Site search Web search  


  LE RAGIONI SOCIALI E STORICHE DELLA DESTRA    

Introduzione
Il pensiero politico nazionale della destra
La difesa del lavoro nel pensiero della destra
Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo
La destra tra monetarismo ed interesse nazionale
La destra italiana tra irredentismo ed europeismo
Le ragioni sociali dell'Europa
Nazionalismo e mondialismo nel pensiero politico di destra
Unione monetaria, globalizzazione e stato nazionale
Relazione di sintesi
Dibattito

 
Scarica l'intero convegno in formato word cliccando su convegno.zip

 

La difesa del lavoro nel pensiero della destra

Relazione del Prof. Salvatore Hernandez della facoltà di Economia dell'Università di Roma "La sapienza"

E' rassicurante pensare, dall'una e dall'altra parte, che destra e sinistra, mosse da ispirazioni diverse e contrastanti, siano sempre state ideologicamente contrapposte ad abbiano sempre mantenuto indirizzi inconciliabili sul terreno politico-pratico. Ma la storia è meno pigra della nostra mente, e non si muove sempre secondo schemi preconcetti e pur essendo stata teatro di lette imponenti e, talvolta sanguinose, fra destra e sinistra, è anche luogo di complessi interessi e di incontri, "incoerenti" con i postulati della contrapposizione e di scambi di ruoli, all'interno dei quali occorre indagare piuttosto che acquietarsi su troppo facili ed astratte generalizzazioni. Così quando il 18 marzo del 1876, attraverso quella che al momento venne considerata una "rivoluzione parlamentare", la destra perse il governo della Nazione, moltio moderati presero il lutto, temendo che la sinistra ne avrebbe disfatto l'opera e rovesciato le conquiste. Dovettero, però, subito ricredersi, ammettendo sostanzialmente che il "Governo della sinistra era lo stesso di quello della destra", salvo che per qualche peggioramento riguardante la tensione morale e la scarsa risolutezza rispetto alle grandi riforme che, per dirla con Bonghi, faceva la sinistra a volte più attenta alle "cosette" che alle "cose". Al crollo della destra corrispose, piuttosto, un'altrettale caduta dei segni distintivi tra destra e sinistra - oggi si direbbe un crollo del bipolarismo - e una sorta di frammentione delle grandi compagini tra le quali non fu più tanto facile individuare i chiari segni differenziatori che non fossero nominalistici. Le divisioni avvennero semmai su singoli problemi, ma non tra destra e sinistra, bensì, come si direbbe oggi, per trasversalismi che dividevano all'interno ciascuna delle dua compagini. E così accadde anche per quanto riguarda la politica del lavoro. A cercare bene già nel 1848 si ritrovanno interventi di Cavour, sui giornali, diretti ad alleggerire l'orario di lavoro e a sostenere un più equo regime dei riposi ed è significativa del suo pensiero la risposta che egli diede alla Camera nel 1851 ad una interrogazione dell'on. Balbi Piodara sulla questione delle risaie: "Vi saranno sempre leggi sugli stabilimenti insalubri, vi saranno anche leggi per assicurare la condizone degli operai, senza che per ciò il Parlamento, il Ministero possano incorrere la faccia di aver fallito ai loro principi". Lo stesso Cavour, del resto, prima nel 51 e poi nel 61, fu tra i maggiori sostenitori della istituzione della cassa invalidi per la Marina Mercantile, (che costituisce la prima forma di previdenza libera nata in Italia) la cui defintiva istituzione, avvenuta con legge 28 luglio 1861, n. 360, egli non giunse a vedere, giacché la morte lo aveva colto il 6 giugno di quello stesso anno. Fatto è che in Italia, come del resto nell'Europa di Bismarck e di Disraeli, a preoccuparsi della cosìddetta questione sociale furono, per lungo tempo soprattutto uomini di destra o provenienti dalla destra che, a volte, approdavano in gruppi governativi della sinistra per effetto di conversioni su singole questioni o, per il sottolineato assottigliamento delle distinzioni. Penso in particolare al Berti, che dalla destra storica era passato alla sinistra per la sua posizione della tassa sul macino, e che, ministro nel governo Depretis nel triennio 81-84, ideò una legislazione sociale, o a Minghetti, che era stato Presidente del Consiglio della destra storica e che sosteneva la necessità di "prendere coraggiosamente l'iniziativa di tutte le riforme", o a Luigi Luzzati, anch'egli uomo della destra storica e che divenne lo "spirito lungimirante" che operava dietro la "Commissione consultiva delle Istituzioni di Previdenza e del Lavoro" e fu, nel 1880, tra i promotori di un progetto di legge sugli infortuni sul lavoro e tra i sostenitori di un intervento dello Stato che, in una con il contributo dei datori di lavoro concorresse a costruire una pensione per i lavoratori anziani. La verità è che in Italia il marxismo arrivò tardi e lo stesso socialismo visse, fino al 1893, una vita assai difficle e poco rivoluzionaria e che, a parte qualche raro romantico e romanzesco episodio di anarchismo, non vi fu spazio fino a quel momento per una effettiva combattiva e intransigente opera della sinistra, i cui parlamentari più scalmanati, (scarsi, per altro, anche nel numero) sostanziavano la loro principale battaglia rivoluzionaria nella baruffe con i commessi della Camera che non li facevano entrare in aula se non in frac. Naturalmente l'introduzione di una legislazione sociale non fu senza contrasi all'interno del mondo liberale nel quale, alla lungimiranza di alcuni si contrappose, da altri, una pretesa inconciliabilità tra liberalismo e protezione sociale, o si manifestò quell'indecisione con portava alcuni fautori della "tendenza dello stato moderno ad operosa ingerenza nei rapporti economici e nell'interesse delle classi lavoratrici", come il Marchese di San Giuliano, a rilevare l'incompatibilità di interventi efficaci con la necessità di salvaguardare il principio del pareggio nel bilancio dello Stato. Fatto significativo è, comunque, che nel discorso della Corona del 5 aprile 1897, può leggersi: "Il mio Governo vi rappresenterà disegni a favore degli operai acciocché negli infortuni e nella vecchiaia essi abbiano quei conforti da troppo tempo giustamente desiderati" e che nel 98 vengono istituite l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (L. 17 marzo 1898, n. 350), che non implicava, però, per la finanza pubblica, alcun sostanziale onere. Dagli inizi del 900 al periodo fascista corsi un tempo tutto dominato dall'influenza giolittiana, nella quale, di la da ogni riferimento specifico ai contenuti di idee e alla stessa posizione di Giolitti dentro e fuori del governo (com'è noto egli ne fu lontano a vonte anche per lunghi periodi, a volte significativi, come quello della guerra mondiale) intendiamo identificare il tentativo di ridurre le questioni politiche in termini di questioni di amministrazione. Si andava così ulteriormente stemperando, sulla questione sociale, specie dopo l'accettazione del cosiddetto quotprogramma minimo" del socialismo turatiano, la differenza tra destra e sinistra e lo stesso socialismo rivoluzionario veniva messo in scacco in occasione del primo sciopero nazionale politico del 1904, quando fu proprio la serena inazione del governo a consentira a Giolitti una strepitora vittoria elettorale nelle elezioni generali. Per Giolitti l'importanza della questione sociale era però, innanzi tutto, collegata alla pace sociale. La realizzazione di un programma socialmente illuminato avrebbe rafforzato le istituzioni, dividendo la sinistra. Tra i provvedimenti più significativi dell'epoca: la riorganizzazione della legislazioni infortunistica, allargata nel 1897 agli infortuni in agricolutra, la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (10 novembre 1907, n. 818); l'istituzione della Cassa Nazionale di maternità (L. 17 luglio 1910, n. 520), l'istituzione della Cassa Invalidi della Marina Mercantile (L. 22 giugno 1913, n. 767) che riuniva tutte le istituzioni di previdenza marinara, il riordino della normativa della Cassa Nazionale di previdenza per l'invalidità e vecchiaia, con le prime apparizioni, ancorché parziali, dell'iscrizione obbligatoria di determinati nuclei di lavoratori e con l'estensione ad alcune fasce impiegatizie (1919) e tanti altri provvedimenti minori, tra cui quelli per così dire d'occasione, perché condizionati dagli avvenimenti bellici. Il fascismo continuò, perfezionò e completò le iniziative previdenziale dell'epoca liberale e giolittiana. Mentre nei governi che lo avevano preceduto la politica sociale era in parte vista come rimedio alla necessità di mantenere una sorta di pace politica della nazione frenando ed anticipando (specie nel periodo giolittiano) gli assalti del socialismo, nel fascismo confluiva anche un'anima autenticamente popolare collegata ad un modo, per questa parta nuovo, di intendere l'unità nazionale. Così furono numerosi i perfezionamenti in materia di infortuni. Intervenne la creazione della INAIL all'epoca I.N.F.A.I.L., della attuale INPS all'epoca Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, nei quali vennero accentuati i compiti e d'intervento rispettivamente relativi agli infortuni e malattie professionali e ad invalidità, vecchiaia e superstiti, con estensione per questi ultimi rischi, alla base numerica e qualitativa dei soggetti assicurati e con più consistente impegno dello Stato. Ma dove si fece soprattutto sentire il valore della riforma e il senso dell'intervento statuale fu nel campo delle malattie, affidate fino ad allora alla malferma condizione delle mutue, che erano cominciate ad entrare in crisi già alla fine dell'ultimo decennio del secolo precedente; intervento che si concluse con l'istituzione dell'Ente Mutualità Istituo Nazionale Assicurazione Malattie (L. 11 gennaio 1943, n. 138) denominato, in epoca ormai repubblicana I.N.A.M. A parte gli interventi in materia di previdenza sociale, che - come abbiamo detto - si muovono, completandolo e portandolo a compimento, sul disegno bismarckiano, deve segnalarsi la particolare attenzione che, in quel periodo, la destra dedica alla posizione del lavoratore nel rapporto di lavoro, giacchè sono di quegli anni i provvedimenti più importanti, diretti a regolamentarlo: mi riferisco alla legge sull'impiego privato del 1926 (n. 562 del 18 marzo), al codice civile e al codice della navigazione, entrambi del '42 (rispettivamente del 16 e 30 marzo), e tra quelli, per così dire minori, alla legge sull'orario di lavoro (R.D.L. 15.3.23 n. 692, convertito in legge 17.4.25, n. 473) e a quella sul riposo domenicale e settimanale (L.22.12.34, n.370). E' la legge sull'impiego privato, infatti, che offre un supporto a quella dottrina giuslavoristica dei primi decenni del secolo, ed in particolare a Ludovico Barassi, che aveva costruito la risposta giuridica della borghesia alla concezione marxista della diseguaglianza sostanziale, riportando le parti nell'alveo della parità formale dei contratti di lavoro; ed è intorno a quella legge e dopo di essa che si svolge un ampio dibattito, preparatorio anche rispetto al codice civile, cui contribuirono le diverse anime della destra: quella propriamente sociale, quella liberale - nelle sue ulteriori sfumature e suddivisioni - e, quella cattolica, che ormai entrava di fatto, nel dialogo. Dibattito e dialogo che, a partire dal 1927, i giuristi svilupparono nella rivista "Il diritto del lavoro", fondata da Bottai, Guidi e Miglioranzi, e in cui trovavano ospitalità i migliori ingegni giuridici del paese: Francesco Carnelutti, Mazzoni, Greco, Arena, Riva San Severino, Sinagra, Prosperetti, Venturi, per ricordarne solo qualcuno. Concezione comunitaria ed istituzionale dell'impresa, dottrina dell'interesse nazionale trascendente l'impresa, tesi che riconducono il rapporto allo schema contrattuale, vengono a confrontarsi e a trovare infine, l'equilibrio nella concezione del codice civile il quale, esigendo che l'insorgenza del vincolo passi attraverso il contratto, consente all'imprenditore l'esercizio dei poteri necessari a soddisfare l'interesse perseguito attraverso l'impresa. E' una sintesi delle varie posizioni che pone al centro del sistema economico l'imprenditore, privilegiandone la posizione anche sul piano giuridico formale, formula qualche temperato omaggio all'interesse superiore della produzione nazionale e assegna al lavoratore una serie di tutele compensative ed inderogabili delle quali l'accordo delle parti individuali non può disporre. Il lavoro, comunque, è visto, in primo luogo, in termini di dovere sociale e da ciò trae ragione per essere tutelato "sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali", secondo la proclamazione del II principio della Carta del Lavoro (del '27) che ritrova chiari echi nell'articolo 2060 del codice civile ed ora negli articoli 4 e 35 della vigente Costituzione, dovendosi contemperare il complesso delle tutele con la necessità dell'impresa e con le disponibilità del sistema economico. Rispetto alla previdenza e al rapporto di lavoro deve subito osservarsi che anche la nuova Costituzione si pone in sostanziale continuità, come è dimostrato dagli scarsissimi interventi operati dalla Corte Costituzionale in danno del codice civile. Cade, invece il sistema sindacale corporativo, con le caratteristiche sue proprie, anche se una saggia lettura dei riferimenti operati nel Codice al Contratto Collettivo, ha consentito la sopravvivenza dei contenuti contrattuali fino alle intervenute modifiche di diritto comune ed anche se, di tanto in tanto, ma sempre di più negli ultimi 15 anni, la cosiddetta politica dei redditi e la conseguente concentrazione dei vari protocolli e delle continue intese governo-sindacato ne costituiscono echi, a volte di metodo, a volte di linguaggio, a volte persino di merito. La destra, comunque, nel dopoguerra e fino agli anni 90, non mostra di avere un disegno originale o propulsivo di politica del lavoro. E' l'iniziativa della sinistra che riesce sostanzialmente ad imporsi, sia ai governi centristi succeduti all'esarchia, sia ai governi di centro-sinistra impostisi per oltre un trentennio e che, utilizzando il sistema preesistente, riesce a modificarlo e a svilupparlo, in alcuni casi fino a stravolgerlo. Lo stato sociale di impronta bismarckiana, fondato sul principio delle assicurazioni, sulla solidarietà intracategoriale, sulla capitalizzazione, sul tendenziale pareggio del bilancio, sulla netta distinzione tra assistenza e previdenza, (quest'ultima peraltro, imposta anche dall'art. 38 della Costituzione), viene superato da una legislazione di stampo beveridgiano, che tende a confondere assistenza e previdenza, a spostare i termini e i tempi della solidarietà in un orizzonte esteso a tutti i cittadini e a più di una generazione, a rimuovere il problema dei bilanci, a sostituire il sistema della capitalizzazione con quello della ripartizione (rendendo evanescenti i patrimoni degli enti previdenziali); salvo a mantenere particolari privilegi per alcune categorie. Anche sul piano della regolamentazione del rapporto non vi è più raffronto di compatibilità tra le esigenze della produzione e gli interessi dei lavoratori. Viene addirittura teorizzata da alcuni la retribuzione come variabile indipendente del sistema e si giunge all'approvazione di provvedimenti quali lo statuto dei lavoratori che se, in parte, realizzano imprescindibili bisogni dell'individuo in conformità al cosiddetto pensiero liberal-socialista, non tengono però nel debito conto alcuni problemi dell'impresa; e se per un verso tendono a sorreggere il sindacato cosiddetto più rappresentativo, cercando così di convogliare ma anche di razionalizzare all'interno del medesimo, il dissenso e il malcontento che andavano invadendo la piazza, per altro verso creano o rafforzano eccessivamente, il potere sindacale in azienda trasferendovi una serie di spinte politiche troppo aspre e facilitando alcuni abusi da parte dei singoli sindacalisti. La destra si dimostra abbastanza impreparata all'impatto. Il partito Liberale, che è all'opposizione, non offre un modello alternativo convincente e si limita ad una sorta di resistenza nell'arretramento che assume, talvolta, modi incoerenti, come avviene proprio per lo statuto dei lavoratori, al quale si oppone, ma per il quale - pur protestando - vota. Negli ultim anni, per altro, il quadro - in qualche misura - cambia. Il baratto economico-finanziario nel quale ci siamo trovati ha reso inevitabile il dubbio sulla possibilità di finanziare il nuovo sistema previdenziale e la disoccupazione crescente ha imposto qualche interrogativo sulla possibilità di mantenere un sistema di tutele così intenso per coloro che hanno un posto di lavoro, quasi a dispetto di quanti non lavorano. Al rallentamento dei ritmi di crescita economica ed alle conseguenti fasi di riduzione della base produttiva, si sono aggiunti, negli anni '80, i processi di ristrutturazione e di riconversione incetrati sull'introduzione di nuove tecnologie: gli uni e le altre contribuendo a restringere i margini di operatività delle scelte politiche nella materia del lavoro; con la conseguente necessità dello stesso diritto del lavoro di rimettere in discussione se stesso o di ridursi nell'ambito di un'area residuale o, come si è anche detto, fra i "rami bassi" dell'ordinamento. Al di là del fattore legato all'andamento economico, nella evoluzione legislativa del diritto del lavoro, non si possono sottovalutare quegli elementi di tipo sociale e culturale, eteronomi anch'essi rispetto alle semplici logiche ispiratrici delle diverse forze politiche, ma comunque capaci di incidere profondamente sulle scelte legislative in alcune particolari circostanze. Basi pensare alla determinante spinta propulsiva che ebbero le lotte di classe del 68-69 (non inquadrabili seimplicisticamente nella politica di "destra" o di "sinistra") sulla approvazione del testo definitivo dello Statuto dei Lavoratori, o alla "rivoluzione della Magistratura", (se così si può dire) contro il regime dei partiti dei primi anni '90, che ha determinato un vuoto di potere politico colmato anche attraverso l'ulteriore occupazione di spazi istituzionali da parte del sindacato (si pensi, per fare solo un esempio, alle logiche del protocollo del luglio 1993). Inoltre, come terzo fattore di rilievo, non si può non segnalare che un ruolo determinante nell'intero sistema del diritto del lavoro (ed anche nella produzione legislativa in materia) ha sempre rivestito lo stesso sindacato, ed inparticolare il sindacato confederale. Inizialmente e sino agli inizi degli anni '60, è un ruolo meno centrale e certamente più consono alla posizione istituzionale ad esso proprio; ruolo che si è poi trasformato in una posizione determinante sulle politiche del potere esecutivo e sulle determinazioni del potere legislativo (anche, ovviamente, in materia di lavoro) nella lunga fase della concertazione, nata appunto, con l'esigenza (sopra ricordata) di ricercare il preventivo consenso delle parti sociali rispetto alle politiche generali del governo, consenso particolarmente rilevante in materia di lavoro, specie nelle scelte tendenti al peggioramento del livello della garanzie contrattuali e normative acquisite dai lavoratori. Un consenso che, come è ovvio, presuppone la mediazione con le parti sociali, con il risultato che la classe dominante perde la propria libertà di muoversi secondo le precise linee politiche collegate alla propria ideologia ed al proprio programma di governo, sulla base del consenso popolare già acquisito, essendo costretta a ricercare un ulteriore consenso sulle proprie decisioni, nell'ambito appunto del procedimento di concertazione: una doppia legittimazione che rende la determinazioni politiche ancor meno caratterizzate sotto il profilo ideologico ed ancor più legate a fattori di natura economica e sociale. E' la crisi delle forze che hanno condotto la vita politica del paese per quasi 50 anni ed, in particolare, della Democrazia Cristiana, che conglobava destra e sinistra insieme, che ha consentito la formazione dei due Poli e lo scioglimento della DC ed ha imposto differenziazioni e contrapposizioni, quanto meno formali, tra gli stessi. La necessità di distinguersi nasce però - come si è detto - in una fase caratterizzata dalla caduta delle risorse generali del paese, dalla quale è scaturita l'esigenza di modiricare, anche in senso peggiorativo, le condizioni economiche e normative di lavoratori subordinati. Ed è così che se nei rispettivi programmi troviamo i sintomi di modelli teorici diversi: la destra che propone il rilancio e la diffusione dell'impresa e del mercato imprenditoriale anche per risolvere i problemi del lavoro e della disoccupazione e la sinistra che, almeno in apparenza, parte dall'idea di uno Stato che, pur senza sostituire il mercato, lo promuove, nella realtà operativa soltanto la destra può essere abbastanza coerente con il programma esposto, detassando gli utili di impresa destinati al reinvestimento, agendo sull'incentivazione fiscale per determinare nuove assunzioni, adottando il metodo della flessibilità, con abolizione delle regole troppo restrittive, e riduzione della materia indisponibile per le parti individuali, ricondecendo la spesa e il sistema previdenziale entro limiti compatibili con determinati tetti di spesa e distribuendone gli oneri in modo più equo. Il centro-sinistra è, tuttavia, costretto, piuttosto, ad una serie di contraddizioni: giacché malgrado l'auspicio di una maggiore produttività deve cedere alla sinistra estrema sui problemi dell'orario di lavoro; predica anch'essa la flessibilità ma non può spingerla fino al contratto individuale, dovendosi arrestare di fronte allo smantellamento delle rigidità che derivano dalla contrattazione collettiva; cerca margini inesistenti per un ulteriore impegno pubblico che, in realtà, non esiste. E' così che, a volte, ancora oggi, per la scarsità dei mezzi disponibili, la sinistra è costretta a contorcimenti con i quali non realizza un progetto che possa dirsi autenticamente di sinistra, sviluppando azioni che in realtà, più opportunamente, dovrebbe svolgere la destra. Il campo in cui più scopertamente può cogliersi una differenziazione tra destra e sinistra è quello del rapporto con il sindacato. e infatti, seppure il quadro generale della politica del lavor rimanga segnato - negli anni '90 più ancora che in precedenza - da quelle esigenze di flessibilità e di adeguamento dei modelli tradizionali alle nuove forme di impresa (esigenze che si sono segnalate in predecenza), non si può rilevare come, almeno nel metodo - prima ancora ed al di là dei contenuti politici - l'esperienza del Governo di centro-sinistra segnali una diversità di approccio sul versante del sistema concertativo. Addirittura - secondo un autorevole commentatore - il cambio di maggioranza che ha portato la destra al Governo avrebbe "messo in discussione la stessa possibilità di continuare l'esperienza della concertazione sociale": basti pensare che subito dopo la formazione del Governo Berlusconi, la fase applicativa con la sottoposizione alle parti sociale del Dpef fu poco più che formale, mentre l'attuale esecutivo deve trovare continuamente un puntello nell'accordo con le parti sociali. La prima, vera - anche se rudimentale - esperienza di democrazia bipolare sembra quindi aver denunciato un diverso approccio delle forze politiche di destra o di centro-destra al fenomeno della concenrtazione sociale, con una minore disponibilità della destra a "negoziare" con il sindacato le scelte politiche a carattere generale. Una tendenza che si ritrova, peraltro, anche nei contenuti dei disegni di legge presentati dalle opposte fazioni politiche negli ultimi anni, laddove l'esigenza di flessibilità viene interpretata in modo differente: la sinistra tende, comunque, a privilegiare la mediazione sindacale, attraverso quella che viene difinita come flessibilità contrattata (nella quale si demandano al contratto collettivo la funzione di riempire gli spazi lassciati vuoti dal processo di deregolamentazione), la destra mira, invece, ad una deregolamentazione piena, senza cioè la mediazione sindacale. Ed un esempio emblematico di tali diversi impostazione è la recente legge sul lavoro interinale varata dal governo progressista, nella quale si ritrova un cospicuo numero di rinvii alla contrattazione collettiva (e la cui formulazione è risultata fortemente influenzata dall'accordo di luglio del 1993, nel quale si prevede come obbligatoria, ad sempio, l'indennità di disponibilità o si stabilisce - in modo inspiegabile - la non applicabilità dell'istituto alle qualifiche di basso contenuto professionale), laddove anche dalle risultanze del dibattito parlamentare risulta che l'opposizione di centro-destra avrebbe mirato ad una regolamentazione più snella, realmente in grado di raggiungere l'obiettivo occupazionale prefissato dal legislatore. E' forse questo - che è poi il piano del recupero della politica al suo compito autentico - il vero ed unico divisore possibile tra destra e sinistra.