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 LE RAGIONI SOCIALI E STORICHE DELLA DESTRA    

Introduzione
Il pensiero politico nazionale della destra
La difesa del lavoro nel pensiero della destra
Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo
La destra tra monetarismo ed interesse nazionale
La destra italiana tra irredentismo ed europeismo
Le ragioni sociali dell'Europa
Nazionalismo e mondialismo nel pensiero politico di destra
Unione monetaria, globalizzazione e stato nazionale
Relazione di sintesi
Dibattito

 
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La destra italiana tra irredentismo ed europeismo

Relazione del Sen. Dott. Lucio Toth, Magistrato della Corte di Cassazione - Presidente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia

Il Prof. Cosenza, in qualche modo, mi ha passato il testimone e mi compete l'ultimo scatto della mattinata. Egli ha parlato infatti di coesione della famiglia nazionale. Ed ha parlato anche in maniera diretta delle vicende delle popolazioni del confine orientale che hanno difeso questa famiglia italiana con tutto quello di cui potevano disporre. È un tema affascinante quello che mi è stato dato: abbastanza, non dico peregrino, ma stravagante, un accostamento audace ma non arbitrario. Quindi ringrazio, non so chi sia, chi ha avuto questa stranissima idea di accostare irredentismo ed europeismo. Affronto il tema con molto piacere, anche sul piano intellettuale e storico, perché si tratta di argomenti sui quali la destra si è sempre misurata e che oggi stanno diventando anche campo di azione della sinistra. Anzi non vorrei che la tematica della frontiera orientale diventasse un cavallo di battaglia della sinistra per poi metterla in archivio e chiuderla definitivamente per non parlarne più. Vorrei invece che essa restasse, in termini moderni ed attuali, un patrimonio della destra.
E qui già vediamo alla prova una delle considerazioni che il Prof. Revedin ha fatto circa la definizione di destra e sinistra. Dobbiamo cominciare col constatare che l'irredentismo nasce a sinistra come molte idee che hanno dato origine alla destra italiana o ad una determinata destra italiana. Nasce dalle idee del Risorgimento, e di queste idee dalle più radicali: il mazzinianesimo ed il cattolicesimo liberale, assai più che non dal liberalismo dei moderati. Per i quali la questione della frontiera orientale era sempre un problema scomodo e fastidioso perché, naturalmente, era quello impegnava maggiormente le ambizioni nazionali ed essendo quindi il più difficile e il più scabroso, il loro realismo li consigliava di del lasciarlo perdere. Chi invece partiva da posizioni ideali, cioè da un imperativo morale, la affrontava come la affrontarono, sia pure con approcci diversi Mazzini e Tommaseo. Quest'ultimo del resto, essendo dalmata, neppure poteva ignorarla. Ma in genere il problema si pose ai cattolici liberali in quanto, laddove si parlava di una comunità nazionale con una unità di destini, con una identità. come societas naturale, non si poteva trascurare una parte di questa comunità solo perché il parlarne diventava scomodo e complicava i rapporti internazionali. Tutta la storia del primo irredentismo, delle sue organizzazioni in Istria e in Dalmazia, ha il suo legame soprattutto con i repubblicani e poi anche con i socialisti o con quella parte del socialismo che era più vicino alle aspirazioni degli irredenti e che poi diventò il socialismo interventista.
L'altro giorno mi è capitata in mano una pagina del Popolo d'Italia del 15 aprile 1915 che parla di un accordo italo-slavo sul futuro dei territori meridionali della monarchia austroungarica e sulla possibilità per l'Italia di trovare un accordo con la Serbia e con la Russia su una spartizione della Dalmazia: il Nord all'Italia, da Spalato in giù alla Serbia (quello che poi sarà il Patto di Londra concluso qualche giorno dopo). Bisogna riconoscere che in quel momento i giornalisti del Popolo d'Italia dovevano essere informatissimi perché erano gli stessi giorni in cui la nostra diplomazia stava trattando con le potenze dell'Intesa proprio nei termini indicati dal giornale, con una approssimazione quasi al chilometro. E la cosa più interessante è che la fonte dell'informazione è di provenienza russa (dei socialisti russi?).
Se nel pensiero di Mazzini, come in quello del Tommaseo, l'idea dell'irredentismo è presente come aspirazione alla libertà e come compimento dell'unità nazionale - nel senso di riunificare (sia pure con un vincolo federale) le regioni che la storia considerava allora di lingua o di cultura italiana (di qui l'aspra polemica di entrambi per la rinuncia al Nizzardo e i progetti militari di Garibaldi verso il Trentino e la Dalmazia) - fortissima era anche nel loro pensiero l'idea dell'europeismo. Il loro nazionalismo infatti non è mai chiuso, ma si apre a valori universali e guarda all'unità dell'Europa passando per l'instaurazione dello stato nazionale. Quindi nelle idee di libertà del secolo scorso c'è un collegamento diretto fra l'irredentismo, come completamento dell'unità nazionale, e l'appartenenza della nazione italiana ad un'Europa, in qualche modo da affratellare in nome di valori comuni e in antitesi alla tirannide dei grandi imperi dinastici.
Certo l'irredentismo di cui ho parlato finora è legato ad una stagione della storia d'Europa irripetibile. Ma si potrebbe parlare oggi di un neo-irredentismo? Qualcuno ne ha parlato , sia pure per evocare fantasmi del passato. Ma esiste? Che cosa è? Un neo-irredentismo non lo si può certo pensare oggi in termini di revanscismo territoriale (i vinti imparano dalla storia più dei vincitori); né di espansione militare, che ai nostri giorni non ha più alcun senso, e neppure di egemonia economica, che sarebbe anch'essa improponibile in una fase di globalizzazione. Ma è proprio dal processo di globalizzazione che può intendersi un neo-irredentismo in senso culturale e geopolitico, come riscoperta cioè degli interessi nazionali nell'area adriatica e balcanica in genere. In questo senso si può anche parlare di neo-irredentismo come presa di coscienza che, con la fine della guerra fredda e della divisione dei blocchi, si stanno stabilendo dei nuovi equilibri nei quali è semplicemente ingenuo pensare che non esistano interessi nazionali. Gli altri li hanno, al di là dei discorsi europeisti ed occidentalisti, e li perseguono. Ad esempio la Francia, la Germania, la Gran Bretagna. Lo si è visto chiaramente con la crisi della ex-Iugoslavia. Diventa obbligato per una nazione capire che le stanno cucendo i vestiti addosso, o addirittura che le stanno bloccando possibilità di espansione per l'avvenire.
Prendere coscienza di questo pericolo è un dovere che la classe dirigente di un paese, per evitare brutte sorprese o accorgersi troppo tardi che certe occasioni sono andate perdute, con possibili danni sia sul piano dell'identità nazionale che degli interessi economici collettivi.
Oggi assistiamo in Europa a dei processi dei quali anche il governo attuale si è reso conto. Si profila infatti una spaccatura dell'Europa tra nord e sud, nella quale si inserisce anche il problema dell'allargamento della NATO. Secondo questo trend l'Europa che conta è, ormai, solo quella che va dal suo centro ad est. L'Europa meridionale è in posizione subordinata. E l'unico paese mediterraneo ad essere considerato importante potrebbe essere la Spagna, non più l'Italia, secondo una logica che tiene conto dei legami culturali ereditari tra la nazione iberica e i paesi dell'America latina. Nell'era cioè della massima globalizzazione studiosi, politici ed economisti scoprono che la cosa più importante è il DNA culturale dei popoli! L'Italia è sempre in ritardo. E anche la cultura di destra, che dovrebbe essere la più sensibile sull'argomento, sembra snobbare questi temi. In questo quadro il problema dell'area adriatica e più in generale dell'area balcanica, è un problema che si impone all'Italia per la sua posizione geografica, per il suo peso economico sui mercati, per la sua storia e per il nuovo gioco degli equilibri geopolitici che si vanno determinando in questo momento. La Turchia, ad esempio, malgrado non faccia parte del G7 e non riesca ad entrare nell' U.E., ha un ruolo internazionale molto più rilevante del nostro.
Arriviamo allora a parlare di quello che è l'europeismo della destra. Per la sinistra italiana l'europeismo è stata una vocazione "matura" e non certo giovanile. Tutte le battaglie contro la NATO, contro la C.E.E., ecc. sono state perdute dalla sinistra italiana, per fortuna nostra...e anche loro. Adesso sono diventai degli europeisti. Ma per trent' anni non lo sono stati. Il PCI in particolare era internazionalista e filo-sovietico. La colomba della pace adesso non se la ricorda più nessuno, ma venti anni fa era ancora il cavallo di battaglia di tutta la sinistra comunista e di una parte lo è ancora oggi, anche se di fuori fanno vedere di essere tutti atlantisti ed europeisti e tutti maastrichtiani. La filosofia dei trattati di Roma è nata come filosofia filoccidentale. Comportava sia sul piano interno che su quello esterno una scelta di civiltà a livello mondiale che era certamente antitetica a quella del PCI di Togliatti. Nell'europeismo della destra e del centro-destra ci sono più posizioni. C'è una posizione liberale pura, come era quella di Gaetano Martino; c'è una posizione liberal-cattolica che era quella dei popolari, di De Gasperi, di Don Sturzo. Una delle più grandi intuizioni di De Gasperi fu proprio quella di aver voluto l'Europa. E non lo fece perché glielo avevano detto gli americani. Fu una scelta tutta sua, di Schuman e di Adenauer. E questo progetto di una Comunità europea di Stati allora non era vista troppo bene oltreatlantico. Fu quindi un'azione di grande coraggio politico, una delle poche cose che gli lasciarono fare prima di interrompere la sua carriera politica.
C'è un'ala liberale, quindi, dell'europeismo che oggi si riconosce nel centro-destra, che si trova in sintonia completa con la scelta interna della democrazia liberale di tipo occidentale ed il suo assetto economico capitalistico. C'è un'ala cattolica che accetta la democrazia occidentale come lezione di civiltà politica, quindi come metodologia, ma si pone criticamente verso un assetto liberista tout court, rifacendosi alla dottrina sociale cristiana. C'è poi un'ala tradizionalista o rivoluzionaria di destra. Anche di questa bisogna tener conto. Essa ha assunto i connotati di un patriottismo europeo. E' un dato che non possiamo dimenticare. Si parte dalla constatazione che la seconda guerra mondiale è stata essenzialmente non la sconfitta del fascismo e del nazismo ma l'eclisse dell'Europa e della sua civiltà. Ed è un'idea che si è diffusa non solo nei paesi sconfitti, ma anche in quelli usciti vittoriosi dal secondo conflitto mondiale, come in Francia e in Inghilterra. E' una constatazione che oggi fa parte della cultura non solo della destra europea. E per una parte di essa è diventata quasi una giustificazione morale dell'avere combattuto contro le democrazie occidentali e l'Unione sovietica. Per chi di destra non era si trattava comunque di una constatazione di fatto nel senso di dire: nella guerra l'Europa ha speso energie immense, l'Inghilterra si è battuta allo stremo delle forze, dando prova di quello che è il carattere di questo popolo per, poi, alla fine non avere sostanzialmente se non la gloria. Perché al termine del conflitto l'egemonia britannica nella politica internazionale era finita. E nel giro di poco più di un decennio si è dissolto il suo impero coloniale. Né diversa fu la sorte della Francia. C'è quindi tutta una cultura della destra, occidentalista ed europeista che risalendo a Spengler e a Junger arriva a Celine, a Eliade, a Cioran, che si ritrova nella linea di chi credeva che l'Europa di Hitler e di Mussolini fosse l'ultima chance per affermare il primato della cultura europea, madre dell'Occidente. E' la stessa logica per la quale si sacrificarono tanti europei, che non appartenevano ai paesi dell'Asse, come i giovani francesi della divisione Charles Magne caduti nella difesa di Berlino nel maggio 1945. Chi si salvò fu fatto fucilare come collaborazionista da un altro grande europeo, il gen. De Gaulle. La storia non si presta ad essere accomodata in facili schemi!
Esiste quindi anche una forma di amore per l'occidente che diventa critica dell'occidentalismo, come ideologia del progresso automatico e indefinito. E qui troviamo nella tradizione della destra, anche italiana, una componente anti-americana nel senso di una resistenza alla omologazione economicistica. Questo atteggiamento antiamericano ha spesso aspetti fortemente retorici che entrano in contraddizione con molte posizioni della destra stessa. Esso va in contraddizione, per esempio con un uomo che per le idee del fascismo ha pagato tutto, Ezra Pound. Americano, fu accusato di tradimento e sappiamo tutti come sia stato trattato. Egli non vedeva un contrasto fra la tradizione libertaria e liberale del suo paese e l'esperienza fascista. Stranissimo certo. Soltanto un uomo stravagante, come sempre lo sono gli uomini di genio, poteva pensare per tanti anni una cosa del genere. Capisco bene che lo abbiano messo in manicomio. Invece tanto stravagante non era perché c'era nella testimonianza di Pound ("Essere nel Foro lo spirito di una cieca erba...") l'idea che il destino dell'uomo, questo fascino del vitalismo della frontiera, questa affermazione della personalità e della volontà umana contro tutti gli ostacoli esterni, fossero legati all'idea stessa della libertà che era stata la fonte originaria dei coloni americani. In questo senso egli era fedele all'ideale tutto americano dell'uomo che si afferma nella libertà, con un progetto preciso di cui è il solo padrone nell'obbedienza ai disegni di Dio, con una religiosità interiore che in realtà è la vera forza della democrazia americana.
Questo libro di D'Annunzio non l'ho portato per leggervi versi dedicati alla Dalmazia o a Fiume, ma un inno scritto in quegli stessi anni, nel 1918, per "L'America in armi". Vi si legge:
        "Non ti fa bella, o Repubblica, l'immenso tuo cumulo
        d'oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi
        geni senz'ali, ...
        Non il numero delle tue macchine schiave che servono
         i tuoi lucri e i tuoi agi, non l'orgoglio che le tue stirpi
        arroventa e martella,
        ma una parola che in te parlò una voce repubblicana.
        Una parola ti fa la più bella..."
che è "libertà" naturalmente.
Sono le parole di un uomo che ha avuto la sua incidenza nella storia del fascismo. Un uomo che dopo pochi mesi si avventurerà nell'impresa fiumana, pubblicherà la Carta del Carnaro - di cui si è parlato stamattina - rivolgerà agli aviatori il discorso "Contro l'Occidente" che è una invettiva contro il colonialismo anglosassone. Contraddizioni, allora, farneticazioni di una mente esaltata? In realtà c'è sempre negli europei un atteggiamento ambivalente verso gli Stati Uniti. Da un lato l'ammirazione per un popolo e per un modello di civiltà dove la libertà individuale occupa il primo posto e con essa il rispetto del destino di ogni uomo, del suo diritto-dovere di costruirsi l'avvenire con le sue mani, nella tolleranza delle opinioni e dei valori degli altri. Dall'altro un distacco critico verso l'utilitarismo e l'economicismo che sembrano presiedere ogni scelta individuale e collettiva, contro una competitività sfrenata, che è appunto l'altra faccia della libertà economica.
E' l'atteggiamento che troviamo da sempre in uomini di diversissima estrazione: da liberali come Toqueville a cattolici come Maritain o Don Sturzo. In questi giorni è uscito un libro postumo dello scrittore istriano Quarantotti Gambini ("Stelle su New York"), articoli pubblicati come inviato dagli States negli anni 50-60. Anche qui si pongono le stesse domande. E' inevitabile che un europeo, ancor più se cattolico, veda nell'esperienza del liberalismo americano una contraddizione. Qualcosa che lo attira per questo slancio positivo verso l'azione, la fiducia che ogni uomo ha sempre in mano la leva del suo destino e delle sue scelte, la possibilità di imprimere alla realtà esterna la sua volontà, di non dover soggiacere ai condizionamenti di un collettivo che soffoca e schiaccia, quella cupezza che percorre invece tanta parte della storia dell'Europa orientale, fino agli incubi kafkiani e orwelliani. E questa attrazione è naturale rappresentando l'essenza della civiltà occidentale: imprimere alla realtà la propria forma, il proprio volere. E al tempo stesso qualcosa che lo respinge: l'economicismo appunto che si è venuto determinando nel costume americano, con il suo corredo di superficialità, di ingenuità ipocrita, di cinismo utilitario, di monetizzazione di ogni valore.
E la critica al consumismo e all'economicismo come basi filosofiche del capitalismo occidentale fa si che una parte della destra si incontri con il pensiero cattolico e con la dottrina sociale cristiana, specie nella sua accezione woitiliana, cioè marcatamente antimaterialista e antimarxista. Perché Giovanni Paolo II ha dato questo segno al suo apostolato: la lotta a ogni forma di materialismo. Sconfitto in Europa, anche per merito suo, quello marxista e comunista, egli affronta l'altro: il materialismo strisciante dell'occidente. In questo senso è emblematico il viaggio a Cuba: da un lato quello che altro non è che un "entierro" del comunismo castrista e delle cosiddette teologie della liberazione, dall'altro un monito severo agli Stati Uniti che il loro modello non funziona bene nei paesi latino-americani. Di questa confluenza occorre tener conto da parte della destra italiana, perché c'è una lotta all'interno della Chiesa universale, tra la tendenza di papa Woitila e la sinistra cattolica, spesso terzomondista e ancora pervasa dal secolarismo filo-marxista. Di questo conflitto la destra italiana deve acquisire consapevolezza perché può creare divisioni al suo stesso interno. E non si può lasciare che le tendenze antieconomicistiche si trasformino in tendenze illiberali o di regime e finiscano per colpire, appunto, la libertà di mercato in quanto tale, privilegiando espressioni di pauperismo e di solidarismo coatto tipiche di una sinistra cattolica che ha nostalgia degli statalismi collettivisti.
E a questo punto vediamo ad incrociare un altro nodo del nostro tempo che ha uno stretto rapporto con l'irredentismo. L'irrompere dei localismi, delle appartenenze etniche o pseudo-etniche in antitesi agli stati nazionali tradizionali, delle autonomie federaliste, delle stesse spinte secessioniste ha un legame, apparentemente paradossale, con i neo-irredentismi, come scoperta di identità culturali radicate nel territorio che si ribellano all'omogenizzazione. Come conciliare queste tendenze con la difesa dell'unità nazionale, caposaldo ideale della destra italiana? Vi basti un esempio. E' nota la spinta autonomista che raccoglie la stragrande maggioranza dei suffragi popolari nell'attuale Istria sotto sovranità croata. Croati e italiani si trovano uniti nel rivendicare la peculiarità della regione in antitesi a Zagabria e all'entroterra danubiano della Croazia propriamente detta. Molti dei loro temi sono simili a quelli della Lega di Bossi, anche nella ricerca di vecchi nessi storici che hanno legato il Nord-Est adriatico ai tempi della Serenissima. Che fare? Incoraggiare queste tendenze? O collaborare con Tudjman per reprimerle? Sarebbe coerente con le nostre convinzioni sulla libertà e sull'identità culturale dell'Istria, con la difesa di quel poco di italiano e di veneto che vi è rimasto?
Non sono interrogativi che si possono eludere senza sbatterci contro, nella politica interna come in quella internazionale. Sappiamo che lo Stato-nazione è in crisi, e non solo in Italia; che questa crisi si può aggravare con i processi avviati dal trattato di Maastricht, dal monetarismo che lo domina, dalle oligarchie burocratiche che stringono in una morsa di ferro la costruzione europea di questi anni e alle quali, poi, le spinte secessioniste sono la risposta a livello popolare. La tentazione secessionista è la risposta localista alla mancanza di anima degli stati nazionali. Se gli stati nazionali rinunciano ad essere una famiglia, la gente si cerca un'altra famiglia. La famiglia meridionale o la famiglia lombarda, perché la famiglia nazionale non esiste più. Non si tratta soltanto di un fatto di soldi - interpretazione semplicistica e fondamentalmente materialista - di non voler pagare le tasse ad un governo che non dà altrettanto di quello che si prende. C'è anche sotto la delusione profonda di uno Stato che non dà più risposte su nulla, che non ha progetti, di uno Stato che non si sa perché stia insieme. Dov'è l'identità nazionale se non c'è niente da fare insieme?
Su quali temi è caduta la solidarietà nazionale? Innanzitutto e soprattutto sul tema del Mezzogiorno, che cinquanta anni di politica assistenziale non sono riusciti a liberare dal suo ritardo storico e strutturale. Ma anche sulla questione adriatica, che la politica, la cultura, la storiografia italiane hanno ignorato per mezzo secolo, come se non fosse stato il nodo cruciale della nostra politica estera fin dalla nascita dello Stato nazionale! Oggi anche la cultura di sinistra denuncia questo vacuum, questa damnatio memoriae che ha steso un velo impietoso sulle tragiche vicende vissute all fine della seconda guerra mondiale dalle popolazioni italiane dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia, costrette all'esodo dalla pulizia etnica delle Foibe e dei gulag titini, anche in quelle città e in quei territori dove erano da sempre maggioranza assoluta. Migliaia di morti infoibati, lapidati, annegati, scomparsi nei campi di concentramento; 350.000 persone che scelgono di abbandonare tutto per difendere la loro identità di italiani. Rarissimi i libri di storia che ne parlano! Tutto cancellato, con la "redenzione" del 1918, l'impresa fiumana, la partecipazione di legioni di giuliani e di dalmati alle guerre del Risorgimento...Neppure una parola... Se ne sono accorti Viola, Galli della Loggia, lo stesso presidente della Camera Violante, che questo "buco nero" nella storia della nazione ha finito per gettare un'ombra sulla stessa epopea della Resistenza e della Liberazione. Per voler nascondere una pagina dubbia del partito comunista, del suo appoggio ai disegni annessionisti dei comunisti iugoslavi ( che hanno giocato con cinismo sciovinista sull'internazionalismo dei compagni italiani per cercare di cancellare ogni traccia di italianità in terre italiane ) si è espulsa dalla memoria e dalla solidarietà della nazione una porzione di essa, una tradizione di secoli, sotto la etichetta speciosa che si trattava soltanto di "fascisti", vittime di una guerra fascista.
Dimenticate: sulle vicende del C.L.N. giuliano, abbandonato dal PCI proprio per la fermezza anti- Oggi, seguendo l'insegnamento coraggioso di Renzo De Felice, gli storici cercano in queste pagine iugoslavia del comitato sul problema del confine; sui contatti tra il Governo italiano del sud e la X Mas di Valerio Borghese per tentare una difesa comune della Venezia Giulia dall'invasione titina (progetti falliti per la sudditanza degli uni e degli altri ai rispettivi padroni) . Anche un regista di sinistra, Martinelli, ha voluto trarre un film da queste vicende, "Porzus", finanziato dalla Presidenza del Consiglio e poi censurato nelle sale e tagliato fuori dalla programmazione per le proteste della sinistra estrema, che ha ancora il coraggio di difendere gli autori di quella strage fratricida, come difende gli infoibatori.
Si scopre finalmente che la "questione giuliana", la questione adriatica, deve trovare un posto nella storia del 900, se si vuol capire che cosa è successo all'Italia allora, quale è il suo spazio oggi. Essa si rivela per quello che è: un tema essenziale della nostra dimensione internazionale. Qui l'europeismo di maniera, l'europeismo retorico deve lasciare il posto ad un europeismo ragionato, dove gli interessi nazionali trovano spazio proprio per la ragione che è stata ricordata stamane: che politicamente un'Europa senza l'Italia sarebbe un mostro geopolitico. Ma non possiamo assicurare l'appartenenza dell'Italia all'Europa soltanto attraverso le strettoie monetarie. Il nostro paese deve poter appartenere all'Europa avendo qualcosa di proprio da dire e qualcosa da fare; qualcosa che altri non possono fare. In tutta la crisi della ex-Iugoslavia, fino alla soluzione della crisi bosniaca, l'Italia è stata costretta in una posizione marginale e subordinata. Se ci è stata affidata la gestione della crisi albanese era perché si trattava di un problema secondario con elevati rischi, una "rogna" che nessuno si voleva prendere a carico. Per fortuna sembra ci sia andata bene ed il paese ha evitato brutte figure, ma non so di quanto sia cresciuto il suo peso nell'area balcanica.
In questi mesi si sta parlando molto in Europa di un nuovo libro di Samuel Huntington, che divide il mondo di domani in tanti blocchi politico-culturali e fa passare l'incrocio fra tre di questi blocchi proprio dalle nostre parti, al di là dell'Adriatico. C' è il mondo occidentale da una parte, che comprende il Nord America anglosassone e l'Europa cattolico-protestante fino alla Croazia, l'Ungheria e i paesi baltici; dall'altra il mondo ortodosso, a cominciare dalla Serbia e dalla Grecia fino alla Russia e alla Siberia; infine c'è il mondo islamico, che comincia in Bosnia e in Albania, continua in Turchia, nel Nord Africa, ecc. Ce ne sono altri di blocchi , ma questi tre interessano noi, perché riguardano l'Europa e il Mediterraneo. Mi domando se questa visione non sia funzionale alla linea politica seguita dagli Stati Uniti nella crisi bosniaca, una strategia che ci fa diventare di nuovo una terra di frontiera sul lato est e sul lato sud della nostra penisola, impedendoci ogni libertà di movimento. Ma ci interessa poi tanto, dopo la caduta dei blocchi della guerra fredda, non avere più il confine tra Germania orientale e occidentale, per ritrovarcelo dall'altra parte dell'Adriatico e dello Jonio, eleggendo la Croazia a ultimo baluardo dell'occidente e la Serbia e la Grecia come primi avamposti di un mondo ostile e a noi estraneo?
Questa prospettiva può essere una previsione fantasiosa o il frutto di ricerche e di analisi nelle prime università d'America. Quello che è certo che in queste analisi l'Italia continua ad essere un soggetto passivo di politica internazionale. Non credo che la destra possa fare a meno di affrontare questi temi, se non vuole annacquare la forza delle sue idee in un relativismo grigio che rischia di demotivare la lotta politica e annebbiarne gli obiettivi strategici.
Lo stesso problema meridionale - come si accennava - non è legato soltanto alle carenze endogene del Mezzogiorno, ma è legato essenzialmente alla collocazione internazionale del paese, perché il Sud è imbottigliato da secoli in una situazione nella quale i paesi vicini, dall'altra parte del mare, sono rimasti fuori dallo sviluppo industriale e commerciale dell'occidente. Come può essere prospera un'Italia meridionale se dall'altra parte del mare non c'è nessuno con cui commerciare in termini adeguati? Il Sud è stato prospero quando dall'altra parte c'era o la nostra stessa civiltà (quella greca o romana) o comunque civiltà omogenee sul piano economico, in grado di trattare con noi, come erano quella bizantina o quella araba. Da quando queste realtà sono venute meno e l'asse dei traffici si è spostato verso l'Europa nord-occidentale il Mezzogiorno si è andato impoverendo. Si è sviluppato il nostro Nord-ovest, ed oggi si sta sviluppando il Nord-est a seguito dell'apertura dei mercati dell'Europa orientale. Possiamo noi affrontare l'avvenire dell'Europa, restando europeisti passivi, obbedendo soltanto ai dettami di Maastricht?
Ci possono essere nella destra italiana valori ideali diversi, ma non inconciliabili. Le esperienze politiche del passato appartengono al passato e possono essere guardate e giudicate con freddezza e distanza. Le idee no...perché i valori che le hanno mosse certamente non sono morti e nessuno li può ripudiare se non tagliando le proprie radici. E questo credo non lo possa fare nessuno. Allora, per non restare prigionieri di queste radici - perché anche le radici possono impigliare il cammino - bisogna rompere il cerchio delle contraddizioni nelle quali gli avversari politici ci vogliono incartare. Se queste contraddizioni ci sono le dobbiamo risolvere. Occorre allargare il cerchio della cultura della destra, in modo da comprenderne tutti i filoni ispiratori, cercandone una sintesi più avanzata , nella quale tradizione e libertà possano stare insieme; altezza e determinazione di propositi si accompagnino al rispetto per i propositi degli altri, accettando il gioco della competizione ideale e culturale, rinunciando a qualsiasi tentazione di imposizione dall'alto da parte di minoranze illuminate su masse da educare o strumentalizzare, che è stato il peccato capitale dei totalitarismi del nostro secolo. Il neo-irredentismo cercando le ragioni della convivenza nel rispetto delle identità culturali e linguistiche può essere uno spazio dove sperimentare una strategia culturale della destra che esca dai vecchi schemi e dia risposta alle domande soprattutto dei giovani, che hanno superato dentro di sé - assai più di quanto crediamo - gli steccati del passato, ma non hanno alcuna intenzione di trasformare il loro impegno in una semplice testimonianza all'interno di un regime altrui.