la cascata, fu creato artificialmente dai romani nel 271 a.C. allo scopo
di bonificare l'agro reatino. I sali di calcio di cui si è detto
si depositano in incrostazioni: sono queste le marmore, cosiddette per
la somiglianza al marmo. Ma vi è un fenomeno singolare; di noma
un salto d'acqua, una cascata tede a erodere la soglia di cui precipita,
smussandola, al limite annullandola; qui al contrario i depositi calcarei
alzano progressivamente il gradino; in passato bloccarono il deflusso così
che la cascata dovette riformarsi a un livello più alto. Nella nostra
epoca un salto d'acqua ha troppa energia potenziale perché
non si
cerchi di utilizzarlo: è avvenuto anche per le Màrmore. In
effetti la cascata funziona solo a giorni e ore prefissati e allora è
uno spettacolo meraviglioso.
- LAZIO:
LE CIOCIE
La provincia
di Frosinone ha ancora, nel linguaggio comune, il nome di Ciociaria o Ciocieria
dalla calzatura con cui si presentavano, ai mercati di Roma, i contadini
di quell'area o i pastori che venivano a Natale a suonare la zampogna per
qualche elemosina. Un'occhiata ai rilievi della colonna Traiana dimostra
che le "ciocie", che erano portate comunemente anche da molti altri montanari
dell'Appennino, vengono direttamente dal costume di Roma antica: si tratta
di una suola
con punta
rialzata, mantenuta aderente e stretta al piede da cinghie di cuoio girate
tredici volte. Ora ovviamente, si vedono solo nelle figurine dei pastori
del presepe o nei gruppi folcloristici che ballano il saltarello.
- ABRUZZO:
I PIANI D'ABRUZZO
Quando le
piogge e i ghiacci iniziarono a modellare l'Appennino, i verdi piani abruzzesi
di oggi erano conche calcaree tra rapide fiancate di monti, a quote fino
a circa duemilla metri. Poi, l'azione carsica dell'acqua sulle rocce traforò
il fondo di queste conche con innumerevoli doline a imbuto e infine le
livellò. Nessun fiume, nessun torrente: solo acque selvagge che
spariscono in inghiottitoi, di cui talvolta uno solo è visibile
sul fondo di una supersite grande dolina, per tornare alla luce più
in basso, spesso assai lontano. Questo tipo di bacino montano chiuso, di
forma spesso allungata, è chiamato in Abruzzo semplicemente "piano".
I più tipici, generalmente a quote fra i 1200 e 1600 metri (come
ad esempio il piano di Campo Felice non lontano da Rocca di Cambio e quello
delle Cinquemiglia a NO di Roccaraso), suggestivi nella loro solitudine
e a lungo innevati, sono vasti pianori e pascoli circondati, più
in alto, da belle faggete. I bacini più bassi - e spesso più
ampi - modificati sia da diverse vicende geologiche, sia dall'azione dell'uomo
(come la bonificata conca del Fùcino), fanno ormai parte del paesaggio
agrario, umanizzato, della regione.
- MOLISE:
LE CAMPANE
Agnone è
terra di campanari, o più esattamente di fonditori di campane. La
campana del convento della Gancia di Palermo che, il lunedì di Pasqua
del 1282, dette il segnale dei vespri, era stata fusa in Agnone.
Con sapienti tecniche tradizionali nelle fucine si lavora, ancora oggi,
al fuoco di legna, con forme plasmate in terracotta. Ogni campana richiede
un tempo da 4 a 6 mesi, è accordata su una sua nota, ed è
battezzata con un nome proprio (la Pierpaola, la Giovanna, la Gloriosa).
Anche le campane di lontani templi buddisti dell'Asia sono molisane, come
quelle della basilica romana di S. Paolo fuori le Mura e
della cattedrale
di Buonos Aires. Il sacro si mischia al profano: viene dal Molise la Mundial
Bell, la campanella, fusa in molti esemplari, del campionato mondiale di
calcio.
- CAMPANIA:
L'ERUZIONE DEL VESUVIO
"Molte sciagure
sono accadute nel mondo" scrive Goethe in visita a Pompei "ma poche hanno
provocato altrettanta gioia alla posterità". Nella calda e limpida
mattina del 24 agosto del 79 d.C. ci fu l'esplosione. Plinio era a Miseno,
al comando della squadra navale, con il nipote (Plinio il Giovane) che
poi racconterà quel che avvenne in due lettere a Tacito. Vide comparire
sulla baia una nube a forma di pino marittimo, che oscurò il sole.
L'ammiraglio mosse le navi verso Ercolano, ma non poté prendere
terra; andò allora a Sabiae (Castellammare di Sabia). Sceso a terra,
la mattina seguente, saltato: soffocato dai fumi sulla spiaggia, morì.
Una pallida luce riapparve soltato il 26 a giorno inoltrato. Il "tappo"
basaltico che chiudeva il
cono del
vulcano era saltato: lava e blocchi erano stati scagliati in aria per centinaia
di metri, ricadendo al suolo in un apocalittico bombardamento, seguiti
da una fitta nube di materiali incandescenti. Pompei ne fu coperta per
più di due metri. Nella note, le pareti del cono vulcanico erano
crollate verso l'interno; ancora esplosioni, terremoti e vapori, poi ceneri
e polveri, che si distesero sulla città per lo spessore di un paio
di metri. Ercolano invece era stata investita da un torrente di fango surriscaldato.
Era avanzato con una certa lentezza e molti poterono mettersi in salvo.
Pompei invece era stata colta di sorpresa; ci furono più di 2000
morti, in parte minore, i primi, per la ricaduta della lava e i crolli,
i più soffocati dai
fumI o
dai gas.
- PUGLIA:
LA TARANTELLA
La vivace
danza popolare dell'Italia meridionale, conosciuta dal XIV sec. e affine
al "saltarello" è strettamente associata a una delle più
stereotipe immagini del popolo napoletano. Ma accanto a quella napoletana
esistono anche una tarantella siciliana, una calabrese e una pugliese.
Pugliese la fa l'etimologia, legandola a Taranto, ma complica le cose la
tarantola, il ragno detto nel Meridione "taranta". Riposa nel profondo
del folclore la credenza che il morso della tarantola produca "una sorta
di furore che eccita alla danza"; del resto "morsi dalla tarantola" si
dicono scherzosamente, nel linguaggio familiari, i
bambini
irrequieti. Il punto è che, nella cultura contadina meridionale,
il tarantolato era considerato un malato, di cui si
tentava
la guarigione con una specie di psicoterapia (dal sec. XVI) musicale: egli
era accompagnato nelle sue convulsioni da musiche di ritmo sempre crescente,
da cui traeva impulso per un ballo altrettanto veloce; la sudorazione avrebbe
liberato dal veleno, la fatica fisica dall'ossessione. Restando alla danza,
quale si conosce per musica e parole, essa è un "ballo di corteggiamento"
che si esegue in coppia, accompagnato da strumenti come mandolino, chitarra,
fisarmonica e
tamburello.
- BASILICATA:
LA LUCANIA
Cucina povera,
sapori antichi. Questo, in sintesi, il ritratto della tavola lucana che
sembra poter vantare l'"invenzione" della salsiccia. Il nome Lucanica,
attribuito da secoli alla salsiccia (e che al Nord è diventato luganega)
deriverebbe proprio da Lucania. E sembra confermarlo lo scrittore romano
Varrone, riferendo come i legionari avessero appreso dai lucani l'arte
di insaccare in un budello carne trita di maiale insaporita con spezie
e aromi. Oggi le salsicce migliori, sostengono i gastronomi, sono quelle
di Picerno, Maratéa, Montemiloni, Lauria. E si trovano sia
fresche che conservate, sott'olio o sotto la cenere, racchiuse in vasi
di coccio o di vetro.
- CALABRIA:
LE TORRI SUL MARE
Antiche,
tonde o quadrate, sorgono in luoghi di ampia visibilità sul mare,
e ora costituiscono un pittoresco ornamento delle coste. Talvolta si chamano
"torri saracene" ma l'espressione è fuorviante: in realtà
servivano per avvistare l'approssimarsi dei pirati e per quanto possibile
tenerli lonano a cannonate. Ce ne sono su tutte le coste italiane (più
esattamente su tutte le coste mediterranee), e quelle delle rive dell'Italia
meridionale fanno parte di un sistema messo a punto dagli spagnoli al tempo
di Filippo II, essendo il re di Spagna il grande avversario della marineria
turca che pirateggiava, in grandi o
piccole
squadre, contro le terre "cristiane". Si sa che i cristiani usavano lo
stesso sistema di guerra. A partire dal 1538 il viceré di Napoli
Pedro di Toledo, gran costruttore di fortificazioni in molte città
del vicereame, cominciò a far elevare o riattare quante più
torri di vedetta gli consentivano i fondi a disposizione; nel 1567 erano
313; negli stessi anni in Sicilia Ferrante Gonzaga ne alzò 137 sui
litorali orientali e meridionali dell'isola.
- SICILIA:
I PUPI
Hanno scudo,
corazza, schinieri e bracciali di latta, gonnelline di seta bordati di
passamanerie intessute di filo d'oro, elmi rutilanti con celate che si
possonon alzare o abbassare sui volti di legno. E spade, ciondolanti al
fianco nel fodero, ma che un ingegnoso sistema di funicelle consente di
far sguainare, impugnare e mulinare nei duelli che sono la sostanza dello
spettacolo. Il pubblico parteggiava per Orlando o per Rinaldo e inveiva
contro il Gano di Maganza (nel linguaggio comune è un taditore).
I Pupi si sa, sono le marionette di un teatro tradizionale siciliano, l'"Opera
dei Pupi" appuno; sono manovrate dall'alto con fili e stecche rigide dagli
"opranti", "teatrinari" o "pupari" che li hanno costruiti o prestano loro
la voce. La tematica è quella antichissima della tavola rotonda,
forse venuta in Sicilia nel bagaglio dei conquistatori normanni. Ma le
aramature hanno un'inconfondibile impronta almeno cinquecentesca e lo spettacolo
non è più vecchio dell'800, anche se ha
avuto il
tempo di suddividersi in due tradizioni, quella palermitana e quella catanese.
La più autorevole fonte degli opranti sono stati i "Paladini di
Francia", la rielaborazione del ciclio carolingio scritta alla fine del
'700 dal maestro elementare isolano Giusto Lo Dico. Oggi lo spettacolo
permane a Palermo in appositi teatrini e al teatro del Folclore di Acireale;
il clima culturale del momento è favorevole al recupero anche di
questa tradizione.
- SARDEGNA:
I BRONZETTI NURAGICI
Sono più
di mezzo migliaio e la loro allusiva e romota forza espressiva affascina
ancora oggi. Rappresentano, come in un campione sociologico, capi gentilizi,
uomini d'arme, sacerdoti e il popolo di pastori, ontadini, artigiani; sacerdotesse,
donne nobili e umili, altere, sguaiate o intensamente toccani. Ancora,
enigmatiche divinità, animali domestici, nuraghi, case di villaggio,
navi. Taluni particolari degli abbigliamenti militari ricordano le figurazioni
degli shardana, uno dei popoli di mare, invasori sconfitti dell'Egitto
dei faraoni. Sono ora al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: li fusero
ignoti artisti, a
cera persa,
come offerte votive, tra il IX e il VII sec. a. C. con il rame locale e
los tagno delle Cassiteridi (Cornovaglia) o dell'Etruria. |