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Gennaio '68: terremoto in Sicilia
Testimonianza di chi ha vissuto in prima persona l'antica tragedia e l'angoscia del domani.

 

da
"Addio, Gibellina"
di Leonardo Cangelosi
Arti Grafiche Campo
(1977)


"Si ode un gran rumore indefinito, un fracasso, come se cento carretti siciliani attraversassero di gran carriera una strada piena di ciottoli..."

 

"Aveva trentatrè anni. Aveva sempre avuto trentatrè anni, per tutti gli anni della mia fanciullezza. Un giorno però scomparve..."

 

"...e come le tue parole, i tuoi sospiri, i tuoi erutti, le tue preghiere, il tuo dolore entrano tranquillamente nella baracca del tuo vicino, così nella tua arrivano quelli degli altri."

 

 

LE VITTIME DI GIBELLINA

 

Quel giorno


da "Addio, Gibellina" di Leonardo Cangelosi (1977)

14 Gennaio 1968. Di buon mattino c'è già una certa animazione per le strade del paese. È domenica e oggi si vota per il rinnovo del Consiglio Comunale. I sei seggi elettorali, vigilati per tutta la notte dai Carabinieri si aprono alle ore otto. I candidati locali, col loro piccolo staff, sono già all'opera; arriva qualche rappresentante politico provinciale a dar man forte ai rappresentanti del partito, a consigliare e suggerire tutte quelle operazioni di stimolo e di recupero da attuare. Col passare delle ore, il traffico aumenta: capannelli, discussioni, un po' dovunque. In fin dei conti una giornata diversa, una giornata che vale la pena vivere per intero, intensamente. Sorrisi, sottaciuti consensi, occhiate diffidenti, fac-simile porti quasi sottobanco. È la politica dei piccoli paesi dove tutti si conoscono. Si vota. Le donne, finita la messa, fanno ressa davanti ai vari seggi elettorali, attardandosi a discutere con amiche e parenti; gli uomini, indaffarati, fanno il loro giro per le sezioni, chiedono notizie, ritornano nei rispettivi circoli, si rianimano con qualche caffè e poi di nuovo in giro.

A nessuno passa per la testa che questo giorno potrebbe essere l'ultimo come in effetti lo è. L'ultimo giorno di vita della vecchia, cara Gibellina. È l'ultimo giorno anche per cento, per più di cento, gibellinesi che magari s'incontrano tra la folla senza vedersi, oppure si salutano e si danno l'appuntamento per domani. C'è freddo, un freddo secco e pungente: la neve caduta qualche giorno prima s'è indurita nei cantucci più ridossati, ma la mattinata è tersa, serena, piacevole.

Cara Gibellina, vecchio incrostato paese, pieno di muffe ed umidità; architettonicamente scorbutico, dalle rientranze traditrici e dalle sporgenze illegali e prepotenti; dai tetti grigi di terracotta e dai muri rossastri o bianco-calcinati. Piccolo paese, gradne contenitore di tutti i sentimenti di cui è capace l'animo umano. Fedele alle ataviche tradizioni, immutabile nelle abitudini, sordo ad ogni progresso e restio ad ogni novità. Piccolo paese, tanto caro e amato! Forse così povero, angusto e malfatto rispecchiavi meglio che ogni altra cosa le ristrettezze, il disagio, la miseria ma, anche l'orgoglio e l'arrendevolezza, la tenacia e la disperazione, l'umiltà e la prepotenza selvaggia ed anche la remissività di una cominutà abbandonata a se stessa, priva di stimoli idonei, apatica ed attendista.

Ore 13,30. Sono tutti a pranzo. Si ode un gran rumore indefinito, un fracasso, come se cento carretti siciliani attraversassero di gran carriera una strada piena di ciottoli, trenta, quaranta secondi in tutto. Ci si guarda negli occhi interrogativamente, nessuno si rende effettivamente conto di ciò che accade. Si va fuori per strada, c'è un certo nervosismo, si chiacchera, si cerca di interpretare l'accaduto.

È iniziata l'agonia.

Ore 14,07. Le case ondeggiano paurosamente, in tutte le strade si osserva, fra lo sbigottimento generale, che le costruzioni di destra fanno profondi inchini e traballanti riverenze a quelle di sinistra, e quelle di sinistra fanno altrettanto; è una lugubre contradanza accompagnata da profondi boati e scricchilii terrorizzanti. Cade qualche tetto, qualche cornicione, i muri si lesionano, i mobili modificano la loro abituale posizione, i vetri tintinnano; in qualche casa si accendono le luci senza che nessuno tocchi gli interruttori, luci che non si riesce a spegnere in nessun modo. I primi feriti leggeri cercano soccorso. È chiaro ed urgente che ci si deve allontanare dal centro abitato. Lunghe file di macchine ai rifornimenti e poi via, via comunque. Si chiudono i seggi elettorali; arrivano autorità, il Prefetto, quelli del Genio Civile. La gente continua a sfollare mentre le scosse, ad intervalli più o meno lunghi, non lasciano presagire nulla di buono.

Piccolo, caro paese, tanto piccolo eppure tanto grande ed eroico! Come un vecchio gigante che reca avvinghiato al collo il suo figliolo e che, colpito mortalmente, raccoglie tutte le sue forze per non travolgere nella caduta la sua creatura e programma il suo rovinoso mortale schiantarsi in modo da dare al suo diletto ogni possibilità di salvezza, così questo nostro vecchio paese, scosso furiosamente dal sisma in violento crescendo, resiste al dilà di quanto consentono le sue strutture, dando a tutti il tempo e la possibilità di salvezza. I cittandini sono tutti, o quasi, andati via, ma si fermano appena fuori il paese. Comincia un frenetico andare; si cercano amici e parenti, si improvvisano ripari e sistemazioni per la gelida notte incipiente.

Sulle strade per S. Ninfa, per Salaparuta, per Alcamo lunghe file di macchine e gente che non sa esattamente cosa fare. C'è chi si accorge di avere il vestito nuovo addosso e ritorna a casa per toglierseleo ed indossare quello vecchio: una notte all'aperto potrebbe rovinarlo! Qualcuno ritorna a casa a prendere qualche coperta ma, di quelle vecchie e magari rattoppate! Chi va a rifornirsi di soldi o altro. Un tale si ricorda di non aver chiuso la porta con la chiave e torna: non si sa mai! Un altro ha lasciato la vecchia madre in agonia e deve pur tornare a vedere. Come fare? Cosa fare? Una coppia di sposini non riesce a credere che la vita   può finire quando si comincia a viverla e si attarda; qualche altro si rintana nella sua casa e si rifiuta assolutamente di abbandonarla ritenendola più sicura di qualsiasi altro posto; un altro ancora, credendo di potere scegliere tra morire sul suo letto o all'aperto sulla neve, se ne torna tranquillamente a casa. Il gigante resiste, ma le ferite si accentuano, diventano mortali e la tragedia non tarda. Arrivano automezzi di soccorso e molta gente parte alla volta di paesi della parte occidentale che risultano fuori della fascia sismica.

Nelle campagne tra Gibellina e Camporeale spuntano dei piccoli crateri zampillanti una poltiglia grigio-giallastra, qua e là, sorgenti di acqua sulfurea. Dalle montagne tonnellate e tonnellate di roccia precipitano a valle: così al Parco, a Mandria Vecchia e Busecchio; larghe e profonde fenditure si notano nelle Montagnole.

Dappertutto un odore acre e disgustoso. Sulle strade si aprono e si chiudono quasi subito delle voragini; molti ponti sono lesionati ed alcuni irrimediabilmente. Un lungo e spaventoso boato, scoppi, bagliori rossastri, crepitii, stridii, tonfi assordanti ed infine un gran polverone che avvolge tutta Gibellina. È la fine. Gibellina non è più. Sono le 3 e otto minuti primi del 15 Gennaio 1968.

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Peppi lu babbu

da "Addio, Gibellina" di Leonardo Cangelosi (1977)

Lo chiamavano "PEPPI LU BABBU ". Conosceva poche parole ed ognuna di queste solea ripetere centinaia di volte. Queste parole erano i suoi discorsi, le sue preghiere, il suo imprecare. Era alto e ben fatto, con il bell'ovale del viso addolcito da due occhi neri, profondi e sereni; sulle guance e sul collo la barba, non uniforme, quasi rada, di un nero variegato di grigio e di rossastro. Coperto alla meglio di stracci, sempre scalzo, con due piedi enormi, gonfi, che portavano i segni del lungo andare su ciottoli e pozzanghere delle strade del piccolo centro. Lo conoscevano tutti in paese, grandi e piccini. I primi lo mandavano ad attingere "acqua tinta" con la "quartara" alla "brivatura", gli altri lo stuzzicavano, lo irritavano con versetti e versacci, facendolo andare su tutte le furie e qualche volta facendolo piangere.

Forse lo amavano tutti. Viveva della elemosina di tutti. Forse lo odiavano e lo detestavano tutti; nessuno mai aveva avuto una parola di conforto per lui. Nessuno che lo avesse abbracciato e baciato una volta. Aveva trentatrè anni. Aveva avuto sempre trentatrè, anni, per tutti gli anni della mia fanciulezza. Un giorno però scomparve: non se ne seppe più nulla e nessuno pensò più a "PEPPI LU BABBU".

Io invece, da allora, ebbi sempre la certezza che lo avrei rivisto, che lo avrei incontrato ancora. E non mi sono sbagliato.

Dopo mezzo secolo, nel gennaio del '68, per tutti i giorni, immediatamente dopo il giorno del sisma catastrofico che distrusse Gibellina, ritornai sulle macerie di casa mia in cerca di interessi sepolti e ricordi.

Ogni giorno, per tanti giorni, incontrai "PEPPI LU BABBU". Era sempre lo stesso, quel viso, quella barba, quegli occhi, gli stessi stracci addosso e i grossi piedi gonfi. Aveva ancora trentatrè anni. Si aggirava serio e preoccupato tra la folla che lo ignorava, tra la folla ora eccitata, ora depressa, affaticata, inzaccherata, sfinita, orante e bestemmiante. Nessuno che lo guardasse. Nessuno che si curasse di lui. Mi è sembrato vederlo più di una volta come se avesse voluto stendere la mano per una carezza verso qualcuno. Ma nessuno gli faceva caso. Nessuno lo vedeva. E non potevano vederlo, forse perché tutti guardavano sotto le pietre. Tutti cercavano qualcosa che sapevano di aver perduto e lui', lui invece sopra le pietre. Camminava leggero sulle macerie, sulle macerie di tutti".

Passati i giorni caldi e frenetici, tutti ricordano.

AverLo visto una sola volta, anche di sfuggita, bastò per non dimenticarlo, in quei giorni di dolore che seguirono quell'immane catastrofe.

Turbamento profondo negli occhi, serenità nei lineamenti, estatico nell'incedere, immenso nella sua complessione fisica, così apparve a tutti.

Nel ricordo vivo di ognuno, per giorni e giorni, continuò ad affacciarsi con prepotenza, ma nessuno osò parlarne. Era ben strano: nessuno sapeva perché era rimasto tanto colpito da quella visione e nessuno riusciva a confidare al suo prossimo che quell'incontro, quella apparizione aveva avuto uno strano fascino che aveva profondamente modificato qualcosa nell'intimo dell'anima e della coscienza.

Lo avevano visto tutti, eppure nessuno lo avrebbe pubblicamente ammesso. "Se ne sarebbero vergognati!"

Ognuno così pensava, ignorando che tutti pensavano la stessa cosa e che tutti facevano le stesse riflessioni:
- "Ma cosa viene a cercare questo PEPPI LU BABBU?" -
- "Non poteva morire lui invece di mio figlio? Dio, che fai?" -
- "Cosa storta lasciar vivere "Peppe" e far morire tanta brava gente!" Ma c'è un Dio?" -

Quando ogni sera le tenebre avvolgevano il teatro della tragedia e tutti si fermavano dal loro faticoso andare, dal loro rabbioso cercare e si abbandonavano nella speranza di un lieve riposo, seppure scomodo nelle loro menti restava vivida e martellante quella figura di "PEPPI LU BABBU" ... turbata ... estatica ... serena ... immensa. Nessuno riuscì a disfarsi di quel pensiero, nessuno riusci a cancellare quel ricordo prepotente; nessuno ebbe il coraggio di confessarlo al suo vicino.

Dicono  che un giorno, vennero uomini cattivi dalle facce truci. Cercarono tra i ruderi del vecchio paese, cercarono disperatamente "PEPPI LU BABBU" e lo trovarono. Dicono che non erano di Gibellina... non erano certamente di Gibellina. Lo trovarono. Lo afferrarono con  violenza, lo accusarono sghignazzando. "Ma di che cosa? Di Cosa lo accusavano?" Nessuno, nessuno ha saputo dirmelo. Lo pestarono a sangue. Poi lo portarono, tramortito laddove sorgeva la Vecchia Chiesa Madre, al centro del paese distrutto. Composero una croce con delle grosse travi e lo crocifissero. Ed ora sta là ... immobile sotto la pioggia ed il sole... incartapecorito. E sembra che la gente non se ne accorga.

Dicono tutto questo ed io CREDO.

 

 

LE FOTO DI GIBELLINA VECCHIA
PRIMA DEL TERREMOTO

 

LE VITTIME DI GIBELLINA

 

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August Dickmann (1910-1939)