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 LIBRO DENUNCIA: LE FOIBE    

Prefazione
Le foibe
Sentenza emessa dal tribunale di Roma sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale
Prologo
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Sentenza emessa dal Tribunale di Roma sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi la libertà personale.

In data 8.5.96 il P.M. (Pititto) presso il Tribunale di Roma chiedeva nei confronti dei cittadini croati Motika Ivan e Piskulic Oskar, indagati per l'uccisione di migliaia di cittadini italiani in Istria e Dalmazia, tra il 1943 ed il 1947, la misura cautelare della custodia in carcere.
Evidenziava il P.M. che le risultanze acquisite , pur valutate all'ombra del lunghissimo tempo intercorso, chiaramente indicavano come migliaia di persone fossero state uccise non in nome di un ideale o per ragioni di guerra contro il nemico, ma solo perché erano cittadini italiani.
L'odio contro gli italiani aveva causato la morte di donne e bambini; le vittime predestinate, strappate ai loro affetti, erano state legate l'una all'altra con il fil di ferro, condotte sull'orlo della foiba e abbattute, non sempre tutte, perché era sufficiente colpire alcuni e il loro peso avrebbe tirato giù nel fondo, vivi, gli altri.
Era quanto scaturiva, ad esempio, dalle dichiarazioni di padre Flaminio Rocchi, che parlava di “pulizia etnica” contro gli italiani, infoibati, dopo l' 8 settembre del '43, dalle truppe jugoslave che avevano occupato l'Istria, Trieste, Gorizia e Monfalcone, in numero di circa 10000, uccisi dai partigiani di Tito; da quelle di Smaila Nives, che raccontava dell'arresto della nonna ad opera dei partigiani, pur essendo stata da pochi giorni operata di tumore, “colpevole” di aver cucito la prima bandiera italiana a Gimino; da quelle di Fiorentini Graziella, il cui padre, pur essendo un medico che curava i partigiani, chiesto a Motika Ivan del perché dovesse seguirli, si era sentito rispondere: “Ti se' italian”; da quelle di Marzini Leo, che aveva visto uccidere il padre e lo zio, i quali non avevano rapporti di alcun genere né con la milizia, né con il partito fascista, solo perché italiani. Sorte analoga era toccata al fratello e al cugino di Stefanutti Ermenegildo, uccisi, così come centinaia dio cittadini di Montona e dintorni, dai partigiani di Tito.
Queste risultanze, proseguiva il P.M, portavano alla configurazione del delitto di genocidio, per la cui repressione era stata emanata dal legislatore italiano la legge 9 ottobre 1967, n.962, che, se pur successiva ai fatti in esame, non soffriva del principio della irretroattività della sua applicazione - problema che si proponeva per Motika Ivan - in quanto l'irretroattività trova la sua ratio nell'esigenza di consentire la punibilità di comportamenti che solo da quel momento vengono avvertiti come antigiuridici, ma non allorchè si tratti di fatti che scardinano quei principi fondamentali, pregiuridici, che vengono considerati dalla coscienza umana come essenziali al vivere civile e che si risolvono nella tutela e nel rispetto della vita dell'uomo in quanto parte di un gruppo, nazionale, etnico, razziale o religioso che sia.
Quando un intero gruppo di persone viene distrutto solo per l'appartenenza ad una certa nazione, si è in presenza di un delitto contro l'umanità ed allora in questo caso la legge dell'uomo registra, non crea il delitto, ogni diversa conclusione essendo fondata solo su una concezione meramente formale del fatto-reato.
Del resto - osserva al riguardo il P.M. - l'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge del 4 agosto 1955, n.848, mitiga la portata dell'affermato principio, al comma 1, della irretroattività della norma incriminatrice, nazionale o internazionale che sia, prevedendo espressamente al comma 2 che ciò non potrà valere allorchè si sia in presenza di una persona colpevole di un'azione o di una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, era criminale secondo i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
Dunque, Motika Ivan è chiamato a rispondere del delitto di genocidio o, comunque, di fatti qualificabili come omicidio pluirimo pluriaggravato, avvenuti in Gimino e Pisino dopo l' 8 settembre 1943.
I gravi indizi di colpevolezza risiedono nelle numerose dichiarazioni delle persone - Ròvis Virginia, Feresini Nerina, Rocco Edda, Stefani Alice, Nessi Rosina, Marzini Leo, Cernecca Daria, Cernecca Nidia, Opatich Rosa e Papo Luigi - che hanno indicato Motika come “ il capo dei ribelli, colui che ordinava esecuzioni”; “era voce unanime che il capo ed il giudice fosse Ivan Motika: era lui che faceva il bianco ed il nero, lui che decideva chi doveva vivere o morire”; sovrintendeva alla vita e alla morte tanto in Pisino quanto in Gimino”; “ a Pisino vi era un castello, il castello di Montecuccoli, dove venivano imprigionati gli italiani e tutti dicevano che il capo era Motika”; “nel castello si svolgevano i cosiddetti processi del tribunale del popolo presieduto dallo stesso Motika, che sentenziava a decine o centinaia le condanne a morte degli italiani......”; “erano nudi, le mani legate con filo spinato ed erano stati tagliati loro i genitali e levati gli occhi....... in tutto si recuperarono 23 salme”; “dopo che mio padre (Stefani) venne infoibato, il Motika ebbe l'ardire di venire più volte a casa nostra per prendere tutto ciò che restava....”; “Motika in persona venne a casa nostra ad annunciare con fierezza la morte di mio padre......mio padre fu lapidato, decapitato...aveva due denti d'oro......gli slavi si divertirono a prendere a calci la testa di mio padre..”
A carico di Piskulic Oskar detto “Zuti”, capo dell' O.Z.N.A. (la polizia politica Jugoslava), indagato in ordine al delitto di omicidio continuato pluriaggravato, commesso in Fiume nel maggio del 1945, in concorso con la sua compagna Avianka Marghetic, ai danni di Skull Nevio, Sincich Giuseppe e Blasich Mario, il primo ucciso con un colpo alla nuca, il secondo a colpi di mitra ed il terzo mediante strangolamento, il P.M. ravvisa i gravi indizi di colpevolezza nelle dichiarazioni di Schwazemberg Claudio ( “ ... Piskulic fu il responsabile dell'insanguinamento di Fiume nell'anno 1945.... era notorio che Piskulic Oskar fosse colui che spadroneggiava in città ed era colui che disponeva di vita o di morte”); Sincich Antonia (“... il mattino del 3 maggio '45, verso le otto, vennero a casa mia Piskulic Oskar, detto Zuti, e la sua compagna Avianka Marghetich... io avevo ventidue anni ed ero presente... dopo l'interrogatorio, Zuti e la sua compagna dissero a mio padre di andare con loro e lo portarono prima fuori della nostra casa e poi lo fecero camminare verso la città.... dopo circa un quarto d'ora noi sentimmo dei colpi di mitra ..... mio padre era stato ucciso in un cantiere lì vicino a colpi di mitra, come potè constatare mio fratello Giuseppe, allora giovane medico presso l'ospedale di Fiume, allorchè due giorni dopo gli fu concesso di recuperare la salma”); Sinich Giuseppe (“ ... assieme a mio padre vennero ammazzati altri antifascisti, il Dr. Mario Blasich, che è stato strangolato, come io potei constatare nella camera mortuaria del cimitero; il dr. Nevio Skull che aveva salvato tanti partigiani nelle fonderie di cui era il proprietario”). Nelle necessità di assicurare, ai fini processuali, la disponibilità degli indagati allo stato, disponibilità che, trovandosi i due prevenuti all'estero, poteva essere assicurata solo con la misura cautelare intramuraria, attesa anche l'eccezionale rilevanza delle esigenze cautelari, dovuta alla eccezionale gravità dei fatti - reato evidenziati, il P.M. riteneva applicabile la misura cautelare della custodia in carcere per Motika e Piskulic.
Con ordinanza 14.5.96 il G.I.P. respingeva la richiesta rilevando, in primis, la carenza di giurisdizione del giudice italiano, non rientrando i reati contestati nell'ambito di operatività dell'art. 6 c.p. ( n.d.r. : reati commessi su territorio nazionale ). Al riguardo, infatti, le sezioni unite della Cassazione , con sentenza 2 luglio 1949, Schwend, avevano statuito che i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduta al altro stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero, e ciò in forza del principio di di diritto internazionale secondo cui la cessione del territorio opera un immediato trasferimento di sovranità, cui accede la giurisdizione. Né poteva essere condivisa la successiva e contraria pronuncia delle stesse sezioni unite, 24 novembre 1956, Salomone, sia per la particolarità del caso trattato - ipotesi di bigamia scaturita da un matrimonio celebrato in Pinzano d'Istria il 20 giugno 1950 - e per lo sviluppo dell'iter argomentativo, da cui risultava una portata contingente della massima e tale da non consentire l'automatica trasposizione ai fatti in questione.
Nel merito - proseguiva il G.I.P. - non poteva essere oggetto di contestazione il delitto di genocidio, in quanto introdotto nell'ordinamento italiano in epoca successiva a quella in cui i fatti risultavano, per l'accusa, essere stati commessi. Né poteva il principio dell'irretroattività della legge penale, sancito dal comma 2 dell'art. 25 della Costituzione, essere derogato dall'art. 7 comma 2 della Convenzione per la salvaguardi dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto tale norma mira a stabilire l'irrilevanza di ogni scriminante riconducibile alla pura “ragion di Stato” e quindi a consentire il perseguimento di crimini contro l'umanità che altrimenti resterebbero privi di sanzione anche dopo la scomparsa dei regimi che quei delitti hanno normativamente giustificato, in una prospettiva quindi del tutto diversa da quella delineata dal P.M. e consentendo detta norma agli Stati aderenti di individuare l' an e il quomodo dell'esercizio del potere punitivo anche in deroga al principio della irretroattività, l'unico precettivo.
In ogni caso - concludeva il G.I.P. - risalendo i fatti ad oltre 50 anni prima ed avendo gli indagati superato il 70° anno di età, la richiesta di applicazione della misura custodiale intramuraria andava respinta non sussistendo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, tale non potendo considerarsi - come invece sostenuto dal P.M. - né la gravità del reato, elemento amorfo agli effetti cautelari, né la necessità di assicurare la disponibilità degli indagati allo Stato, non essendo questa esigenza di carattere processuale, ma un'impropria anticipazione della sentenza di condanna definitiva. Avverso tale ordinanza ha proposto appello il P.M. censurando in primis, il ritenuto difetto di giurisdizione. - OMISSIS ...........
Osserva il Tribunale come l'esame degli elementi addotti da P.M. a sostegno della richiesta misura cautelare non possa che condurre ad un giudizio di gravità del quadro indiziario a carico di Motika Ivan in ordine all'uccisione indiscriminata e programmatica, nel territorio istriano compreso tra Gimino e Pisino, dopo l' 8 settembre del '43 e fino al 1947, di un gran numero di cittadini italiani che altra “colpa” non sembrano aver avuto se non quella, appunto, di appartenere all'etnia italiana e di non aver inteso a rinnegare tale appartenenza. Così, come ha dichiarato padre Flaminio Rocchi al P.M. il 6.11.95, dopo l'8 settembre 1943 le truppe jugoslave che avevano occupato l'Istria - oltre alle città di Trieste, Gorizia e Monfalcone - avevano dato inizio ad una “ pulizia etnica “ degli italiani, al non celato scopo di sradicarne la presenza in una regione che sarebbe dovuta passare sotto la bandiera di Tito, ed era iniziato un esodo di centinaia di migliaia di italiani, costretti dalle armi degli occupanti a lasciare le loro terre e a cercare rifugio oltre la linea di Trieste.
Non soltanto di un doloroso esodo si era trattato, perché le truppe di Tito avevano “accompagnato” l' abbandono dell'Istria da parte degli italiani dando inizio ad una persecuzione al termine della quale migliaia di povere donne, uomini e bambini italiani sarebbero scomparsi nelle Foibe.
Ed ora, dalle nebbie della storia prendono forma quei personaggi come Motika Ivan e Piskulic Oskar, che - ciò vale soprattutto per il primo - arrogandosi potere di vita e di morte, hanno infierito sulla popolazione italiana dell'Istria uccidendo o facendo uccidere non avversari politici o persone comunque compromesse con il regime fascista, ma uomini, donne e bambini per il solo fatto di essere italiani, e come tali da eliminare per cancellarne l'identità in una terra da cui sarebbe dovuta scomparire ogni memoria di italianità.
Agghiaccianti nella loro eloquente linearità, sono a riguardo le dichiarazioni testimoniali in precedenza richiamate, tra le quali colpisce quella di Fiorentini Graziella che ricorda la risposta che fù dal Motika data al padre - che stava curando un partigiano ferito in seguito all'esplosione di una bomba a mano - alla domanda del perché dovesse andare via con lui : “ TI SE' ITALIAN” fu la risposta secca e beffarda di Motika che suonò come sentenza inappellabile di condanna a morte.
Papo Luigi, nelle sue dichiarazioni rese al P.M. il 25.1.96 , ricorda che “ gli Italiani, per il solo fatto di essere italiani venivano prelevati a centinaia e portati quasi tutti nel castello di Pisino, da dove, spesso di notte, venivano portati in prossimità delle foibe o cave di bauxite ed ivi fucilati finendo nelle foibe: in tal modo ne vennero ammazzati circa quattrocento, ed a capo dell'organizzazione cui si deve l'infoibamento di questi quattrocento italiani era Ivan Motika”.
Quello stesso Ivan Motika di cui Stefani Alice ha detto :” Motika Ivan era il capo. Non è che si dicesse da parte della gente che lo fosse. Lui era il capo super omnes in tutta la zona. Quando dico che il Motika era il capo in tutta la zona , intendo dire che era il capo in tutta l'Istria.”
Dunque, gravi sono gli indizi a carico di Motika Ivan per le uccisione indiscriminata ed ingiustificata di un gran numero di italiani d'Istria, tra il 1943 ed il 1947.
Parimenti gravi sono gli indizi in ordine alla responsabilità di Piskulic Oskar per la morte di Skull Nevio, Sincich Giuseppe e Blasich Mario avvenute in Fiume nel maggio del 1945. Sincich Antonia, all'epoca ventiduenne, ha - come già sopra esposto - dichiarato al P.M. il 5.3.96 che alle ore 8 del mattino del 3 maggio 1945 si erano presentati in casa sua Piskulic Oskar detto ”Zuti”, e la sua compagna Avianka Marghetic, accompagnati da tre militari armati di mitra i quali avevano perquisito l'abitazione mentre i due interrogavano il padre, Sincich Giuseppe, contestandogli di essere contrario all'annessione di Fiume alla Jugoslavia.
Il padre era stato poi fatto uscire di casa e condotto verso la città, finchè, dopo circa un quarto d'ora, avevano udito dei colpi di mitra ed il fratello Giuseppe, due giorni dopo, aveva recuperato il corpo del padre che giaceva, crivellato di colpi, nei pressi di un cantiere poco distante.
La stessa sorte era toccata anche, quello stesso 3 maggio, ad altri due autonomisti, Blasich Mario e Skull Nevio, come ha dichiarato ancora la Sincich, mentre il di lei fratello Giuseppe, oltre a ricordare l'omicidio del padre, sostanzialmente confessatogli dagli stessi responsabili, Piskulic e Marghevic, ha aggiunto che, quale medico presso l' Ospedale Santo Spirito di Fiume, aveva potuto constatare presso la camera mortuaria del locale cimitero, la morte per strangolamento di Blasich, nonché quella di Skull, uccisi insieme al padre Sincich Giuseppe.
Prima di passare alla qualificazione giuridica dei fatti di reato ascrivibili al Motika, occorre stabilire se per tali fatti vi sia la giurisdizione del giudice italiano, a norma dell'art. 6 c.p., considerato che essi si sono verificati in località assoggettate da lungo tempo alla sovranità di altro stato, cioè della Jugoslavia prima ed ora della Croazia.
Al riguardo, l'art. 6 del c.p. considera il reato come commesso nel territorio dello stato, da cui deriva la punibilità del reo secondo la legge italiana, allorché “ l'azione o l'omissione, che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero ivi si è verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione”.
Unico requisito per la assoggettabilità alla giurisdizione italiana è pertanto quello dell'essersi realizzato in territorio italiano uno degli elementi costitutivi del fatto- reato : azione (od omissione) od evento. OMISSIS.......
Dall' applicabilità della legge penale italiana ai fatti-reato commessi da Motika e Piskulic consegue pertanto la giurisdizione del giudice italiano.
Prima di valutare la sussistenza delle esigenze cautelari leggittimanti l'applicazione della misura detentiva intramuraria per i due indagati, occorre qualificare giuridicamente i fatti ascritti a Motika Ivan.
Il P.M. ha ritenuto configurabile per essi il diritto di genocidio, pur se introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 962 del 9.10.1967, cioè in epoca successiva ai fatti addebitati al Motika, rilevando come non si ponga il problema della irretroattività della legge penale - principio stabilito dall'art. 25 comma 2 della Costituzione - in quanto con la legge del 1967 non è stata creata una nuova norma repressiva, bensì sono stati disciplinati quei comportamenti avvertiti da sempre come profondamente anti giuridici dalla coscienza umana.
Conferma di ciò si avrebbe, secondo il Pubblico Ministero, nel disposto di cui al comma 2 dell'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale prevede, dopo aver stabilito al comma 1 il principio della irretroattività della norma penale, che “ il presente articolo non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. Sennonché - come ha esattamente osservato sul punto il G.I.P. - una siffatta interpretazione della norma pattizzia si porrebbe in insanabile contrasto con l'art. 25 comma 2 della Costituzione, secondo il quale “ nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, e nel contrasto non potrebbe non prevalere la norma costituzionale su una norma contenuta in una legge ordinaria.
Tuttavia, all'art. 7 comma2 della Convenzione non è da attribuirsi il significato di consentire l'incriminazione per un fatto che, all'epoca della sua commissione, non costituiva reato, bensì di permettere che siano perseguiti comportamenti criminali “ secondo i principi generali riconosciuti dalle nazioni civili”, comportamenti che altrimenti resterebbero privi di sanzione anche dopo il venir meno di regimi che tali delitti abbiano normativamente “ giustificato”. La ratio di una tale disposizione risiede quindi proprio nell'esigenza di assicurare che delitti che offendono l'umanità non rimangano impuniti, ma non è questo il caso che ci occupa poiché i fatti oggetto di incriminazione per Motika Ivan erano all'epoca e rimangono oggi un gravissimo delitto per l'ordinamento interno italiano, ma non possono essere sussunti - perché ciò avverrebbe in violazione dell'art. 25 comma 2 della Costituzione - sotto la previsione normativa della legge n.962 del 1967, bensì figurano la fattispecie dell'omicidio plurimo pluriaggravato.
Venendo, infine, alla valutazione delle esigenze cautelari, non può non tenersi conto, anzitutto, dell'età dei due indagati e del tempo trascorso dai fatti che vengono loro addebitati. Motika Ivan è prossimo all'ottantanovesimo anno di età e Piskulic Oskar ha compiuto settantasei anni.
A norma dell'art. 275 comma 4 c.p.p. per l'imputato (o indagato) che abbia superato il settantesimo anno di età non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, se non in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Tale disposizione fa derivare dal superamento del settantesimo anno di età una presunzione di ridotta pericolosità sociale connessa all'inevitabile scadimento delle facoltà psichiche e fisiche dell'uomo, affidando al giudice il compito di stabilire, caso per caso, se la situazione di fatto, valutata complessivamente, sia di tale gravità da giustificare, anche in tale ipotesi, l'applicazione di una misura cautelare (omissis) , in ordine alla quale, anche nel caso in cui sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice ha la possibilità, e non l'obbligo, di applicare la misura cautelare della custodia in carcere (omissis).
Per valutare poi la “ eccezionalità ” delle esigenze cautelari non può che farsi riferimento alla necessità di prevenire i pericoli di cui all'art. 274 c.p.p. ( cioè il pericolo di fuga, quello inerente all' acquisizione delle prove e quello relativo alla reiterazione della attività criminale), quando però tali pericoli si connotino di un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo e siano in grado di concretare la possibilità di eludere le finalità processuali e di prevenzione specifica tutelate dalla legge (omissis).
Orbene, nel caso di specie, l'età avanzata degli indagati ed il lunghissimo tempo trascorso dai fatti sono elementi che, ai fini cautelari, assumono una valenza preminente a fronte dell'invocata necessità di assicurare la disponibilità degli indagati allo stato, trattandosi di stranieri dimoranti all'estero, quale evidenziata dal P.M. appellante.
Non possono, infatti, desumersi dalla pur assoluta gravità dei fatti ascritti a Motika e Piskulic, in assenza di pericolo di comportamenti recidivanti o volti all'inquinamento delle fonti di prova, quelle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza che, non trovando fondamento in una comprovata oggettiva necessità processuale ( non potendo ritenersi configurabili neanche l'esigenza di cui all'art. 274 lett. Punto B c.p.p. , trattandosi di indagati non presenti nel territorio italiano e per i quali non vi è incertezza sul luogo di dimora all' estero), si tradurrebbero in un impropria anticipazione degli effetti di una sentenza di condanna definitiva, in violazione quindi delle suindicate norme che presiedono all'applicazione delle misure cautelari.

P.Q.M.

l'ordinanza 14.5.1996, emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma nei confronti di MOTIKA Ivan e PISKULIC Oskar;

manda

la cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Roma 2 luglio 1996