Site search Web search  


 LE RAGIONI SOCIALI E STORICHE DELLA DESTRA    

Introduzione
Il pensiero politico nazionale della destra
La difesa del lavoro nel pensiero della destra
Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo
La destra tra monetarismo ed interesse nazionale
La destra italiana tra irredentismo ed europeismo
Le ragioni sociali dell'Europa
Nazionalismo e mondialismo nel pensiero politico di destra
Unione monetaria, globalizzazione e stato nazionale
Relazione di sintesi
Dibattito

 
Scarica l'intero convegno in formato word cliccando su convegno.zip

 

Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo

Relazione del Prof. Catello Cosenza della facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Roma "La Sapienza"

Devo dire che sono molto grato per questo invito che mi è stato rivolto perché effettivamente pur essendo un pensiero non episodico o casuale, essendo per noi un tema di riflessione costante, pure forse in certe occasioni risulta in qualche modo più obbligante fermarsi a riflettere su tali questioni. Devo chiedervi scusa perché, per la verità, essendo io inveteratamente abituato ad un ragionare semplice potrei apparire didascalico. Ma io definirò i termini che adopererò. e non vorrei apparire nemmeno sgradevole perché parto un po' da lontano, ma me la cavo in breve. Perché vorrei, come diceva quell'uomo politico irpino, fare un 'ragionamendo'. E allora partiamo dalla considerazione che la vita è cambiamento anche con riferimento al tema che mi è dato: "il pensiero economico della destra".
Alcuni cambiamenti talvolta avvengono anche in maniera traumatica e ci sono dei veri e propri strappi. Però badate che in qualche modo le radici devono essere conservate. Perché se le radici non ci sono, se non c'è una vestigia di questo tipo di pregresso, manca il senso dell'identità e si va nella vita come gli smemorati di Collegno. Naturalmente ognuno ha, nel pregresso, cose di cui andare molto orgoglioso, altre delle quali forse il tacere è più conveniente, però è un obbligo di identità il fatto di non perdere la memoria di sé. Quando si parla però di cambiamento bisogna riguardare anche in maniera specifica i cambiamenti che sono di carattere generale rispetto a quelli che hanno colpito specificamente un particolare tipo di orientamento. Diciamo che un cambiamento comune, qui c'è stato, una sorta di perdita di credibilità delle ideologie. Le ideologie erano progettualità e le progettualità in qualche modo avevano, dal lato positivo, una sorta di riflessione organizzata, organica, una forma di adesione in maniera più marcata, perché si sapeva a che cosa si aderiva ed allo stesso tempo nasceva anche una sorta di rigidità nell'adesione e forse anche una secchezza eccessiva per la difesa di questo tipo di identità; quindi talvolta anche addirittura piccoli fanatismi che a volte hanno creato anche grandi tragedie.
Con l'abbandono delle ideologie tutto è diventato un po' più pragmatico. Se diventa più pragmatico dal punto di vista della verifica degli effetti del cambiamento, noi abbiamo una evidente riduzione delle differenze perché la forza delle cose in qualche modo attenua, tutti devono confrontarsi con il reale e quindi anche le differenze si modificano. Però voi date un sentimento a voi stessi se sapete affrontare il reale con grande senso realistico ma collocandolo in un progetto. Progetto che può non essere legato in maniera così rigida ad uno schema ideologico, ma deve essere un progetto altrimenti diventa e rimane nell'effimero.
In questo caso anche questo tipo di attenuata differenza deve essere ricondotta ai canoni interpretativi. Badate che adesso io non mi occupo più di destra e di sinistra sia perché se ne è parlato prima e lo ha fatto Salvatore Hernandez; non lo faccio perché potrebbe sembrare sgradevolmente nominalistico ed anche perché quando i termini entrano nell'uso comune anche se posso attribuire io un particolare orgoglio nel rivendicare il termine, è opportuno che lo si accetti. Per evitare equivoci dobbiamo anche dire che se, come è stato giustamente notato, coloro i quali storicamente sedevano a destra conservavano, e poi oggi vediamo che quelli che prima stavano a sinistra e che prima volevano innovare oggi conservano, ebbene noi non siamo mai stati prima conservatori e oggi innovatori. Siamo stati sempre in qualche modo un po' novatori da un certo punto di vista, ma non per un gusto di nuovismo, ma perché avevamo il senso dell'interpretazione del destino di questa collettività e queste persone che pensavano in questo modo avevano questa ansia del domani. Come diceva una canzone: "Il domani ci appartiene".
In questo senso così vivo di appartenenza c'era anche questa necessità di prevedere e di provvedere; quindi si pensava e si organizzava. Per cui una linea di pensiero di quello che noi oggi possiamo fare dobbiamo averlo. Quando la destra alla quale ci riferiamo noi arriva sulla scena politica del nostro Paese, arriva in maniera straordinaria e con una carica innovativa che risulta antagonistica rispetto ad un modo di pensare che sembrava dover travolgere, prima con il consenso e poi con la forza, le istituzioni allora esistenti. Quindi noi abbiamo avuto un tipo di assetto che è stato antagonistico, un modo di pensare e di organizzare la società che sembrava incombente, e questo pure deve diventare un elemento ermeneutico nel nostro modo di pensare l'economia.
A questo punto dobbiamo anche dire che cosa è l'economia. L'etimo della parola lo dice: è la casa, sono le cose della casa nelle quali una regola ci deve essere. Ma l'economia come la abbiamo sempre vista noi è un assetto della casa che deve essere coerente e subordinato ad un modo di pensare alla società ed alla vita. Non abbiamo mai avuto, nel nostro pensiero economico, una sorta di deplorevole confusione per cui gli obiettivi che noi potremmo chiamare per semplicità 'economicistici' diventavano informatori di sé. Tutto il contrario. Noi non abbiamo mai pensato in maniera strutturalista, meccanicistica, non abbiamo mai obbedito a quella dialettica materialistica che sembrava dominante quando i nostri antecedenti sono arrivati sulla scena politica del nostro Paese. La destra, quindi, sorge in antitesi a questo materialismo storico. Diciamolo con molta franchezza. E vede con franchezza proprio nell'economia la scienza dei mezzi; mentre, invece, è la politica che deve porre i fini. Quindi anche coloro i quali si sono occupati in maniera intensa alla organizzazione dell'economia in quel periodo hanno saputo che non facevano altro che organizzare i mezzi in funzione dei fini che, in qualche modo, appartenevano ad altra sfera. E questo richiama una componente della destra la quale ha sempre avuto una sorta di gerarchia di pensieri. L'etica prevaleva o informava la politica e la politica era quella che dominava l'organizzazione economica. Tutto quello che ne è scaturito scaturiva da questo tipo di impostazione della vita.
Quali erano le visioni economiche nel momento in cui noi siamo arrivati sulla scena in maniera così prepotente e poi, alla fine, drammatica, per la vita del nostro Paese? Da un lato c'era questo insorgere di questo modo nuovo di organizzare la società, quello basato sull'etica materialistica, che sembrava travolgere un po' tutti. Dall'altro lato, c'era un modo precedente di organizzare la società, e questo nasceva nel solco della tradizione classica dell'economia politica la quale si basava, nella sua ricostruzione complessiva, nel modo di capire il funzionamento dei sistemi economici sulla base di una osservazione immediata, elementare, come hanno fatto sin dall'inizio quelli che, poi, in maniera robusta, come studiosi, ci hanno offerto il frutto dei loro pensieri. Come era possibile che una società che, apparentemente, non aveva un architetto, non aveva un organizzatore, riusciva a rendere un'organizzazione, a consentire il raggiungimento di certi fini? La risposta era quasi immediata, ci doveva essere qualche cosa sotto. Qualche cosa che razionalizzava queste spinte apparentemente spontanee ed assolutamente non coordinate. Con un po' di osservazione si trova che questo qualcosa sotto è il mercato.
Lo si trova nel mercato perché io posso, nella casualità dell'organizzazione, come obiettivamente era, della società, fare quel che mi si dava il destro di fare o che preferivo fare. Ma rimane sempre il dubbio che questa azione svolta sotto specie individuale avesse poi una valenza sociale. Se arrivava uno e diceva : 'io ti pago quello che tu mi dai', a questo punto, quell'altro, di fronte a me, che mi pagava, rappresentava un interesse che, nell'ambito di una società da lui rappresentata, prendeva quello che io avevo fatto sotto specie individuale e lo convalidava socialmente. Il mercato diventava il luogo della convalida sociale delle iniziative prese dai singoli. Ma non era solamente questo. Era il potente elemento di razionalizzazione di una sorta di società spontaneistica che, in qualche modo, sembrava più vocata al disordine ed alla confusione che non, invece, alla organizzazione razionale. Di qua l'insinuarsi di un pensiero consolatorio che vi fosse, nella società, lo stesso tipo di armonia prestabilita esistente nella natura. Nasce questo principio giusnaturalistico che guida ancora oggi i miei amici come Antonio Martino, i quali sono ferocissimi in questo tipo di intuizioni. Quindi nasce questa sorta di liberismo, nasce proprio di là. Badate che, quando noi siamo arrivati sulla scena del nostro Paese, non è che questo non esistesse, esisteva! Ma aveva già dato luogo ad una serie di inconvenienti molto gravi. Ed erano questi inconvenienti molto gravi che avevano aperto lo spazio ai nostri avversari i quali in maniera potente, anzi prepotente, stavano per prendere il potere. Quindi noi ci siamo posti, non per un desiderio di armonia, in una condizione mediana, ma ci siamo posti, per il bene del Paese, nella posizione di ricerca di un'altra strada. Strada che non era l'una che sembrava imporsi a tutti noi, ma non era nemmeno quell'altra che, in qualche modo, aveva mostrato le sue pieghe sin dall'inizio.
E questa ricerca ha dato luogo ad una serie di assetti che adesso io posso individuare proprio sulla scorta di quanto ha detto, in maniera straordinariamente lucida il mio amico Hernandez, noi abbiamo avuto, in sostanza, che lo stato sociale è sorto quando l'evoluzione dei sistemi economici occidentali ha consentito di mettere sul tavolo, oltre che una scodella di minestra, anche qualcos'altro. Non appena la scodella di minestra è arrivata, soddisfatti i bisogni immediati, è sorto l'altro bisogno, che è parte assolutamente non evitabile dell'animo umano, l'ansia del domani, la preoccupazione. Che cosa succede quando io esco dal circolo del lavoro, che succede se per caso nell'andamento alterno dell'economia perdo il lavoro, che succede se mi si rompe una gamba mentre io lavoro? Nasce la previdenza e l'assistenza. In questo caso il sistema economico era in grado di provvedere. Ma come si può provvedere in questo modo? Allora qui, anche Pennisi ce lo ha detto, e prima ancora ce lo aveva detto Hernandez, tutto quello che era stato fatto prima e cioè l'architettura nata in quel regime che, badate, ha funzionato per 14 anni solo, perché fino al' 26 era una cosa mezzo e mezzo. Con le leggi del' 26 è diventato effettivamente un regime complessivamente presente in tutta la sua forza e nella capacità di esplicare quello che, in qualche modo, aveva in animo di fare. Nel 40 si fa la guerra, la guerra diventa un momento di assoluta crisi per tutti. Sono 14 anni. Ditemi voi se non è un monumento che la storia ha fatto a quei 14 anni. Ne sono passati altri 50 e stiamo sempre a parlare di quelli. Ma c'è una ragione. Perché l'architettura finanziaria del paese fu fatta allora. Perché l'organizzazione, come giustamente ha detto Hernandez, fu completata e fu razionalizzata. Completata e razionalizzata in condizioni molto precise. Avendo in mente sempre non tanto un problema di risarcimenti, quanto un problema di ordine nella vita della famiglia nazionale. Era un problema di giustizia ma non intesa come giustizia risarcitoria. Era il sentimento dell'appartenenza ad un tipo di comunità che, se è comunità, non può non avere una regola e non può non avere un comportamento leale tra i suoi contraenti. Di qua quello che allora sorse e che fu lo Stato corporativo, che è stato consegnato a quella tipologia ed a quel tipo di organizzazione, e che nessuno può avere in mente di risuscitare. Però per interpretare il pensiero coerente di allora, la cosa era abbastanza evidente: se tu hai il sentimento che qualcosa ci deve unire, allora lo devi praticare anche nel modo di pensare. Badate che alcune frasi, che sono rimaste celebri, tradivano indirettamente come punte di un iceberg, come un modo di sentire comune il significato profondo della appartenenza ad una comunità. Tu puoi fare la guardia ai bidoni di benzina. C'era l'esaltazione del tipo di fedeltà ad un'idea prescindendo da quello che era la funzione specifica che tu svolgevi. Abbiamo avuto ministri, allora, che sono partiti per la guerra come semplici soldati, e sono rimasti anche come soldati o come camicie nere, senza gradi. Da questo punto di vista, c'era ma non era solamente retorica. Io tengo ancora per amico, perché è vivo in me, Renzo De Felice e lui mi ha intrattenuto più volte su questo; - in un' ultima e un po' amara occasione ricordo quando lui, in maniera sorridente, o dovrei dire, un po' meglio, irridente, disse: "Ah, avete scoperto che il fascismo è liberticida!".
Vedete, io, per ragioni puramente casuali, ho dovuto assistere all'agonia di una grande Banca. La persona che è venuta a fare da necroforo in questa Banca aveva un contratto di due miliardi all'anno, voluto dalla Banca d'Italia. Io credo che in quella Banca colui che svolgeva i servizi di pulizia avrà preso 20 o 30 milioni all'anno; 25 milioni all'anno; 25 milioni in miliardo ci stanno 40 volte e due miliardi portano ad 80 volte la differenza fra chi sta a capo e chi sta alla base di questa organizzazione di una banca che sta morendo. Al contrario, durante il fascismo il primo presidente dell'IRI prendeva uno stipendio che era sei volte più alto dell'usciere. Quindi lo "spread" è aumentato da sei a ottanta volte. Badate che io non sono uno stupido e so che la remunerazione era la stessa. Solo che quando si parla di ciò che accadde all'inizio degli anni 30, la remunerazione era più un sentimento di gratificazione perché si costruiva, e poi accanto a questo c'era anche quello che necessariamente doveva esserci. Oggi il sentimento che si costruisce sul fango, per non dire peggio, porta ad una forma di desiderio di avere gratificazione solamente sotto il profilo puramente materiale. Per usare una bella frase, ricordando quel che disse Mitterand : "Io ho letto il racconto di viaggio di un Cavaliere medioevale. Camminava e vedeva persone che stavano a faticare dietro le pietre e chiedeva: che fate? Raccogliamo pietre. All'altro: che fate? raccogliamo pietre. Poi un giorno ha incontrato un altro gruppo ed ha chiesto: che fate? Facciamo una Cattedrale". C'era il senso del progetto, c'era il senso dell'avvenire. Anche là c'era il senso della progettazione e dell'accrescimento comune.
Badate che questa storia del corporativismo faceva calare in questi ideali comuni il sentimento che è perenne nella vita della comunità, a prescindere da fascismi o non fascismi, ed è il senso della coesione nazionale. Lo calava attraverso quelli che si riteneva dovessero essere i fini di quella determinata comunità. Tutto quanto organizzava anche socialmente, aveva una ricaduta sotto il profilo economico. C'era uno spostamento di reddito che veniva fatto alle classi che, potremmo dire, usando i termini di oggi, subalterne. Questo avveniva attraverso questo tipo di previdenza ed assistenza. C'erano altre cose: l'energia elettrica la pagavamo carissima. C'erano anche allora quelli che, con felice espressione, Tatarella ha chiamato i poteri forti, i quali hanno avuto anche un peso, diciamolo francamente. Ma quando un Paese entra in condizioni di crisi deve avere la pace e per averla deve, forse, anche rallentare quegli inevitabili processi di giustizia calata nella organizzazione che avevano cominciato, e che poi hanno avuto solamente questo drammatico annuncio nell'epilogo tragico della Repubblica Sociale Italiana. Naturalmente lo sviluppo di questa situazione ha portato anche dialettiche interne. Vorrei ricordare che su questa storia del corporativismo in cui c'era il sentimento che si faceva qualcosa che andava al di là della mera prestazione per ottenere un tantundem da spendere dal bottegaio, il sentimento che si partecipava anche in condizioni subalterne ad un grande progetto, doveva diventare generale proprio attraverso la presenza delle corporazioni. Naturalmente però c'era la corporazione degli operai e poi c'era la corporazione degli imprenditori. L'autorità pubblica che stava al centro storicamente, deve essere detto, fu quasi sempre dalla parte che era più debole e bilanciò la forza che gli altri imprenditori organizzati in questo tipo di corporazione finivano per avere, perché sapevano di più, avevano gli uffici studi, si organizzavano.
Ma il sentimento era che tutti dovevano capire che lavoravano per un interesse generale. Naturalmente questo tipo di evoluzione c'è stata. Nel' 33 c'è stato un Convegno a Ferrara in cui un grande filosofo, Spirito, propose che questo corporativismo di carattere giuridico in cui tu hai qualcuno che all'interno gestisce, media e risolve, calato nel modo concreto di operare, impresa per impresa: facciamo la corporazione proprietaria. Se c'è veramente quel sentimento dell'agire comune facciamo che questo appaia manifesto nel senso che se sono casuale io come operaio, sei casuale anche tu come padrone. Vediamo questa casualità proprio nella dedizione comune, semmai la concorrenza sia a chi è più fedele all'interesse generale che tutti ci deve legare. Tutto ciò viene fatto non per fare né l'apologia né l'elegia di questo, ma per dire che questo che ermeneuticamente rende all'evidenza che tutta l'organizzazione economica scaturiva dalla percezione, che è importante, per avere una coesione di qualunque gruppo, avere una regola, avere un senso di giustizia. Tutte le questioni economiche sono state trattate proprio per dare una regola ed un senso di coesione alla collettività nazionale. Questa cosa io adesso la rivendico per dire che proprio, se questo è, noi al di là di questa visione della sacralità degli obiettivi da conseguire, mutate drammaticamente le condizioni del modo di gestire la nostra esistenza, noi ci dobbiamo ricordare che siamo una comunità nazionale. Badate che questo senso della disgregazione lo abbiamo avuto evidente in questo abbandono ignobile che abbiamo avuto di frange della nostra popolazione che erano scolte avanzate della nostra comunità, marginali che hanno difeso col sangue queste nostre terre e che noi abbiamo avuto vergogna di ricordare per tanto tempo Questo è un senso di autolesionismo, un senso di mancanza di rispetto di se medesimi: un Paese deve accettare la sua storia così come è. Bisogna recuperare questo senso di adesione nazionale.
Quali sono le forme in cui oggi può concretizzarsi questo nostro modo di pensare? Io vi ricordo ancora che in quella visione atomistica della organizzazione sociale, quella basata sul mercato, in cui c'era quella idea dell'armonia prestabilita, vi erano due aspetti. Uno dei quali era molto importante e doveva essere necessariamente conservato ed un altro che lo era un po' meno. Uno era la difesa dell'individuo. Il senso della libertà deve essere un presidio che noi non possiamo immaginare venga tolto. Noi abbiamo sempre pensato di avere la possibilità di espandere l'area del nostro consenso attraverso la convinzione. Avendo fatto la fatica di capire siamo in grado di spiegare e di convincere. Questa è la nostra dichiarazione irreversibile contro la violenza. Perché dovrei fare violenza ad uno se in realtà io riesco a convincerlo? Allora siccome noi siamo stati sempre sicuri della nostra buona causa ed anche fiduciosi della capacità di comprendere, da parte di quelli che ascoltano, quello che noi diciamo, noi siamo assolutamente e non opportunisticamente in difesa dei presidi della libertà individuale. Però una esaltazione dell'individualismo fuori misura dà luogo a quella forma di disaggregazione di cui dicevamo prima. Non ci può esser un orgoglio nella separatezza; ci deve orgoglio della propria indipendenza nell'appartenenza. Non voglio dire che debba essere obbligante ma non posso farlo diventare premiante quando è disgregante. Quindi nell'individualismo c'è un aspetto di carattere positivo che va mantenuto ed un altro che deve essere visto con un po' di attenzione. Non voglio dire né sospetto, né perplessità ma un po' di attenzione. Ci sono organizzazioni che uniscono ed altre che sembrano nascere per dividere, come citava prima nella sua analisi Pennisi a proposito della nuova fase della costruzione europea. Mi si passi l'inciso, l'Europa quando nacque all'inizio, nacque meglio nel nostro dopo guerra, nacque proprio attorno ad una idea politica. L'hanno voluta i politici che furono lungimiranti, non la volevano tutti quanti quelli che, invece, si occupavano di economia. Ed anche le istituzioni, proposte e magari fallite come la CED, ecc. mostrarono che l'iniziativa era politica e sociale; oggi invece no, tutto è basato su questo calcolo da bottegai.
Ecco, è quando date spazio all'economica in questa veste che viene meno quel senso della coesione complessiva ed emerge di nuovo questo elemento di disaggregazione. Ed allora se noi badiamo che in questa difesa dell'individualismo c'è questa duplicità di situazioni, una positiva e d'un'altra un po' meno, allora possiamo anche capire che l'economia risulta inevitabilmente connotare un assetto della vita comune che non può non essere coerente al tipo di valori a cui si ispira la società. Se questa società nella quale noi viviamo, alla quale noi aderiamo, e noi abbiamo aderito con convinzione alle carte fondamentali che regolano il nostro vivere civile, anche se umanamente e motivatamente tentiamo di cambiarle per adeguarle alla nuova situazione, ma se noi abbiamo fatto una convinta adesione a questo Stato democratico allora non ci può essere dubbio alcuno da questo punto di vista. Noi abbiamo un tipo di economia che è basato sulla spontaneità e sul decentramento delle iniziative. In realtà è questa un assetto che non fa obbligo a qualcuno di fare qualcosa. Badate che nelle costituzioni che prendono come principio di organizzazione sociale il centralismo organizzativo, cioè l'economia del comando, l'economia collettivistica, è fatto onere a qualcuno di iniziare i processi. Si stabilisce che ai primi giorni di gennaio si riunisce il supremo organo pianificatore e si stabilisce gli obiettivi che il Paese deve avere. Questo tipo di regole nelle nostre carte non le abbiamo perché riteniamo che sia funzione insopprimibile quella dell'animo umano ad agire. Lo Stato deve consentire che la libertà dell'uno non interferisca nei confronti dell'altro, ma noi siamo assolutamente fiduciosi. Qui c'è il fondamento di questo tipo di costituzione, che in realtà questa società voglia agire. Allora, se le cose stanno in questi termini, noi non possiamo non aderire a questa economia di mercato, non per quelle ragioni che avevano dato luogo già in passato a critiche molto rilevanti e che erano state già affrontate, ma perché nell'economia di mercato c'è quel presidio di libertà di cui dicevamo prima. Però questa economia di mercato deve essere vista con intelligenza storica nel tipo di tragitto che ha percorso davanti a noi.
Einaudi diceva che il mercato è un meccanismo elettorale ad aggiornamenti continui. La storia delle elezioni è cosa non diversa dall'economia, nel senso che per fare scelte economiche bisogna avere capacità decisionale, un foro che decida nel fare determinate scelte. Einaudi diceva un foro elettorale ad aggiornamenti continui ed è meglio del foro politico, perché là io il consenso lo aggiorno ogni quattro o cinque anni, ma sul mercato io compro giorno dopo giorno da uno o, se non mi piace, da un altro. In questo caso la moneta e quindi i soldi di cui parlava lui danno luogo alla formazione dei prezzi, ma se il mercato è veramente libero ed è basato su una concorrenza con l'abito della domenica, quella pura e perfetta; i prezzi sono significativi perché piovono dall'alto come sentenze sacrali che nessuno degli attori, delle parti in causa, è stato in grado di assicurarsi in maniera a se favorevole. Ma sul mercato si danno luogo a fenomeni di trasformazione che possono diventare rapidamente molto preoccupanti. E' qui che abbiamo subito i due elementi contrappuntati negativamente. Perché se è vero che gli aggiornamenti continui darebbero un premio al foro economico mercato rispetto al foro politico, è anche vero che nel foro economico non esistono due condizioni che, invece vengono regolate nel foro politico. Nel foro politico vale la regola di un voto a testa, anche se nessuno di noi è così ingenuo da immaginare che esista la effettiva uguaglianza politica: Prodi esprime un voto e lo esprimo anche io. Nel mercato questo non c'è perché ognuno vota in funzione dei soldi che ha. E se, in qualche modo, tu non lavori, non guadagni non c'è un reale suffragio universale. Manca la seconda condizione. Manca il suffragio universale. Non c'è il voto a testa. Si sparse la voce, negli ultimi anni di vita di Onassis, che lui volesse fare una grande acciaieria, ed ebbe subito dietro una serie di rappresentanti di fabbricanti di questi impianti. Ebbene se il 30% dei Paesi meno ricchi dell'ONU avesse deciso di fare quell'acciaieria non li avrebbe presi sul serio nessuno perché non avevano le forze economiche per fare un'acciaieria da 13 milioni di tonnellate quanto la voleva da fare lui. Ora è un po' strano questo tipo di mercato che rende possibile una cosa ad una sola persona e non rende possibile la stessa cosa a comunità di 5 o 10 milioni di persone in giro per il mondo. C'è un mondo che obiettivamente è in disordine. Noi per questo siamo arrivati ad aggregarci ed ad avere un pensiero comune. Ed allora se abbiamo aderito alla democrazia, non c'è dubbio che noi difenderemo l'economia di mercato ma con maggiore coerenza di quanto la difendano coloro che diventano partigiani assoluti di questo modo di gestire l'economia. Quelli che sono i partigiani assoluti di questo tipo di economia dicono: nessuna interferenza. Ora, badate, che la concorrenza di cui sentiamo parlare non è così buona sempre, come sembra. Perché è buona quando è pura e perfetta come dicono i libri, cioè quando è una contesa tra eguali che fa emergere i migliori. Ma quanto in realtà diventano pochi sul mercato, quando in questa specie di ovile accade di vedere, come sistematicamente noi constatiamo, che qualche agnellino comincia a vedere spuntati i dentoni e comincia a mordere il collo dei suoi vicini, è del tutto concepibile che se uno pensa di intervenire lo faccia a fin di bene, ma è altrettanto plausibile che il primo a protestare per questo intervento indebito sul mercato sia proprio l'agnellino che sta mordendo il collo agli altri.
L'economia serve anche a sgombrare il campo dai luoghi comuni. Per esempio l'economia di mercato si dice che è basata sul profitto, ma questo è vero a metà, anzi non è vero proprio per niente. Nel senso che nell'economia libera di mercato il profitto è imprescindibile come principio di azione da parte degli imprenditori, ma deve essere sparito alla fine dei processi perché se non è sparito vuol dire che la concorrenza non ha operato. Tutto questo deve essere detto perché mutamenti ci sono dappertutto e ci sono anche sul mercato quando dalla concorrenza, pure perfetta, si trasmoda in questo modo, e allora possiamo capire anche il sindacato. Però anche il sindacato lo dobbiamo interpretare. Oggi obiettivamente sembra più un fenomeno di conservazione. Nella sua evoluzione la cosa si può capire, perché quando è nato il sindacato, è nato per difendere tutti coloro i quali andavano a chiedere lavoro e di fronte a questo imprenditore, che nella tecnica che noi adoperiamo, domandava il loro lavoro e che aveva una posizione di forza che diventava di prepotenza nel determinare una forma di loro sfruttamento, ecco che il sindacato li ha organizzati e li ha difesi. Quindi inizialmente in una sorta di flessibilità ante litteram, in cui ognuno va allo sbando e fa le cose basse, il sindacato li ha difesi. Dopo un poco capita che, in un tipo di sistema senza una regola e senza un principio ordinatore della vita sociale, ognuno fa quello che può. Cominciamo noi professori universitari e ci facciamo un nostro orticello; poi proseguono i giudici che se lo fanno molto meglio di noi, anzi poi ci pigliano talmente gusto che cominciano a fare altri mestieri. E poi ci sono quelli che stanno alla Rai. Ecco! Questa è la disgregazione della vita sociale, questa Italia corporata che nasce dalla mancanza del condimento del pensiero economico della destra. Nasce dalla mancanza del sentimento della coesione della famiglia nazionale. Allora tutto il pensiero economico della destra è impostato proprio su questo. Allora abbiamo fatto una affermazione solenne: che noi siamo democratici ed accettiamo il metodo. Ma io posso dire anche al mio amico Martino che io difendo il mercato anche meglio di lui quando mi rendo conto che il mercato, proprio per quello che ho detto trattando dell'immagine "Audiana", al margine, nel suo cammino straordinariamente vantaggioso per molti aspetti per l'intera organizzazione sociale, lascia dei morti e dei feriti. Perché dei morti e dei feriti il mercato li lascia. Si può pensare che sia buonismo il mio, se mi occupo di questi. Non è buonismo. Lo faccio vivere in un sistema democratico e cioè nel consenso, questo tipo di sistema, e se non tutelo il consenso io lo faccio morire. Allora, quando io mi occupo dei morti e dei feriti del mercato lo faccio perché voglio che il mercato prosegua perché se lo gestisco come è stato gestito finora inevitabilmente il mercato incontrerà la sua fine.
Tutto questo, ancora una volta, lo posso dire al mio amico Antonio Martino, ma lo diciamo, invece, in senso più vero, specialmente per il nostro sentimento che in maniera sincera abbiamo espresso. La politica detta i fini della società, l'economia organizza i mezzi e regola la casa, ma la casa deve avere una regola perché se non ha una regola manca il cemento della convivenza. Tutto il pensiero economico della destra vede l'economia subordinata rispetto alla posizione degli obiettivi. Non abbiamo mai, nemmeno per un attimo, immaginato da macchinisti di innamorarci tanto della macchina da dettare noi il percorso e le fermate che deve fare il treno. Questa forma di ricaduta di un modesto ideologismo dello sviluppo economico che diventa l'obiettivo fondamentale e trasborda indebitamente nell'ambito dei fini della collettività, crea il danno dell'economia intesa come casa. Perché il primo standard di funzionamento di qualsiasi sistema economico è la capacità di convitare, è la capacità di dare non quattro soldi, ma il senso dell'identità. Quando negate il lavoro ad un ragazzo, lo respingete e gli fate pensare: ma che ci sto a fare? Non è un problema di soldi, è un problema di regola nella convivenza. Allora per noi questi diventano principi fondamentali ma non per buonismo, che non avrebbe senso, ma per superiore consapevolezza del desiderio di mantenere un sistema che nell'ambito economico garantisca e presidi la libertà degli individui. Allora per noi questi diventano principi fondamentali ma non per buonismo, che non avrebbe senso, ma per superiore consapevolezza del desiderio di mantenere un sistema che nell'ambito economico garantisca e presidi la libertà degli individui. Sotto questo profilo noi abbiamo una battaglia da condurre perché noi abbiamo questi zelatori, questi nuovisti, i quali immaginano che il verbo sia tutto dalla loro parte. Perché se non le guardano bene gli anni arriveranno fatalmente e si ricomincia come prima. Perché, badate, l'interferenza dell'autorità pubblica nell'ambito dell'economia è obbligata dall'evoluzione delle cose. Vogliamo darne proprio due o tre ragioni rapide? 1°) Nell'articolarsi progressivo della società l'ammontare dei bisogni che ogni individuo ha vede una sua variazione. Nell'ambito dei bisogni che avverte aumenta la quota dei bisogni pubblici rispetto ai bisogni privati, perché vive aggregato in società, ha bisogno delle fognature, le strade, l'economia si sviluppa, ci sono le infrastrutture. Ora non è detto, naturalmente, che avvertito questo bisogno pubblico, necessariamente debba essere il pubblico a fornirlo, ma certamente c'è un'interferenza nella determinazione del reddito che deve essere assegnato per poter provvedere a quelle risorse. E questa è una prima interferenza.
Poi abbiamo visto che in realtà è la gente che vuole avere, una volta avuta la soddisfazione dei bisogni immediati, una sorta di rassicurazione per il futuro. Questa gente crea, con questa sua preoccupazione continua, anche una forma di indebito vantaggio per gli economisti, perché proprio assillata dal domani l'economia ha questo andamento alterno e gli economisti vengono sistematicamente richiesti di dirci quello che succede domani. L'economista, se fosse onesto, dovrebbe dire che lui può dire solo quello che succede domani. Questo è meno paradossale di quanto potrebbe sembrare perché in realtà non tutti possono dire quello che succede domani se fra oggi e domani non succede nulla, perché bisogna capire come funziona la macchina. Nel molo n. 6 a Genova si sa già nel mese di ottobre chi attraccherà. Se io compro una rotativa per fare un giornale, sono macchine che arrivano sistematicamente dopo un anno e mezzo, e queste cose arrivano cadenzate in maniera quasi automatica. Quindi sapere come evolve l'intero sistema economico è una cosa....Ma in realtà no. Questi vogliono sapere cosa succede quando c'è la guerra del Golfo. E l'economista, inizialmente, ha avuto un momento di riserbo nobile perché non ha voluto mettere sul bancone degli acquisti il prestigio che aveva occupando una cattedra. Dopo un po', sapete, la carne è debole, è fortemente gettonato, l'economista comincia a fare le sue vaticinazioni che lo fanno assomigliare ad una chiromante perché glielo continuano a chiedere. E si attrezza perché a questo punto si fa il modello econometrico. Il modello econometrico sta all'economista come la palla di vetro sta alla chiromante. Lo accresce nella facoltà divinatoria. Ma tutto questo nasce dal fatto che la gente vuole stare bene. Dico questo aspetto paradossale e patologico per dire che la gente vuole placare il suo bisogno di domani. Vi sarà necessità di una autorità che centralmente stabilisca quale è l'ammontare di risorse da impiegare in quella direzione. Poi il servizio lo farà qualche altro. 2°) In secondo luogo noi abbiamo avuto un mutamento nell'assetto produttivo. Si poteva, cioè, ridurre i costi di produzione, ma lo si poteva fare solamente se si aumentativa la dimensione dell'impianto e conseguentemente il quanto di produzione che ogni singola impresa collocava sul mercato. Ma guardate che quando una singola impresa colloca un quanto di produzione sul mercato piuttosto rilevante la condizione della concorrenza che vede il frazionamento dell'offerta va a farsi friggere. Ma allora qui hai, come all'opera dei pupi, un conflitto che è senza speranza, perché da un lato rimane la concorrenza come principio di organizzazione sociale ad alta efficienza (non costa niente, ti assetta tutto al meglio, non è sospetta di favoritismi), e dall'altro lato l'economicità. La gente dice: che me ne frega della concorrenza, io voglio le cose a basso costo, io voglio l'UPIM, la Rinascente. E se vuoi la produzione di massa devi avere la concentrazione produttiva. Allora questo dice che la lotta ai monopoli è una espressione imbecille. Perché tu puoi lottare contro i monopoli che scaturiscono dalle male arti delle persone: tre che si mettono d'accordo per stabilire i prezzi in comune e buttare fuori chi arriva. Questi li puoi combattere facilmente ma sono quelli che scaturiscono dall'evoluzione del sistema, quelli è più difficile combatterli. E difatti, questi, quando arrivando, nel modo che dico io, ad avere non più il potere ma il prepotere, e si comprano i giornali, si comprano la televisione, a questo punto tutto questo mette in crisi la visione che invece è un credo per i liberisti: cioè che quando il sistema è basato sulla concorrenza, tutto va bene. Perché badate che il sistema funziona bene come dicono i liberisti quando c'è una demarcazione netta fra l'ambito della produzione, che deve essere dominato senza alcuna interferenza dal produttore, il quale, peraltro, nel desiderio legittimo e garantito dalla legge, di fare il profitto, può fare una sola cosa: abbassare i costi di produzione, che è cosa che gli fa forse avere il profitto, certamente, in qualche modo, ed è di vantaggio per l'intera collettività perché porta un uso più accorto delle risorse e non le spreca.
E, dall'altro lato, sul mercato, però deve essere il consumatore ad essere sovrano. Quindi la garanzia è che sul mercato domina il consumatore e sull'apparato produttivo domina il produttore. Quando questo capita voi avete che, a un certo punto, un imprenditore, invece di prendere 25 grammi di polivinile, e farli passare sotto la pressa a caldo e farne diventare un tappo che lui vende a serie di 25.000 lire a 1.25 a tappo., lui dice: io a questo punto sai che faccio? Invece di fare un tappo faccio un cerchio e me lo immagino già attorno ai fianchi flessuosi di tutte le ragazzine di 14 anni; faccio il cerchio e dico "Ballate!", e lo vende a mille lire, lo vende a 400 volte di più, ma la gente glielo paga perché lui ha avuto l'intuito di fare un prodotto nuovo ed è giusto che venga premiato in questo modo. Ma se questo signore ha dei soldi che spende in pubblicità, e comincia a dire alle ragazzine "Eh! Compratevi un cerchio", a questo punto non è più il premio a chi ha capito con anticipo quello che il consumatore vuole, questo è in realtà niente altro che la conclusione di chi ha usato risorse per espropriare la libertà di decidere di quello che diventa ormai un sovrano della burletta. E' quanto noi abbiamo nella nostra vita dominata dalla pubblicità, anche negli aspetti che ci sembrano positivi. Chi di noi non ha visto la differenza tra via Veneto e le Capitali grigie e tetre dell'Est di una decina di anni fa? Però badate che quella roba noi la paghiamo ed è in qualche modo un attacco a quel modo di pensare razionale dell'economia basata sul libero mercato. Tutto questo viene detto con amore per la libertà, con amore perché venga mantenuto il principio del libero mercato; ma questo significa che, in qualche modo, un intervento è indispensabile. Badate che in questo elogio fuori misura che si è fatto del mercato, dobbiamo essere onesti ancora una volta: qui non è il mercato che si è imposto, che era già stato battuto quasi dappertutto; qui è la politica che ha avuto questo modo così indegno, miserevole, ignobile di agire e la colpa peggiore che noi possiamo dare alla politica non è nemmeno di aver rubato i soldi che ha rubato, ma di aver fatto cadere nel discredito generale la necessità di interventi che sono ineliminabili. Questo però richiama ancora una volta un'etica dell'imprenditore pubblico e privato. L'etica dell'imprenditore privato che pure si basa sul profitto e che sembra dettare qualche perplessità su questa impostazione rimane quando lui addirittura è suicida. Avete visto il caso di quello a Napoli che non poteva pagare gli operai e si è sparato. Alcuni hanno immaginato, e c'è una visione dell'impresa, purtroppo non generalizzata, come la propria avventura nella vita per cui qualcuno non si sente di sopravvivere a questa impresa. Se c'è l'etica dell'imprenditore privato, ci deve essere anche l'etica dell'imprenditore pubblico il quale non può agire in base al solo criterio del dove può ottenere uno stipendio più alto. E ci deve essere anche necessariamente una forma di autorità complessiva nella società nella quale questo comportamento possa essere premiato o sanzionato quando lo meriti. Tutto questo non apre squarci rassicuranti. Anche nel movimento a cui noi abbiamo assistito nella nostra società, abbiamo visto delle abilità che evidentemente erano impensabili in tutti questi ex appartenenti alla prima Repubblica che hanno avuto una straordinaria capacità di riciclarsi nella seconda. E vendono questa loro ineliminabilità sulla scena perché risulta, evidentemente agli occhi un po' sprovveduti anche di alcuni dei nostri amici, una qualità dalla quale non si può prescindere.
All'Università di Roma, tanti anni fa, si pose un problema di uso migliore delle risorse, avevamo le aule ed era Rettore Ruberti: lui sapeva che io ero fascista, lui era comunista, però chiese che io collaborassi con lui ed io lo ho fatto lealmente, abbiamo il massimo reciproco rispetto. Volevamo fare in modo che queste aule che usavamo solo la mattina fossero utilizzate anche al pomeriggio. Si vara un progetto che prese corpo come insegnamento a distanza. Ecco, adesso, uno che viene messo in conto con i nostri amici arrivò lì e si propose come direttore di questa cosa con un modo così parolaio, così vuoto ed insussistente, e naturalmente era sostenuto da persone di sinistra. Ebbi buon gioco nel dire che una persona che era così inaffidabile per le cose che stava dicendo proprio non potesse meritare questo tipo di fiducia da parte nostra e quindi, con l'avallo di un comunista, fermai questo che invece oggi è giunto a molto alti livelli. Questo viene detto da persone che si sentono, in qualche modo, fuori assolutamente da questo tipo di mischia attuale. Per ragioni obbligate sul piano personale non potremo mai scendere su quel livello però questa è una garanzia che noi dovremmo poter dare. Cambia molto nella nostra società. Anche sul piano economico dobbiamo tendere ad aver parole chiare, talvolta dobbiamo mediarle, ma dobbiamo presidiarle anche con persone che siano credibili, in un modo di elaborare queste tesi che non lasci adito a dubbi, che cioè siano l'escamotage opportunistico del momento. Noi abbiamo eliminato l'ipotesi ideologica e per le cose che ho detto può anche essere un fatto positivo, però quando si elimina l'ideologia si accorcia terribilmente l'orizzonte temporale ed allora il problema diventa duplice: da un lato sembra che si possa affrontare con maggiore precisione il reale, dall'altro il rischio di farlo scadere nell'effimero è molto forte. Se non volgiamo farlo scadere nell'effimero noi dobbiamo recuperare il valore fondamentale ispiratore del modo di pensare l'economia che era quello che la regola della casa deve nascere nelle applicazioni specifiche che verranno fatte; quindi, possiamo dare anche molto spazio al pragmatismo ma sempre perché la stella polare che ci guida è quella di dare un assetto più ordinato in cui la regola vissuta, praticata ed amministrata con autorità, renda una maggiore coesione nazionale. Tutto questo pone un tipo di rapporto tra me e i miei colleghi economisti un po' perplesso. Badate che non sono affatto autolesionista, però devo riconoscere che talvolta i miei colleghi danno qualche prova incerta di sé. Per finire in maniera un po' meno seria come ho fatto finora, vorrei dirvi in che modo gli economisti devono essere talvolta considerati quando si propongono dai 24 pollici della televisione a dare le loro ricette.
Un matematico, un fisico ed un economista vengono introdotti in un ambito che deve vagliare la rispettiva valentìa. Entra il matematico e gli chiedono: quanto fa 2 + 2? E il matematico dice senza esitazione fa 4. Arriva il fisico, viene fatto accomodare e gli chiedono: quanto fa 2+2? E il fisico dice: guardate, quello che è venuto prima di me, nella sua sicumera ha detto 4. Ma io sono un fisico, io vedo lontano, so che tutto è relativo. Di solito fa 4, ma potrebbe anche essere un'altra cosa. Poi viene introdotto l'economista e domanda: cosa volete da me? Vorremmo sapere da lei quanto fa 2 + 2. L'economista si gira intorno, vede che c'è una finestra, arriva alla finestra e la chiude ermeticamente, poi torna verso la porta, vede che nessuno ascolta, si china sull'orecchio di chi gli ha fatto la domanda e gli chiede: quanto vuoi che ti dica?