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 ETTORE  MUTI     

di Enrico Mancini

 
Prefazione
I primi anni - In fuga verso il fronte
La questione di Fiume
La guerra d'Etiopia
Legionario di Spagna
Dalla segreteria del P.N.F. ai primi anni di guerra
Verso la fine - parte I
Verso la fine - parte II

 
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Verso la fine - parte II

Poco prima della mezzanotte del 23 agosto 1943 una piccola colonna di automezzi dei Reali Carabinieri parte dall'autocentro del Ministero dell'Interno: un'autovettura, un autocarro, un'ambulanza. A bordo un tenente dell'Arma (Taddei), un maresciallo in borghese (Ricci), un uomo in tuta kaki di cui difficilmente si saprà mai il nome - basso, stempiato, sulla quarantina, con accento napoletano, da alcuni individuato come Francesco Abate - e una dozzina di carabinieri armati di moschetto.
Escono da Roma deserta nella notte (vige il coprifuoco), percorrono la via Aurelia, raggiungono Maccarese. Nella periferia della cittadina lasciano l'ambulanza, che attenda il loro ritorno, e sostano alla locale stazione dei carabinieri. Viene svegliato il maresciallo che la comanda, al quale il tenente chiede due militi perché facciano da guida alla comitiva fino a Fregene. Salgono sull'auto i carabinieri Contiero e Frau; la colonna riparte silenziosa nel buio, sguscia per la campagna e si ferma davanti alla piccola caserma dei carabinieri di Fregene.
La comanda il brigadiere Barolat, che viene tirato giù dal letto e invitato ad unirsi alla comitiva. Perché? Risponde brusco il tenente: “Abbiamo l'ordine di arrestare Ettore Muti e lei deve condurci alla sua abitazione”. Meraviglia dell'assonnato brigadiere. Con tutto quello schieramento di forze ? Non era più semplice mandare un piantone a chiamarlo ed il pluridecorato Muti si sarebbe senz'altro presentato, come aveva già fatto altre volte. «No», è la risposta. «Questa volta la cosa è diversa».
Dopo aver imbarcato il brigadiere, autovettura ed autocarro proseguono per la strada sterrata che conduce alla pineta di Fregene, ai cui margini sorge, piuttosto isolata, la bassa villetta ad un piano che è la residenza di Muti.
Fermate le macchine ad una certa distanza e spenti i motori, gli uomini vengono fatti proseguire a piedi, in colonna e in silenzio, fino alla costruzione. «Abita qui» dice il brigadiere. Bene, risponde l'ufficiale, e ordina di circondare la casa imbracciando i moschetti e di bussare alla porta. L'ordine viene eseguito, ma nella villa tutti dormono e ci vorrà qualche minuto perché la porta venga aperta.
Assonnato compare sull'uscio Marracco, l'attendente di Muti, che stupefatto chiede al brigadiere Barolat, da lui ben conosciuto, il perché di quell'insolita visita di notte. Ma la meraviglia gli passa di colpo quando un gruppetto di armati, tenente in testa, fa irruzione nell'interno. «Ho un mandato di cattura per Ettore Muti. Svegliatelo e fate presto!» spiega secco il tenente.
Muti era in camera da letto, e non era solo. Da tempo conviveva con lui una ballerina polacca di una compagnia di riviste, Edith Fucherova. Svegliato forse dal trambusto, compare sulla porta dell'ingresso a torso nudo, con i soli pantaloni del pigiama. Compaiono anche gli altri pochi abitanti della villetta: Concetta Verità, la cameriera, e Roberto Rivalta, un vecchio amico di famiglia di Muti. Questi si guarda intorno, apparentemente tranquillo, accenna un sorriso al brigadiere che conosce, chiede che cosa si voglia da lui. Risponde senza complimenti il tenente Taddei: «Ho l'ordine di arrestarla. Si vesta e venga con noi». Sguardo sbalordito di Muti, poi una scrollata di spalle:«Va bene, mi vesto e vengo subito». Il tenente lo rincorre mentre si dirige verso la camera da letto. Muti incomincia a seccarsi: «Tenente, so vestirmi anche da solo». E poi spiega che nella camera c'è un'altra persona. Ma l'altro insiste e si giustifica: «Ho l'ordine di non perderla di vista neppure un minuto».
Muti si rinfresca la faccia, poi va per prendere la giubba sulla quale brillano i nastrini dell'eroismo: è la storia patria dal 1915 a quei giorni; sono le gesta di un uomo generoso, onesto, coraggioso. Taddei, alla vista di tanto azzurro, anziché chinare il capo mostrando il rispetto dovuto, ostenta una smorfia: “Fareste meglio a vestirvi in borghese. Tanto le vostre medaglie ormai non servono più! –
- Tenente, ricordatevi che parlate con un colonnello! –
- Ancora per poco. – “

Riesce a restare padrone dei propri nervi. Si cala il berretto sulla testa e va, con le mani incrociate dietro la schiena, con fare incurante. Alla sua destra il maresciallo Ricci, alla sua sinistra il carabiniere Frau; dietro, l'uomo in tuta ed il carabiniere Contiero. Gli altri , con Taddei, ad una decina di metri. Invece di prendere la strada per Roma, imboccano a piedi quella per la pineta. Camminano per circa 15 minuti, nel buio pesto, percorrendo si e no 500 metri. Taddei lancia un fischio, al quale ne segue subito un altro in risposta probabilmente da Ricci; s'ode, prima di una mitragliata, la voce di Muti che urla: “Ma insomma, che fate? Sono o no con degli Italiani?”. Poi la scarica. L'eroe si abbatte d'un colpo, non un lamento; è nella polvere non per il valore del nemico, ma per la viltà d'un sicario. La perizia necroscopica rivelerà che il proiettile mortale ha attraversato il cranio dal basso verso l'alto; un proiettile sparato a bruciapelo, come dalla bruciatura che circonda il foro di entrata sul posteriore del berretto, mentre il foro di uscita è sulla parte superiore della visiera. L'uomo che non ha avuto mai paura della morte, che ha sempre affrontata serenamente e con sprezzo del pericolo ha sempre giganteggiato, giace immobile in una pozza di sangue.
Si può iniziare la commedia. Dal gruppo si spara all'impazzata, quasi si trattasse di un combattimento, ma del nemico neanche l'ombra. Sono tutti a terra; vengono lanciate anche due bombe a mano. Poi il fracasso cessa; tutti si rialzano, nessun ferito nel drappello; solo un morto. Taddei grida verso il gruppo di Ricci: - Allora, che c'è di nuovo laggiù? –
- Finestre chiuse. E' andato a casa -.
Taddei si avvicina e per accertarsi personalmente accende una lampada tascabile. Vengono dati gli ordini per il piantonamento e alle sette del 24 agosto, dopo le constatazione di legge, su un 'autoambulanza (quella portata per precauzione e lasciata alla caserma di Maccarese) il cadavere viene trasportato all'ospedale militare del Celio, ma non all'obitorio.
Il generale Sani, che abitava accanto alla casa di Muti, narrerà di avere udito una raffica di mitra e poi un colpo isolato. Dopo s'era visto presentare innanzi il tenente Taddei con la pistola in mano che gli chiedeva se potesse ospitare un cadavere.
Il governo Badoglio emette un comunicato – al dire del generale Carboni sembra stilato dal figlio o dal nipote di Badoglio – che deve immediatamente rimangiarsi, perché il falso è fin troppo evidente oltreché offensivo verso l'eroe.
Saranno due amici fraterni a rintracciare la salma di Ettore Muti nascosta nello sgabuzzino delle pattumiere al Celio. Verrà trasportata senza onori militari al Verano, seguita da pochi amici fedelissimi. La madre scoprirà il tutto solo dopo 7 anni, avendo fin allora creduto che il figlio fosse caduto in battaglia durante aspro combattimento.
Con l'avvento della Repubblica Sociale le spoglie dell'eroe alato furono trasferite esattamente il 17 febbraio 1944 a Ravenna e solennemente sepolte nella chiesa di S. Francesco, dove riposano i ravennati illustri, dove riposa Dante Alighieri.