Last updated: 6, Feb., 2012

  THALASSA. Portolano of Psychoanalysis

 

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 ATTI DEL CONVEGNO 2008         

 

COLLOQUE2008   

 

TEXTS ON LINE:

"Remembering, repeating and not working through: on the interactability in palestinian-israeli conflict" by H.-J. Wirth

"Return to Dresden" by Maria Ritter

 

"Trauma and Resilience" by Sverre Varvin

"The lost object-the object regained" by Gerhard Schneider

 

"Split loyalties of third generation children of Nazi's" by H.C. Halberstadt- Freud

 

"Psychoanalytic Thoughts on Israel and the Siege of Gaza" by J. Deutsch

 

"J'ai la  honte" de Abram Coen

 

"Remémoration, traumatisme et mémoire collective - Le combat pour la emémoration en psychanalyse"  de W. Bohleber

 

 

"De quoi témoignent les mains des survivants? De l'anéantissement des vivants, de l'affirmation de la vie" de Janine Altounian

  

 

 

 

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Tatiana Rosenthal and Russian Psychoanalysis

 History of Russian Psychoanalysis by Larissa Sazanovitch
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Questo testo è tratto dal discorso pronunciato da J.-P. Vernant (morto il 9.01.2007) nel 1999, in occasione del 50° anniversario del Consiglio d'Europa, e che è inscritto sul ponte che collega Strasburgo a Kehl:

<<Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia - confrontati a ciò che è altro - di scoprirsi senza

 "luogo proprio", senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo "dentro" rassicurante, turrito, stabile, e questo "fuori" inquietante, aperto, mobile, i Greci antichi hanno espresso sotto la forma di una coppia di divinità unite e opposte: Hestia e Hermes. Hestia è la dea del focolare, nel cuore della casa. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all'altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade ove guida il viaggiatore, quanto Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case.  Divinità che si oppongono, certo, e che pure sono indissociabili. E' infatti all'altare della dea, nel cuore delle dimore private e degli edifici pubblici che sono, secondo il rito, accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti di lontano. Perché ci sia veramente un "dentro", bisogna che possa aprirsi su un "fuori", per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e la parte di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell'Altro, l'uomo è un ponte>>.

  


 

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FRENIS zero

 

   organizza

ID-ENTITA'

MEDITERRANEE.

Psicoanalisi e luoghi della

riabilitazione.

 

 Sabato, 12 maggio 2012

 

Lecce, Grand Hotel Tiziano

viale Porta d'Europa

Accreditato con  n.8 crediti E.C.M.

                                                                     Illustrazione di Rosanna Pellicani                                                                                                                                      
 

 

 

  ABSTRACTS 

Giuseppe RIEFOLO  

"Costruzione del setting per la riabilitazione nelle strutture territoriali"

 

La psicoanalisi può essere un dispositivo di grande aiuto per i servizi psichiatrici territoriali nella misura in cui può essere utilizzata come metodo di interpretazione degli eventi piuttosto che come tecnica. In tal senso la teoria psicoanalitica permette da un lato di leggere i servizi come "campo" e per altri versi di utilizzare tutti gli elementi concreti che caratterizzano un servizio come elementi che concorrono necessariamente alla costruzione di particolari setting. Pertanto, non esistono setting specifici da riprodurre nei servizi, ma proprio la teoria psicoanalitica ci autorizza  e ci permette di costruire il setting più capace al fine di contenere i processi trasformativi delle terapie.  In questo senso gli elementi concreti che compongono i vari ambiti dei servizi saranno rispettati nel loro statuto di concretezza e, al tempo stesso, saranno utilizzati nella loro dimensione dinamica che assumono come elementi del setting. I concetti psicoanalitici di "dinamica del setting" (Bleger, 1967). di "Metasetting" (Liberman, 1972), di "situazione analizzante e analitico di situazione" (Donnet, 2001) e di istituzione come "campo istituzionale" (Correale, 1991). sono importanti per la costruzione di precisi setting istituzionali, ancor più se riferiti alle situazioni difficili e "concrete" dei percorsi riabilitativi. I setting si costruiranno anche tenendo conto in senso positivo dei concetti di "limite" (Riefolo, 2001) e di "discontinuità seriale" (Stern, 1995): il limite potrà essere assunto come definizione di campo di intervento piuttosto che come impoverimento di risorse e la "discontinuità seriale" diviene la possibilità di leggere essendo una continuità custodita dall'istituzione, le sospensioni ed i ritorni dei pazienti nell'arco lungo dei tempi e dei percorsi che solo le istituzioni possono tracciare.

 

 

 

 

 

 TAVOLA ROTONDA

"Esperienze riabilitative in Puglia: quale posto per la psicoanalisi?"

 

Maria Antonietta MINAFRA 

"Ripensare la riabilitazione"

L'intervento riprenderà nelle sue linee essenziali i temi delineati nell'articolo "L'esperienza del centro diurno".

 

Vito Calabrese 

"UN'ESPERIENZA DI SCRITTURA CREATIVA IN UN CSM DI BARI"

 

“Dio ama i racconti, per questo ha creato l'uomo”

 (Proverbio yiddish)

 

1.     le ragioni del narrare e la cura dei disturbi psichici

         Questo scritto è una riflessione sulle implicazioni psicologiche del narrare e su alcune affascinanti corrispondenze con le ragioni della cura dei disturbi psichici.
Queste considerazioni prendono avvio da un’esperienza Riabilitativa, un Laboratorio di Scrittura Creativa con pazienti psichiatrici di un Centro di Salute Mentale.

Tali analogie mi spingono ad allargare il raggio delle considerazioni su alcuni aspetti critici dei servizi territoriali caratterizzati in questa fase[1], a mio parere, da carenze nelle pratiche discorsive e dialogiche.        

Per la cura dei disturbi psichici i centri psichiatrici territoriali hanno posto in essere strategie molteplici, avvalendosi degli alleati e dei metodi più diversi, facendo prevalere il paradigma contestuale e comunitario[2] su quelli strettamente clinici e ambulatoriali.

Il Laboratorio di scrittura creativa è nato all’interno di una ricerca di strumenti riabilitativi sempre più efficaci per gestire il disagio psichico relativo alla sfera sociale dei nostri pazienti. Come sappiamo, lo scopo dell’intervento nella sfera riabilitativa è quello di ridurre i fattori di disagio e di rinforzare o ampliare la rete dei rapporti sociali del paziente. L’obiettivo è quello di ricostruire o di consolidare il ruolo sociale della Persona.

Siamo partiti dalla convinzione che il narrare storie non è una particolarità dei letterati, ma da sempre costituisce una forma importante di comprensione di sé e del mondo.
Abbiamo altresì osservato negli anni un aumento di interesse per la dimensione narrativa dell'esperienza umana, un paradigma affiorato in certi settori della psicologia post-moderna e delle scienze sociali che perseguono un pluralismo teorico in evidente antitesi contro il positivismo psicologico che con le sue semplificazioni  e riduzionismi ha dominato la scena per più di un secolo.

Questo accresciuto interesse ha attraversato le diverse correnti psicoterapeutiche,  strettamente connesso a quello del pensiero postmoderno e del costruzionismo sociale, producendo esiti complessi e contraddittori sulla teoria e la prassi. 

Una prospettiva postmoderna rifiuta i grandi  sistemi globali di pensiero, considerati come assolutamente “veri”. I postmoderni considerano le teorie come una semplice narrazione. Non esistono verità assolute, visioni che valgono più delle altre, ma piuttosto verità che hanno un valore e una validità locali, entro la comunità che le definisce e le accetta.  È esclusa la possibilità di un punto di vista che si pretenda come unificante, sintetico, sovraordinato.
La visione relativista e relativizzante non rischia di proporsi esattamente come ciò che pretende di superare ovvero come un punto di vista sovraordinato, o metateorico, come una sorta di nuova ortodossia?
La posizione relativista proposta dal postmoderno non conduce inevitabilmente al paradosso che potrebbe rivelarsi maligno?
Non è meglio riconoscere che è meglio che ognuno di noi segua alcuni concetti-guida, alcuni assunti di base pur sforzandosi di usarli criticamente, di mantenersi aperto e flessibile?
Non vi è il rischio di cadere nel vago, nell’indistinto, in una sorta di “new age” della terapia in cui tutto può andare bene e nulla ha davvero senso?
         Marco Bianciardi e Paolo Bertrando preoccupati dalle possibili derive, dai possibili rischi di queste posizioni ritengono impossibile non essere guidati da premesse epistemologiche, di non potere inscrivere  la propria lettura entro alcune linee guida e all’interno di alcune metafore concettuali fondamentali.

Alcuni critici letterari americani  vicini ad una sensibilità postmoderna hanno messo in discussione le letture “conclusive” di un testo di per se stesso “autoritaria”, nello stesso modo secondo alcuni terapeuti di scuola sistemica[3] bisogna dissolvere l’autorità del terapeuta, la sua condizione di esperto, l’autorevolezza delle sue ipotesi.

C’è la crescente consapevolezza, nella psicologia del profondo ad esempio, del valore puramente metaforico di molti modelli che, all’origine, furono proposti come verità indubitabili fondate su un’esperienza di valore oggettivo. Tali pratiche assumono un interesse particolare rispetto alle nuove concezioni neuropsicologiche sulla struttura e sulle funzioni della memoria, definite come un processo attivo di ricategorizzazione e ricostruzione, e non come una semplice ripetizione d'immagini fissate una volta per tutte nella mente. Vi è una sottile differenza fra rievocazione, confabulazioni e ricostruzioni plausibili.

Dopo Donald Spence[4] sappiamo che la “storia” in quanto racconto può non corrispondere alla realtà dei fatti stessi, e che è preferibile abbandonare la velleità di attingere al passato autentico del paziente a favore di un lavoro rivolto essenzialmente a proporre delle ricostruzioni che abbiano una qualità retorica, risultino convincenti e di conseguenza efficaci.

Gli stessi diversi approcci  psicoterapeutici  potrebbero essere visti come attività narrative che attingono alla “base poetica della mente”[5] e il lavoro clinico come un costante lavoro di attribuzione di significati, un processo mentale che coinvolge tutti i partecipanti e che emerge dalla condivisione di spiegazioni e narrazioni.

In discipline contigue alla Psicologia si sono sviluppate pratiche filosofiche  e pedagogiche come la Biblioterapia, un termine utilizzato dagli inglesi che indica lo strumento della lettura di testi come mezzo di crescita personale, e la Narrazione Autobiografica , vista come mezzo per far acquisire agli individui la capacità di costruire il proprio Sé, di  dar forma all'identità individuale, chiarire la dimensione progettuale della vita. Un movimento in controtendenza rispetto la mutazione storica che stiamo vivendo di una sempre minore importanza riconosciuta alla memoria, al ricordo e al legame col passato.

I rapporti tra la cura delle malattie e letteratura sono stati assai stretti fin dall'antichità, Apollo era insieme dio della medicina e delle arti,  e le origini del narrare si possono rintracciare nei rituali comunitari dell’uomo primitivo, nei riti della semina, della raccolta, delle cure mediche e così via.

E’ esperienza comune e condivisa far prova del carattere consolatorio o viceversa sconvolgente dell'espressione poetica o letteraria. Vi sono testi  o autori che descrivono mirabilmente le profondità dell’animo umano nella sua natura conflittuale, dilemmatica, contraddittoria  come  L'idiota di Dostoevskij, Bartleby lo scrivano di Herman Melville, l’opera di E.T.A. Hoffmann, Tolstoj, Cechov, Kafka, Edgar Allan Poe, Joseph Roth, Arthur Schnitzler o per  fare degli esempi di autori più recenti, Vladimir Nabokov, Agota Kristof, Thomas Bernhard, Il Profumo di Patrick Suskind, Patrick McGrath,  Appunti di un tifoso di Frederick Exley.

La Letteratura può essere uno strumento utile a trovare risposte; può dar voce a pensieri ed emozioni inespresse; può consentire di vivere vicende umane sperimentate da altri e di attribuirvi un significato prima sconosciuto; può smorzare il senso di angoscia dell'ignoto e del non conosciuto; può funzionare da riparo per rifuggire da una realtà scomoda; può spingere a comprendere meglio la realtà sociale e il mondo in cui viviamo[6]e soprattutto può aiutare nel riesame e nella comprensione del proprio passato. Qui le connessioni con il processo terapeutico sono evidenti e importanti.

 

2.     Quello che  e’ avvenuto lo conosceremo nel  futuro.

Il tempo terapeutico, il tempo autenticamente narrativo si configura come futuro anteriore. Il passato non è più il passato, lo scordiamo, e lo reinventiamo. Scrive splendidamente a proposito della funzione oracolare della conoscenza del passato Antonio Tabucchi: “. La scrittura, a volte, è cieca. E nella sua cecità, oracolare. Solo che la sua "previsione" non riguarda il futuro, ma ciò che successe nel passato a noi e agli altri e che non avevamo capito che era successo e perché. [...]In sostanza io non avevo previsto un fatto che avrebbe potuto succedere, ma avevo "previsto" un fatto realmente accaduto: lo avevo tirato fuori dalla non- conoscenza ( e dunque dalla sua non-esistenza) facendolo esistere per il solo fatto di formularlo in termini narrativi.[7]

Una conferma di questa forma di conoscenza narrativa si può ritrovare in un episodio dotato di grande carica emotiva dell’Odissea di Omero. Scrive Augusto Vino citando Hannah Arendt: “Incontriamo i versi decisivi allorché Odisseo, giunto alla corte dei Feaci, viene intrattenuto per ordine del re da un aedo, che canta alcune vicende della sua stessa vita, la sua lite con Achille: nell’ascoltare, Ulisse si copre il volto e piange. Non aveva mai pianto prima, certo non quando i fatti che ora sente raccontare erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato.”

A proposito della conoscenza narrativa nell’ambito della moderna psicologia cognitiva un contributo importante è quello di  Jerome Seymour Bruner che afferma che narrare serve a costruire la realtà. Raccontare storie, su sé stessi e sugli altri, a sé stessi e agli altri, è infatti - dice Jerome Bruner - "il nostro modo più naturale e più precoce di organizzare l'esperienza e la conoscenza".

Secondo tale autore le strutture narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che consentono agli uomini di interagire con il sistema di convenzioni culturali all’interno del quale essi vivono, consente cioè di appropriarsi di interpretazioni già esistenti dei fenomeni sociali, di attribuzioni generalmente condivise.

Nel raccontare vi è una forma di conoscenza sociale, cognitiva, affettiva che correla il nuovo con l’esistente attribuendo ad esso un senso. Si impara ad affrontare l’incerto, il non conosciuto attraverso un modo già sperimentato, veicolato da altri che hanno già vissuto e costruito queste conoscenze. La vita - ci dice Bruner - è un romanzo, è la storia che narriamo di noi stessi, senza intendere la memoria come pura trascrizione del passato. Del resto, cos'altro facciamo se non raccontarci costantemente? Così trasformiamo la nostra vita in testi letterari, che a loro volta risistemano la nostra vita.

Nel lavoro terapeutico si devono rintracciare le parole giuste, quelle che ci pongono in una comunicazione autentica con l’altro, quelle che strappano significati all’oblio, quella caccia senza fine verso il mondo non  scritto di cui parlava Italo Calvino come eterna sfida della Letteratura. Una sorta di bonifica dell’indicibile.

James Hillman afferma che la psicoterapia stessa è una particolare narrazione nel momento in cui il racconto del paziente diventa l’occasione per creare una differente visione del mondo e di sé stessi. La persona che sta “meglio” cambia il proprio modo di raccontare e descriversi.

La sofferenza psichica è generalmente caratterizzata dal vissuto di intraducibilità del proprio stato d’animo a se stesso e agli altri. Le patologie mentali spingono a far chiudere la persona in sé stessa.[8] Non si  trovano le parole giuste, una trama alle proprie esperienze di vita.

Spesso condividiamo le affermazioni dolorose dei nostri pazienti “quando sto con gli altri non so cosa dire, non ho niente di cui parlare, gli altri hanno degli interessi  e sanno cosa dire…”.

Tale spaesamento, tale incompetenza narrativa, è simile ad una patologia neurologica chiamata  dysnarrativia associata a neuropatie  come la sindrome di Korsakov o quella di Alzheimer dove l’incapacità di narrare provoca di conseguenza lo smarrimento del proprio senso di identità. Queste sindromi dimostrano che non vengono menomate solo la memoria del passato, ma più in generale le capacità empatiche[9], la comprensione del senso di sé ma anche dell’altro. La dysnarrativia è fatale per l’identità.

Gli altri richiamano lo stigma, giudicano, condannano, non capiscono, ti evitano. Ci si isola per proteggersi dagli altri e a lungo andare l’isolamento sociale viene vissuto come una condanna, come una conseguenza crudele del proprio disturbo. Nelle patologie psichiche resta sempre e comunque il vasto deserto dato dalla caduta dell’incontro, del fallimento della capacità narrativa con l’Altro.
           Trovare parole a questo proposito ha il significato di restituire il rapporto con il mondo. Il processo di scrittura ha innumerevoli chiavi di lettura ma qui si vuole sottolineare l’aspetto della restituzione della parola a chi fa più fatica degli altri a starci. 

Anche il silenzio[10] come la solitudine viene vissuto come una imposizione dettata dagli eventi.

Si scrive quindi spinti da una necessità ed urgenza  interiore, per condividere con se stessi  o con gli altri aspetti del vivere. Si scrive o si racconta, per sfuggire alla morte come Sheherazade[11] , o per difendersi dalla paura di perdere il controllo di sé.

Scrivere come contenitore stabile dove proiettare emozioni dolorose che, trasformate dall’Io poetico, diventano una sorta di revérie capace di bonificare gli stati emotivi insopportabili.

Attraverso la scrittura i pensieri caotici e le emozioni intollerabili trovano la loro forma all’interno della pagina bianca. Di recente la scrittrice Amélie Nothomb[12] ha affermato “…penso che ci sia un legame con la pulsione di morte, che provo molto violentemente e che reprimo. Come tutti ho notato che non è permesso uccidere le persone: scrivere è il mio modo di eliminarle in tutta legalità; perché per scritto si ha diritto […] sono nata senza piangere, e per i primi due anni, sono stata una bambina autistica. Ero un dio passivo, un tubo digerente. Dall’autismo, e dall’anoressia, mi ha liberato, transitivamente, la scrittura. Il nemico interiore si disarma nominandolo”.

Parafrasando la scrittrice Giulia Alberico si può dire che la scrittura è come un filo di Arianna che si dipana  e mentre ne tieni un capo, entri nei labirinti senza perderti, puoi incontrare minotauri e stanze su stanze, puoi negoziare con le ombre, entrare in contatto con lo sconosciuto. Molte delle domande che rivolgiamo agli altri nella nostra vita quotidiana sono richieste di storie. Questo ha a che vedere con il bisogno di ciascun uomo di vivere più di una vita e la sua stessa vita di viverla più di una volta. Ciò che viviamo solo una volta è come se non lo vivessimo affatto. Usiamo le storie anche per unire le nostre vite a quelle di altri.

La “scrittura creativa” nata come una pratica tesa a migliorare la capacità espressiva di provetti scrittori, nel nostro Laboratorio è stata adattata prestando attenzione al processo di scrittura in sé piuttosto che alla qualità della scrittura stessa. Abbiamo cercato di favorire la costruzione di rapporti umani dotati di significatività, condivisione e cooperazione. Un processo teso a  disarticolare  il quotidiano del paziente, creando punti di vista alternativi su di sé e sul mondo.

 

3.     le pratiche discorsive nei servizi psichiatrici territoriali

Per un operatore psichiatrico è importante onde evitare rischi di inefficacia delle cure  e di burn-out  derivanti dall’esposizione continua a vissuti di impossibilità, impotenza, scoramento, non perdere di vista l’aspetto peculiare della pratica riabilitativa che si dovrebbe rivolgere non tanto alla patologia, quanto alle risorse residue del paziente per accrescerle, svilupparne di nuove. Questo restituisce speranza, possibilità, senso.

Gli aspetti critici e faticosi del lavoro psichiatrico, quando il paradigma contestuale e multidisciplinare viene meno, quando viene meno la capacità di narrare e di conseguenza lo smarrimento del proprio senso di identità, spingono a volgere lo sguardo con un certo affanno soltanto agli aspetti problematici e patologici, tralasciando modi significativi della vita personale perché ritenuti poco interessanti, ma che potrebbero costituire importanti risorse intersoggettive, per i pazienti e per gli operatori.  Polster uno psicoterapeuta di scuola gestaltica sostiene che uno dei compiti di un clinico è quello di trasformare l’ordinario in straordinario facendo emergere ed  estrapolando dalle storie quegli ingredienti specifici che le rendono speciali.[13]

Nel nostro lavoro è importante mantenere una tensione nel riconoscimento dell’importanza di un atteggiamento riflessivo per non riprodurre aspetti oggettivanti di scacco relazionale, analfabetizzazione conoscitiva, disabitudine al confronto e chiusure individualistiche. 

Si  può creare  una sorta di restringimento percettivo e conoscitivo che sfocia in idee preconcette sulla ineluttabilità e inguaribilità delle malattie psichiatriche più gravi e si manifesta un mondo Medusa, la pietrificazione delle relazioni umane, quello a cui Calvino con la sua opera voleva sfuggire.[14]  Bisogna costantemente interrogarsi su come si possa controllare l’eventuale “patogenicità” dei nostri centri e  dei nostri interventi, prestare ascolto all’opinione del paziente, considerando le sue rinunce anche come un possibile segno che non lo stiamo aiutando, anziché,  solo, come resistenze al miglioramento.

Lo studioso delle organizzazioni Augusto Vino scrive: “Le organizzazioni innovative, “intelligenti”, sono[…]capaci di gestire la pluralità al loro interno, riconoscendo la ineliminabilità del conflitto.”   Scrive lo stesso autore: “In quanto impresa intellettuale, esse hanno bisogno di riflettere sulla base delle esperienze realizzate. Hanno cioè bisogno di pratiche discorsive e dialogiche. Pratiche che si possono definire piuttosto con la categoria del dialogo che con quella della comunicazione poiché richiedono di scambiarsi esperienze, di ricercare e proporre significati, di costruire visioni condivise – di riflettere – e non semplicemente di trasmettere informazioni, opinioni, decisioni. Dialogo è la costruzione di un mondo comune, definizione di un senso e di significati condivisi fra gli individui che al dialogo partecipano. Se apprendimento significa riflessione sull’azione e quindi implica scambiare esperienze e raccontare storie, allora esso richiede l’esercizio del dialogo piuttosto della comunicazione”.
         Ho l’impressione che con il passare del tempo nei nostri servizi in si assiste sempre di più a una sorta di situazione letargica, a-conflittuale  e a-critica,  una pratica che trasmette informazioni, decisioni anziché scambio di esperienze, di dialogo.

In questi anni dovrebbe essere evidente che le ragioni che alimentavano le istituzioni manicomiali si possono trasformare nelle maglie rigide di un’esasperata razionalizzazione psicofarmacologica e diagnostica. Oggi la psichiatria si è fatta esigente, più asettica, con aspetti oggettivanti non particolarmente visibili.

4.     Il Laboratorio di scrittura Creativa

La composizione del gruppo è stata eterogenea sul piano clinico, con un’attenzione verso pazienti con patologie mentali  gravi.  Nella biografia dei partecipanti c’era una comune passione per la scrittura privata o autobiografica, l’amore per la lettura di testi, per la poesia. A partire da questo aspetto s’è cercato con i pazienti candidati di rivolgere l’attenzione a questa predilezione tralasciata o ritenuta poco importante, di motivarli  a partecipare, ad offrire un contributo, di spingerli con curiosità a sperimentare un lavoro di gruppo sullo scrivere, leggere testi. Vale la pena di sottolineare le specificità  e le interdipendenze della riabilitazione rispetto la terapia. La terapia è volta a ridurre la malattia, mentre la riabilitazione ad incrementare la salute. Obiettivo della riabilitazione è il recupero di un ruolo sociale con un livello di funzionamento il più elevato possibile.

La conduttrice del Laboratorio, una drammaturga e regista teatrale, oltre a strutturare e dare una forma agli incontri ha dimostrato rilevanti capacità immedesimative, qualità “orizzontali”  e viscerali nel mettere a proprio agio utenti generalmente impauriti dal coinvolgimento, dall’esposizione personale, dalla paura di “sbagliare”.

 La scrittura e il raccontare storie  ha dimostrato di essere uno strumento malleabile,  facile da approcciare, con potenzialità inconsuete. Contrariamente ad altri apprendimenti laboratoriali di natura artistica i risultati della propria opera sono facilmente e immediatamente evidenti, e questo ha creato riscontri immediati sul piano identitario. 

Il Laboratorio di Scrittura Creativa è al secondo anno di vita. Questa volta le tecniche  utilizzate si sono ispirate all'arte di inventare storie della “Grammatica della fantasia” di Gianni Rodari, un testo che spingeva all’uso creativo e liberatorio della parola per provocare una serie di reazioni a catena, coinvolgendo il ricordo, i sogni, le analogie, l'inconscio.
          Abbiamo lavorato interagendo con la commedia universalmente nota di Molière, “Il Malato Immaginario” che è stato utilizzata come una sorta di canovaccio, un tema a partire dal quale si sono messe “nero su bianco” una serie di emozioni nate di getto, in un processo di scrittura spontaneo, nel qui-ed-ora del gruppo, delle vere improvvisazioni di stampo jazzistico.

Il gruppo, il tutto una decina di partecipanti, per quattro mesi si è riunito una volta alla settimana presso uno dei nostri Centri. Dopo aver letto il testo di Molière la conduttrice ha stimolato a riscrivere il testo, a omettere o reinventare alcuni personaggi, a trovare analogie fra tratti della propria personalità e quella dei personaggi, a collocare tutta la vicenda in una diverso ambiente e momento storico.

Tutto il testo prodotto, è stato scritto in gruppo durante il laboratorio. Non ci sono stati particolari problemi nella stesura e assemblaggio del testo. Un aspetto che ci ha sorpreso tutti è stata la comica partecipazione al testo.

Il testo di Moliére affronta una complessa rete di vicende umane a partire dall’ipocondria di Don Argante il protagonista, che denota la paura di vivere, di non farcela a sostenere i dolori ineludibili dell’esistenza.

E’ interessante notare che sia il testo originario che l’elaborazione permeata di umorismo fattane dal gruppo ha forse favorito una immersione e allo stesso tempo una presa di distanza dalle stramberie, dalle smanie dei personaggi, dalle complesse vicende familiari della commedia moleriana.

I partecipanti al Laboratorio nel tempo hanno manifestato una generale soddisfazione per le prestazioni offerte nell'ambito del Laboratorio.

E’ emblematica la storia di G. una delle  persone più coinvolte nel gruppo. Ci sono stati due momenti che l’hanno vista interprete in modo significativamente diverso. Nel primo abbiamo discusso della possibilità di far stampare il testo prodotto, e di pubblicare i nomi dei partecipanti. G.



[1] La rivista telematica Pol. It ha stimolato importanti riflessioni e considerazioni sullo stato attuali dei servizi psichiatrici e delle pratiche di psichiatria di comunità nel nostro Paese. Pol.it The Italian on line psychiatric magazine: Speciale Trent’anni di 180

[2] Una scelta tecnica ed etica obbligata in un sistema psichiatrico pubblico è quella della presa in carico dei pazienti gravi, intesa come modalità complessiva di accoglimento dei bisogni della persona e della sua famiglia, a  prestazioni gratuite . Questa necessità definisce pertanto, il compito dei servizi psichiatrici territoriali e ne genera alcuni assunti di fondo: la natura pubblica; la dimensione territoriale (al servizio di un territorio); la cultura multiprofessionale e la centralità del lavoro in équipe; l’estendere la propria azione ai processi di inclusione sociale del paziente grave, come l’avvio al lavoro, la costruzione di reti solidali; la lotta allo stigma che si articola da interventi preventivo-culturali ad azioni pratiche sui singoli individui; il lavoro con e per i familiari degli utenti.

[3] La “terapia narrativa” postmoderna ha iniziato a sovrapporsi  a quello di “terapia sistemica”, grazie a contributi significativi come quelli ad esempio di Michael White, Harold Goolishian e in Italia Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, Paolo Bertrando, Umberta Telfener.

[4] SPENCE DONALD P. : Verità storica e verità narrativa. Milano, Martinelli, 1987

[5] HILLMAN  J. (1983), Healing Fiction. (trad. it. Le storie che curano, Raffaello Cortina, Milano, 1984).

[6] La Letteratura può esaltare la bellezza ma anche raccontare l’inferno e rompere i muri dell’indifferenza, laddove le parole si intrecciano con la vita dello scrittore per poter esprimere con maggior forza l’indignazione verso soprusi e ingiustizie sociali. Jerome Seymour Bruner  afferma che la finzione narrativa è un’arte pericolosa, un conforto ed una sfida. Ha il potere di modificare le nostre abitudini nel concepire ciò che è reale  e ciò che è canonico. Esemplare è il caso del Il popolo degli abissi  e Il vagabondo delle stelle di Jack London, il coraggioso Gomorra di Roberto Saviano o La masseria delle allodole di Antonia Arslan. Il valore di questa letteratura è tale che qualcuno ha detto che dopo aver letto Se questo è un uomo di Primo Levi non si può dire di non essere stato ad Auschwitz.

[7] TABUCCHI A., Futuro anteriore: una lettera mancante, in “Tra sapere e potere. Percorsi della seduzione” (a cura di Rella F.), Pendragon, Bologna, 2002

 

[8] Scrive Bruno Callieri: “E' così che oggi noi potremmo ben considerare la psichiatria come lo studio non soltanto delle distorsioni della comunicazione interumana ma anche, e forse soprattutto, delle distorsioni antropologiche dell’incontro […] che indaga l’uomo nelle sue (primarie) capacità e incapacità di costituirsi in Noi, di declinarsi in reciprocità; e lo studia nei suoi surrogati vissuti del Noi, nelle sue molteplici forme di scadimento nell’anonimo e/o nel collettivo, là dove si assiste a una vera e propria “scomparsa del partner”, a un vanificarsi della sua co-presenza: si pensi appunto al paranoide e alle deformazioni che ivi assume l’incontro[…]”

[9] Gravi difetti della empatia sono presenti nei disturbi psicotici e nei disturbi gravi di personalità. In neuroscienze, la scoperta dei cosiddetti "neuroni mirror" costituisce la prima e più convincente dimostrazione neurofisiologica di un codice condiviso fra se e l'altro. Gli esseri umani cercano di comprendersi in termini di stati mentali: pensieri, sentimenti, desideri, credenze, al fine di attribuire significato all’esperienza e poter anticipare le reciproche azioni. Attribuendo uno stato cognitivo ed emotivo agli altri rendiamo il nostro comportamento comprensibile a noi stessi. Gli studi dello psicoanalista inglese Peter Fonagy  hanno evidenziato che l’assenza di capacità metacognitive, l’incapacità di comprendere la natura meramente rappresentazionale del proprio pensiero e di quello degli altri rende i bambini vulnerabili di fronte a un comportamento materno o ambientale poco coerente e lo sviluppo nel futuro di gravi patologie psichiche.

[10] In una scena del film Mishima, una vita in quattro capitoli di Paul Schrader del 1985 il protagonista afferma “Il mondo non sa che farsene delle parole, ma (…) le parole possono cambiare il mondo.” E’ banale osservare che sarebbe preferibile  tacere piuttosto che parlare in modo sconsiderato. Il silenzio è rigenerativo e spesso ci mette in comunicazione con il nostro essere,  con la natura. Chi ha rapporti con gli animali e con la Natura in genere, sa quanta comunicazione  fa degnamente a meno della parola.

[11] Non sempre si riesce a sfuggire al vuoto interiore, come dimostra il tragico suicidio di questi giorni  di uno dei più talentuosi scrittori della sua generazione David Foster Wallace o quello di  altri grandi scrittori come Virginia Woolf, Sylvia Plath, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Primo Levi, Yasunari Kawabata, Bohumil Hrabal.

[12] Le Sembianze Di Amélie Nothomb: Così Cambio Identità in “Repubblica” — 23 febbraio 2009   pagina 29

 

[13] Erving Poster mette in luce come le conversazioni digressive, quelle che  il paziente racconterebbe in una serata fra amici sono assai rare, escludendo così molti aspetti potenzialmente interessanti, come passioni, attitudini,  hobbies “e di conseguenza restringere il proprio campo di osservazione tanto da presentare, paradossalmente, solo una caricatura della persona vera”.

[14] Italo Calvino Lezioni americane, Milano, Mondatori, 2000

 

 

 

 

Vincenza Pellicani 

"Tra il legno e la vita…..La storia di Pinocchio"

L’esperienza del riabilitare racchiude in sé il fascino di una giostra di emozioni e fantasie opposte. Dall’ enfasi dell’ impegno ricostruttivo quasi a ricucire trame dolorosamente lacerate al frustrante sentimento di insuccesso nello sperimentare “frammenti di vita” senza più alcun ordine talvolta persi nello spazio e nel tempo e non più recuperabili. La trappola è che incapaci di riconoscere un valido percorso di ricostruzione si proiettino parti proprie sul paziente soffocando la di lui già compromessa identità per crearne una irreale che, sovrapposta ai resti della precedente la spazza via inesorabilmente.

Senza storia il paziente viene riabilitato sì ma ad un prezzo troppo alto: quello di essere alienato.

Così hanno inizio le avventure/disavventure di Pinocchio,  chiara metafora di disabilità..con un  indimenticabile avvio:….”C’era una volta un pezzo di legno da catasta…..” Il pezzo di legno in effetti fa rammentare l’inerzia e la passività di alcuni pazienti psichiatrici e il corrispettivo vissuto evocato dell’arte del modellare.

Ed è quello che fa il povero Geppetto quando mosso da una mera illusione di paternità commette il tragico errore di non accorgersi che quel pezzo di legno ha una sua già ben chiara identità, dei ricordi, una storia…Da subito l’impatto con la realtà costituirà il preludio di una tragedia:  Pinocchio delude ogni aspettativa umana del padre e al contempo perde la libertà di essere burattino mentre Geppetto decide di sacrificare tutto per lui diventando la vittima di sé stesso quando si accorge di aver concepito un progetto irrealistico che celava in sè una egoistica utilizzazione del figlio.

Nella metafora di Mangiafuoco ancora una volta Pinocchio è reso oggetto di proiezioni ambivalenti: egli è mosso da un uso utilitaristico e manipolatorio dei suoi burattini che utilizza come legna da ardere perché sulla base di una superficiale valutazione li considera senza prospettive future  ma poi resta coinvolto dall’affetto compassionevole per Pinocchio e per “riconciliarsi con la sua coscienza” lo libera offrendogli una ricchezza materiale (cinque zecchini d’oro) che sarà per lui fonte di molti guai: investire la disabilità di un valore in denaro significa uccidere la possibilità di crescita (Pinocchio è infatti impiccato ad un albero da due furfanti, il gatto e la volpe, che lo derubano). 

Accanto al vissuto del pezzo di legno da modellare c’è però anche l’ aspetto suggestivo del burattino che soggioga, esprime i suoi desideri segreti e i pensieri nascosti come se fosse una funzione della coscienza di Geppetto quella che il non uso ha reso di legno e che è desiderosa di esperienze che lo tormentano mentre è soffocata dalle istanze morali del Grillo parlante.

Ed è a questo punto che diventa legittimo soffermarsi su quella che forse è la contraddizione iniziale: la sofferenza della trasformazione si trova nella disubbidienza del figlio senza cui non ci sarebbe storia o nella  incapacità del padre (o dei padri, o di chi essi rappresentano) di dare un senso al viaggio. Utilizzando una chiave di lettura Junghiana si potrebbe pensare che il desiderio di lavorare il legno in Geppetto  è indotto dall’inconscio affinché egli rifletta sul suo processo di trasformazione. Il legno è simbolo di trasformazione, è  l’albero della vita ; è il simbolo di mercurio, la divinità portatrice del volere divino, ed è anche il legno della croce…In questo viaggio difficile Pinocchio porta con sé il padre la cui trasformazione coincide con il lavoro di educazione del figlio. La trasformazione dell’eroe altro non è che la rappresentazione simbolica del processo di individuazione della vera personalità  realizzabile solo con l’unione delle parti. Il lavoro di Geppetto sarà infatti completato dall’intercessione della Fata che altro non è che l’ Anima junghiana (la componente inconscia femminile della personalità dell’uomo). Jung scriveva che “…quando la mentalità logica dell’uomo non riesce ad individuare i fatti che restano occultati a livello inconscio è l’anima che lo aiuta a precisarli e a riconoscerli. L’anima sintonizza la mente dell’uomo con i più vitali valori interiori, aprendo così la strada verso la conoscenza delle profondità più recondite dell’inconscio…”

Il concetto di unione delle parti e di parallela trasformazione del riabilitante come condizione imprescindibile al processo di trasformazione e umanizzazione del riabilitando diventa a questo punto traducibile nell’atto riabilitativo psichiatrico. Per troppo tempo (e anche per il timore di deficitare di scientificità) l’attenzione è stata quasi esclusivamente rivolta a spiegare l’impatto del funzionamento biochimico sul comportamento anomalo perdendo di vista il concetto fondamentale che i processi fisiologici e psicologici sono collegati in maniera inestricabile e che l’intero individuo è la risultante di interazioni col suo ambiente. L’evidenza ha invece più volte suggerito l’eventualità che sia il processo di recupero a influire sui meccanismi fisiologici di malattie mentali gravi.

Il pensiero riduzionista che analizza la persona vagliandone i suoi aspetti parziali ha anche avallato stereotipi basati su assunti e interpretazioni scorrette della disabilità mentale che hanno avuto larga diffusione (il disabile mentale è un disadattato,è pericoloso, è una tragedia, è irrecuperabile) e che consolidano la prassi di identificare le possibili fonti di disturbo e di devianza, circoscriverle affinché siano facilmente rintracciabili e tenerle a debita distanza perchè non arrechino danno al resto della comunità. E’ quello che accade a Pinocchio-burattino  che pur mostrando la buona intenzione di ubbidire a Geppetto, Fata, e Grillo Parlante va a scuola ma non viene accolto con grande gioia e approvazione sia dal maestro che dai compagni e per questo ridotto in fondo alla classe.  Tutto ciò che esula dall’ordine precostituito della società e percepito come diverso è esperito come minaccioso quindi oggetto di ostilità e tentativi di rimozione.

Nel luogo dove viene relegato Pinocchio incontra Lucignolo che Jung chiamerebbe la “coscienza dell’ombra” e che nel soddisfacimento immediato di bisogni effimeri fa percorrere la strada inversa che lo trasforma in un asino anziché in un bambino.. Così come l’ abuso della residenzialità, sovente facile soluzione alternativa alla difficoltà di una reale presa in carico, spesso nasconde la trappola della istituzionalizzazione attraverso una omologazione dei progetti terapeutici, limitatezza della privacy, isolamento dalla comunità di appartenenza e  standardizzazione dei tempi e degli spazi all’interno dei quali si sviluppano tutte le attività   quotidiane. Per contro non riconoscere la disabilità e annullarla per costruire il “ragazzino perbene” più o meno integrato è una conclusione della storia che pure non convince; il rischio è di cancellare l’individuo…Qualche anno fa Antonio Guidi, allora Sottosegretario alla Sanità diceva :”Non sono i disabili che devono normalizzarsi alla società ma è la società che deve normalizzarsi alle differenze”.

Per ridurre gli stereotipi sociali occorre così entrare in contatto diretto con gli altri e impegnarsi in una dialettica più articolata e approfondita. Nella prospettiva di realizzare una “cultura della disabilità” lo sforzo deve essere compiuto sia dall’alto, ossia a livello della comunità scientifica che dal basso, ovvero da coloro che sono direttamente coinvolti e vicini ai disabili: famiglia, scuola, lavoro, comunità… E’ nello studio tra l’interazione del disabile e il proprio contesto di appartenenza la chiave di comprensione del disagio psichico  e il punto di forza della riabilitazione psichiatrica. Quando attraverso la pratica riabilitativa verranno introdotti nel nostro modo di teorizzare e di sperimentare concetti a volte in passato ritenuti provocatori di empowerment, guarigione, recupero, autodeterminazione, la riabilitazione psichiatrica, lungi dal perdere scientificità, diventerà per assurdo più scientifica proprio perché più specifica nelle sue tecniche e più rigorosamente basata su dati sperimentali. . In altri termini bisognerebbe invertire l’attuale tendenza a regredire alla forma mentis riduzionistica e deterministica  creando un linguaggio nuovo ed una nuova metodologia che analizzino  come gli elementi del processo di guarigione possano influenzare il funzionamento biochimico

Pinocchio è la metafora di un lavoro duro che viene stimolato e reso più facile dai sogni tenendo bene a mente che i sogni privi di azione sono ingannevoli e l’azione priva di sogni è erratica quanto insensata.

L’auspicio è che alla fine della nostra storia i disabili psichiatrici anziché un fardello possano rappresentare un punto di forza anche come fornitori di servizi per la salute mentale, fenomeno questo che va visto come una espansione e una evoluzione naturale del ruolo di utenti. La ricerca terminerà nel ventre della balena in uno straordinario momento di inversione delle parti dove sarà il figlio ad occuparsi del padre.

A questo punto ( Collodi non ce ne voglia) proviamo a riformulare l’avvio della nostra storia:

 

C’era una volta un pezzo di legno….da catasta?..No, era un legno sacro, un legno d’ulivo!

 

 

 

 Giuliana SCARSELLI 

"L’approccio psicodinamico nella terapia riabilitativa dei bambini diversamente abili e nell’intervento con le famiglie"

 

ABSTRACT

 

 

·        L’approccio psicodinamico con i genitori e il bambino nel primo colloquio diagnostico.

·        L’assistenza alla famiglia in funzione dell’elaborazione del lutto e del ritiro degli investimenti emotivo-affettivi per la perdita del bambino immaginario.

·        La presa in carico dell’ambivalenza emozionale, dei conflitti interiori e dell’enorme impiego di energia che comporta da parte dei genitori la costituzione di un autentico, adeguato amore per un figlio svantaggiato; l’accettazione di sentimenti contrapposti, giocati tra la tenerezza e il bisogno di amare, la rabbia, il rifiuto e l’impotenza.

·        Il superamento del diniego della realtà da parte della famiglia.

·        L’inizio della terapia riabilitativa e del viaggio dedicato alla scoperta di un figlio con funzioni biologiche imperfette, ma unico, con necessità di sviluppo nel campo cognitivo e della comunicazione, oltre che con tutti i bisogni di normalità nella sfera educativa, affettiva ed esperenziale.

·        L’importanza del setting in un ambulatorio riabilitativo.

·        La lettura della riabilitazione del bambino diversamente abile con riferimento alle tappe di sviluppo psicosessuale: dalla fase orale allo sviluppo del processo di separazione-individuazione per costruire nel tempo un rapporto di autonomia, con piccole dipendenze e appropriate protezioni.

·        L’intervento globale e sinergico con le forze in campo che ruotano intorno al bambino per la costruzione del Sé e delle rappresentazioni mentali, per sostenere, valorizzare e accrescere le sue competenze e le sue propensioni personali e per migliorare la sua interazione con l’ambiente circostante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                          

 

    english version

  version française in italiano
"THALASSA. Portolano of Psychoanalysis" is a production of  "Frenis Zero" revue (Dir. Giuseppe Leo) and it would be an attempt to link psychoanalysts and psychotherapists, belonging to the Mediterranean countries. Why would we put the Mediterranean Sea at the centre of attention of psychoanalytic culture? Because it continues keeping , in spite of a time of globalisation of human, cultural and economic exchanges, a central role of hinge between West and East, between cultural patterns dramatically faced with the contemporary problem of sharing universalizable patterns of "humanitas" and civilization. Psychoanalysis, with its group and mass-psychology functioning theories, can help in understanding the anthropological transformations concerning human societies and social institutions in the contemporary world. Our preminent interest is focused on the transformations regarding the cultural "koiné" that has been historically configured as mediterranean, and, moreover,  on the way psychoanalysis can provide interpretative means to investigate them thoroughly. Linking each other  psychoanalysts who, in spite of their different professional backgrounds, share a common belonging to the same cultural milieu, means consulting those who think about such changes from a point of view in which psychoanalysis keeps a preminent role. The means to create this link  would be the traditional ones (through international congresses and colloques), but also those provided by  internet and new communication technologies. "THALASSA. Portolano of Psychoanalysis" est une une production  de la revue "Frenis Zero" (Dir. Giuseppe Leo), née avec le but de mettre en réseau psychanalystes et psychothérapeutes provenants de Pays  Méditerranéens. Pourquoi voulons nous  mettre la Mer Méditerranéenne au centre de l'attention de la culture psychanalytique? Parce que celle-ci continue à tenir, bien que dans une époque de mondialisation des échanges humaines, culturels et économiques, un role central de charnière entre Occident et Orient, entre patterns culturels  dramatiquement confrontés avec la question toute contemporaine de partager de patterns universalisables de "humanitas" et de civilisation. La psychanalyse, avec ses theories du fonctionnement groupal et  des masses, peut nous aider à mieux comprendre les transformations anthropologiques concernantes les sociétés humaines et les institutions sociales dans le monde contemporain. Notre prééminent interet est concentré sur les transformations qui regardent cette koiné culturelle qui historiquement  s'est formée comme mediterraneenne , et sur le comment la psychanalyse peut donner des outils interpretatifs pour approfondir la connaissance de celles-ci. Mettre en liaison des psychanalystes qui, malgré les différentes traditions professionnelles de provenance, partagent l'appartenance au meme milieu méditerranéen,  veut dire interpeller ceux qui réfléchent sur tels changements à partir d'une perspective où la psychanalyse garde une place prééminente. Les moyens pou créer tel réseau seraient ceux traditionnels (séminaires et colloques internationaux), mais aussi innovateurs comme ceux-ci donnés par internet et les nouvelles technologies de communication.  "THALASSA. Portolano of Psychoanalysis" è una  produzione della rivista "Frenis Zero" (Dir. Giuseppe Leo), nel tentativo di mettere in rete psicoanalisti e psicoterapeuti provenienti dai paesi del Mediterraneo. Perché porre il Mediterraneo al centro dell'attenzione della cultura psicoanalitica?  Perché esso continua ad avere, pur in un'epoca di globalizzazione di scambi umani, culturali ed economici,  quel ruolo centrale di cerniera tra Occidente ed Oriente, tra patterns culturali  messi drammaticamente a confronto con la  problematica contemporanea della condivisione di modelli universalizzabili di "humanitas" e di civiltà. La psicoanalisi,  con le sue teorie sul funzionamento dei gruppi e della psicologia  delle masse, può agevolare la comprensione delle trasformazioni antropologiche  che riguardano le società umane  e le istituzioni sociali nel mondo contemporaneo. Il nostro precipuo interesse è concentrato sulle trasformazioni che hanno per oggetto quella  koiné culturale che storicamente si è configurata come 'mediterranea', e su come la psicoanalisi possa fornire strumenti interpretativi per approfondire  la conoscenza di esse. Porre in collegamento tra di loro gli psicoanalisti che, pur nella diversità delle tradizioni professionali di provenienza, condividono  l'appartenenza al medesimo milieu mediterraneo, significa interpellare coloro che riflettono su tali rivolgimenti da una prospettiva in cui la psicoanalisi mantiene un ruolo preminente. Gli strumenti per creare tale rete saranno quelli tradizionali (attraverso dei seminari e dei congressi internazionali), ma anche quelli innovativi offerti da  internet e dalle nuove tecnologie di comunicazione.

 

 

  

 

A (Aberastury-Avunculo)
B-C (Babinski-Cura)
D- E (Dador de la mujer-Ey Henri)
F- G (Fachinelli Elvio-Guilbert Yvette)
H-I (Haas Ladislav-Italia)
J-M (Jackson John- Myers F.W.H.)
N- O (Naesgaard Sigurd-Otsuki K.)
P (Pacto denegativo-Putnam)

 

 
     

 

 

 Co-Editors:

 

Giuseppe Leo - psychiatrist, Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia" (Lecce- Italy), editor "Frenis Zero"

Nicole Janigro - junghian psychoanalyst (Milan-Italy)

 

Comité scientifique/Comitato Scientifico/Scientific Board:

Janine Altounian -  essayst, Germanist, writer (Paris - France).

René Kaës - psychoanalyst, Professor of Clinical Psychology and Psychopathology (Lyon - France).

Predrag Matvejevic' - essayst, Slavist, writer (Zagreb - Croatia).

 

   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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