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                  conversazione con john angelori

Adattamento dell'intervista a John Angelori condotta da Fabio Novelli il 29 ottobre 2000 per la tesi "La diffusione e lo sviluppo in Italia della pratica della meditazione Vipassana, sia in ambito monastico che laico", Cattedra di Sociologia della religione, Prof. M.I. Macioti.

1.Come ha sviluppato un interesse verso il Buddismo?
2.
Quali sono state le motivazioni profonde che l'hanno portata a sviluppare un interesse diretto verso la pratica della meditazione?
3.
Quali sono state le motivazioni profonde che l'hanno portata a sviluppare un interesse diretto verso la pratica della meditazione?
4. In che misura è riuscito ad integrare l'insegnamento buddista e la pratica meditativa nella sua vita quotidiana?
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A distanza di qualche anno la pratica meditativa ha influenzato il suo stile di vita?
6. Uno degli obiettivi fondamentali della pratica della meditazione di consapevolezza è quello di operare una trasformazione nel comportamento morale del praticante: All'interno del suo percorso meditativo lei ritiene che ciò si è verificato?
7.
Come giudica il crescente interesse nei confronti della spiritualità delle religioni e filosofie orientali e in particolare del buddismo da parte di diversi settori della cultura occidentale: Per lei è un fenomeno passeggero o un qualcosa che si sta radicando gradualmente nella nostra cultura?
8. Qual è l'importanza e l'utilità della presenza di un monastero Buddista Theravada in Occidente?
9.
Lei si considera buddista?
10. Come considera il Buddismo: una religione, una filosofia, uno stile di vita?

john angelori anegarika

FN: Come ha sviluppato un interesse verso il Buddismo?

JA: Il mio interesse verso il Buddismo risale ai primi anni settanta. Allora frequentavo il corso di laurea in filosofia all'università di New York e mi capitò di seguire alcuni corsi di taoismo, induismo, buddismo e così via. Mentre ero lì fui coinvolto in una ricerca che alcuni miei amici conducevano nel Dipartimento di psicologia diretto dal Prof. Richard Davidson, sugli effetti della meditazione sull'apprendimento, l'attenzione ed il rilassamento. Loro ci insegnarono un paio di tecniche di base, ed io feci da soggetto per il test. A quel tempo, un mio amico, Cliff Saron, che faceva parte del gruppo di ricerca, mi offrì come regalo di compleanno un ritiro della durata di un fine settimana presso la Società di Meditazione Interiore (Insight Meditation Society - IMS) a Barre, nel Massachusetts. Fu molto generoso da parte sua: mi permise infatti di entrare in contatto con un ambiente in cui le pratiche meditative buddiste erano molto presenti. Io fui molto impressionato dall'esperienza che feci in quella occasione, e infatti vi tornai per altri ritiri nei mesi e negli anni successivi, in compagnia di Sharon Salzberg, Joseph Goldstein e Jack Kornfield (che era stato un discepolo di Ajahn Chah). Non so adesso, ma allora l'IMS ed i suoi insegnanti erano tutti ispirati dalla tradizione della Foresta e dai maestri della grande tradizione Birmana.

Comunque, il primo week-end di ritiro passato con Sharon presso l'IMS, mi aiutò a capire due cose importanti: la prima era che nonostante la mia precedente esperienza con la meditazione, ancora non avevo la più pallida idea di come praticare; l'altra fu che la pratica si stava facendo impegnativa. Così continuai a tornare indietro a fare ritiri e a leggere cose che riguardavano la meditazione Vipassana. Ricordo che non riuscii a sviluppare una buona pratica, e che ancora non avevo capito cosa esattamente stavo facendo e cosa mi motivava a farlo. Insomma non ero ancora molto abile nel modo di vivere. Le cose cominciarono a cambiare per me, e la pratica divenne più chiara, quando mi trasferii a Cambridge, nel Massachusets, dove fu più facile frequentare e praticare all'IMS, con un gruppo composto da persone come Larry Rosenberg e altri, che si erano formati all'interno dell'IMS.

Fu attorno ai primi anni Ottanta, quando cominciai a passare più tempo con il gruppo di Cambridge CIMC (Cambridge Insight Meditation Center), ascoltando discorsi e sviluppando la pratica, che cominciai a dare un senso alle cose che stavo facendo. Presi anche un periodo di aspettativa dal lavoro e feci il mio primo lungo ritiro all'IMS.

Quei tre mesi di ritiro sembrarono una perdita di tempo. Io ancora non ero maturo, o almeno così maturo per poter affrontare un ritiro così lungo, e per sostenere un periodo di pratica intenso. Mi sentivo un caso senza speranza. In ogni modo, questa cosa non mi dissuase dai miei propositi e continuai ancora ad esercitarmi.

Guardando indietro devo concludere che l'IMS fu veramente un'esperienza basilare per me ed per il mio sviluppo come meditante buddista. Non solo ebbi contatti con insegnanti qualificati, ma le condizioni che influenzarono il mio percorso, dal punto di vista esistenziale e spirituale, maturarono proprio grazie all'esperienza nel centro.

Nel 1984 (o era il 1985?) incontrai Ajahn Anando, un monaco anziano della tradizione della Foresta di Ajahn Chah. Feci un ritiro di meditazione metta con lui che fu illuminante. Durante il nostro colloquio abbiamo parlato del mio interesse per il buddismo monastico, e lui mi aiutò a chiarire molte cose che poi mi condussero alla decisione di vivere in un monastero in Inghilterra e prendere i precetti come anagarika. Io pensavo che probabilmente sarebbe stato necessario andare in Asia per prepararsi nel modo più adeguato, ma lui mi suggerì un'altra strada. Mi invitò ad andare a Chithurst per un ritiro in modo che io potessi sperimentare la vita monastica e fare esercitazioni senza dover lottare contro tutti gli ostacoli che avrei potuto trovare in Asia, da quelli culturali ai problemi legati all'alimentazione ed alle malattie. Io ero elettrizzato ma non accettai finché non lo rividi l'anno successivo per un altro ritiro all'IMS. Così nel 1987, andai a dare una mano, come laico, in un ritiro invernale monastico che durò tre mesi. Rimasi per un altro paio di mesi dopo la fine del ritiro, per vivere la dimensione del monastero al di fuori della situazione tipo che offriva appunto il ritiro.

Devo dire che l'esperienza della vita monastica fu estremamente positiva, e così decisi di tornarvi e diventare un anagarika, non appena fossi riuscito a mettere a posto la mia vita negli Stati Uniti. Tornai un anno più tardi o poco più, e presi gli 8 precetti. Ebbi l'opportunità di fare un altro ritiro monastico e, poiché ero l'unico anagarika con la patente, spesso andavo ad accompagnare i monaci anziani in giro quando erano invitati ad insegnare. Questa fu una vera fortuna per me perché ebbi molto tempo in macchina per fare delle domande e per osservarli.

Nel 1989 ci fu un invito in Italia da parte dell'Associazione AMECO a Roma e dell'ambasciatore dello Sri Lanka, per stabilire un monastero Theravada in Italia. Ajahn Anando mi chiese se fossi interessato ad andare ad aiutare Ajahn Thanavaro, un monaco anziano italiano, che era stato scelto per la missione, ed io accettai. Ero molto emozionato ma sapevo bene che non sarebbe stato facile per me. Conobbi Thanavaro il giorno prima della nostra partenza - non avevo avuto altri contatti con lui prima - e quando prendemmo possesso del nuovo vihara (monastero), facemmo di tutto per renderlo accogliente ed appropriato. Abbiamo trascorso molto tempo incorniciando immagini dei nostri Ajahn, costruendo un piccolo altare e in generale ripulendo le cose che erano state lasciate in casa prima che fosse data al Sangha. Il resto fu veramente solo una questione di entrare nella routine monastica, uscire fuori per i nostri quotidiani e simbolici "pindapat", di recitare i canti e di praticare la meditazione della mattina e della sera.

All'inizio fu difficile per me, e mi venivano in mente storie che avevo sentito su altre fondazioni di vihara in Inghilterra, o di monaci dell'occidente che dovettero adattarsi alle condizioni che trovavano in Asia. Non c'era nulla di così austero, certo - noi avevamo acqua corrente calda ed elettricità - ma avevamo solo i tappeti per sederci sul marmo freddo del pavimento, e dato che la casa era stata costruita per l'estate non c'era riscaldamento e faceva piuttosto freddo. Inoltre io non parlavo né capivo l'italiano, e a parte qualche visitatore dall'ambasciata dello Sri Lanka e qualche italiano da Roma nel week-end, non si facevano molti incontri. Fu decisamente un periodo di adattamento per me: non mi trovavo infatti in un grande monastero con routine ben salde e mosso dall'ispirazione di stare con monaci che conoscevo e stimavo.

Nel novembre del 1990 il mio impegno di un anno come anagarika stava per finire. Io mi sentivo praticamente sicuro di non voler continuare a fare il monaco, ma ero anche altrettanto sicuro che non volevo tornare negli Stati Uniti, alla vita di prima. Avevo avuto quella che mi piace pensare come una sorta di esperienza di cambiamento e non avrei più potuto vedermi nella vita laica che avevo lasciato prima di venire in Europa. Inoltre ero in Italia, la terra dei miei antenati (i miei nonni erano immigrati in America nella prima parte del secolo scorso). Quindi ho pensato che avrei dovuto dare almeno un'occhiata in giro prima di decidere che cosa avrei fatto in futuro.

Accettai l'invito di un pittore, il quale era venuto al vihara occasionalmente ed era diventato amico dei monaci, di vivere in una casa che lui aveva costruito qualche anno prima, come una specie di ritiro montano, ma che non aveva mai finito completamente, e nella quale non era mai vissuto. Lui la usava, più o meno, come un magazzino di attrezzi e vecchi mobili; ma aveva acqua fredda, una cucina a legna ed un semplice bagno. Non c'era elettricità ed era un po' polverosa e fredda; ma aveva tutti i requisiti necessari per poterci vivere e mi diede la possibilità di risolvere alcune cose e continuare uno stile di vita semplice. Passavo la maggior parte del mio tempo da solo laggiù - come un piccolo Thoreau - leggendo, scrivendo, praticando e occasionalmente parlando con le persone che incontravo lungo il sentiero che conduceva alla casa. Fu durante quei due anni che vissi lì che decisi di stabilirmi in Italia, dove attualmente risiedo.

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FN: Quali sono state le motivazioni profonde che l'hanno portata a sviluppare un interesse verso la meditazione?

JA:Penso che la motivazione maggiore possa essere individuata nel profondo sconforto che provavo per la vita quando avevo circa vent'anni. Era come una esigenza molto profonda, esistenziale, di capire qualcosa di importante della mia vita, e di prendere una decisione su cosa volessi veramente farne. Guardando al passato oggi, dopo un po' di anni, penso che veramente cominciai a capire che stavo soffrendo e che era arrivato il momento di comprendere nel profondo la natura di questa sofferenza.

Il buddismo mi diede la possibilità di affrontare questo senso di sconforto che avevo nei confronti della vita. Nonostante il fatto che la mia vita fosse piuttosto ricca e piena e molto promettente - suonavo musica semi-professionalmente, mi allenavo e praticavo sport competitivi - ancora avevo questo senso di sconforto nei confronti di tutto e non potevo rimanere più in quella condizione. Questa mancanza di consapevolezza mi indusse a vivere in modi che sembravano solo lenire questa insoddisfazione.

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FN: Quali sono state le difficoltà che ha incontrato nella pratica meditativa?

JA: Io penso che incontrai le stesse difficoltà che tutti incontrano quando cominciano a praticare. Quando inizi a praticare hai la sensazione di attraversare periodi di disagio fisico e mentale. Anche solo il semplice fatto di fermarsi per sviluppare un apprezzamento di questa pratica sembra difficile, perché va contro tutti i principi che ci sono stati inculcati riguardo alla nostra vita. Inizialmente più pratichi e più questa situazione di sconforto sembra crescere.

Quando cominciai a praticare ero piuttosto ostinato e quindi non intendevo smettere, nonostante facessi cose che veramente non mi aiutavano molto. Inoltre avevo un forte desiderio di praticare malgrado tutti i dolori fisici che provavo nelle gambe e nella schiena; era come il desiderio di stringere i denti: ero distratto da tutto ciò che accadeva nel mio corpo e nella mia mente. Nonostante ciò continuai a fare ritiri e corsi, senza capire che ero proprio io il mio peggior nemico. Questo rese lunghi periodi di esercizio tortuosi. Ricordo il ritiro metta, del quale parlavo prima, con Ajahn Anando. Furono dieci giorni di incredibili sofferenze: dolori alla schiena come coltellate, ginocchia che si bloccavano e che facevano male, un costante peso e una pressione mortale nel petto che peggiorò man mano che il ritiro procedeva e i periodi in cui si stava seduti diventavano più lunghi. Io ero un disastro mentre tutti gli altri sembravano emanare sentimenti amorosi per tutti gli esseri senzienti. Ricordo che l'ultima seduta dell'ultimo giorno del ritiro tutta la tensione, che provavo nel mio corpo e nella mia mente, esplose e si dissolse. Direi che ero felice che il ritiro fosse finito.

Col tempo cercai di usare tutto quello che potevo, dai piccoli mantra come "sii più come Budda e meno come i buddisti"- uno slogan dell'IMS che la gente usa nel centro - fino ad approfondire la mia comprensione degli insegnamenti fondamentali e delle attitudini quotidiane che uno poteva sviluppare come praticante. Fondamentalmente cercai di vivere gli insegnamenti, usandoli come riflessioni quotidiane su come vivere la vita. Così la difficoltà più comune fu superare quelli che venivano chiamati gli ostacoli fondamentali: pigrizia, agitazione, dubbio, irritazione e frustrazione.

Non ci fu nessun altro problema per me; niente di paragonabile a quello che, in un paese cattolico come l'Italia, qualcuno potrebbe incontrare se intendesse conoscere e praticare una religione straniera. La dura meditazione attiva e le trappole culturali associate ad essa, furono un pochino strane per la mia famiglia all'inizio. Mio padre ha sempre avuto una sua idea sul perché io accendessi l'incenso, per esempio, e non ha mai collegato questa cosa ad un pratica religiosa o legata al tentativo di creare un'atmosfera. Lui ha ancora delle difficoltà, però oggi ci ridiamo su.

L'America, essendo una società multiculturale, non presentava nessun particolare problema sociale per uno che volesse diventare un meditante buddsista. Inoltre vivere a Cambridge, Massachusets, era ideale per me. Perché visto che ci sono molte famose università in quell'area, è veramente un ambiente ricco culturalmente dove si può imparare facilmente tutto sulle differenti religioni, culture, tradizioni, anche solo camminando per strada. Molto simile a New York in questo senso. Inoltre quando cominciai a studiare il buddismo e la meditazione, era il post-Vietnam e molti insegnanti ed amici che incontrai nell'IMS o all'università, avevano avuto contatti diretti con la cultura buddista come soldati o volontari del peace corp. C'era un grande desiderio di condividere ed insegnare cosa avevano imparato sulla cultura e la filosofia asiatica, ed era possibile far questo all'università, o al college o in altri centri di insegnamento in tutto il paese.

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FN: In che misura è riuscito ad integrare l'insegnamento buddista e la pratica meditativa nella sua vita quotidiana?

JA: In questo sono stato molto influenzato dalla vita monastica e immagino, a certi livelli, dall'educazione religiosa che ho ricevuto da piccolo nella chiesa cattolica. Ma la vita monastica buddista mi ha dato la possibilità di mettere molta attenzione sulla pratica nel contesto della vita di tutti i giorni, in una maniera molto semplice ma anche molto efficace.

Per esempio all'inizio io avevo l'incarico, al monastero, di tagliare e accatastare la legna, qualcosa che poteva talvolta occupare l'intera giornata ed essere molto stancante. Poteva anche essere un grande piacere, quasi come uno sport; ma se dovevo usare la motosega, per esempio, era particolarmente stancante. Potevo arrivare ai canti della sera, delle volte, ancora vibrante e agitato dalla macchina o semplicemente esausto dal duro lavoro fisico. Non era la cosa più facile bilanciare questa cosa con momenti di pratica formale. Ma con il tempo, fu utile riflettere che la pratica era più che non un semplice stare seduti sul cuscino per la seduta serale o permettere alla gratitudine di riempire il cuore per il sostegno all'ambiente monastico. Io non sono sicuro di come avrei retto se avessi dovuto affrontare queste stesse situazioni da laico.

Nella vita laica, io come molte altre persone, abbiamo questa idea che la pratica sia stare seduti. Così quando devi lavorare sulla stanchezza fisica, per esempio, puoi ritrovarti a dire: "Praticherò domani, quando mi sentirò meglio o ci saranno condizioni migliori". Invece la pratica è giusta proprio in quel momento. Io penso che questo è ciò che crea questa dicotomia artificiale nella gente. Dato che la pratica nella vita laica richiede un certo grado di organizzazione e di impegno, è molto più facile mettere la pratica in un recinto - come i ritiri formali ad esempio - invece che provare ad usare la ricchezza della vita di tutti i giorni, solo guardando il respiro e inclinandosi al presente. Questo viene trascurato. Io credo che la vita monastica mi abbia veramente dato l'opportunità di acquisire alcune buone abitudini, come essere regolare, così come aiutandomi a vivere gli insegnamenti di base nelle situazioni di tutti i giorni, o come si dice nel "sutta" vivere gli insegnamenti di base sia da fermo che camminando, sia seduto che sdraiato.

Quando tornai a New York la prima volta dopo il mio primo ritiro monastico, capii anche che la vita monastica - disciplinata e dignitosa e basata su semplici e vere relazioni - era in completa contraddizione con il modo caotico nel quale vivevo in America e così tanti dei valori connessi con la mia vita lì. Iniziai a chiedermi se come volevo vivere e come volevo esercitarmi negli insegnamenti di Budda era qualcosa di incoerente con quel frenetico stile di vita. Così dopo dieci anni di pratica ed il breve periodo di vita monastica, a questo punto cominciai a pensare che avrebbe potuto essere utile approfondire la mia comprensione di alcuni principi di base, come usare i precetti, vivere semplicemente e così via. Questo anche fu il grande aiuto della formazione monastica, diciamo, per una pratica integrata, il fatto che nel monastero la tua vita è organizzata attorno ai principi base e tu hai una continua e crescente comprensione di come possono essere integrati nella tua vita ordinaria.

Io penso che quando tornai in Inghilterra e divenni un anagarika lì ed in Italia, questo davvero mi aiutò ad interiorizzare questa attitudine verso me stesso e la pratica. La vita monastica è un esercizio eccellente per imparare a sviluppare un grande senso di consapevolezza vero le attività della vita quotidiana. Il più delle volte tu stai semplicemente facendo compiti domestici, come mettere in ordine dopo il pasto o prendersi cura degli edifici e dei giardini nel contesto di riti e rituali giornalieri della religione, come i canti e la meditazione del mattino e della sera, prenderti cura del monaco anziano e così via. Inoltre, il silenzio e la solitudine che ho sperimentato a Santacittarama, perché eravamo solo in due per un lungo periodo e perché non parlavo italiano, ebbe una grande influenza su di me.

Ma io penso di essere sempre stato sensibile alla volontà di integrare la pratica nella mia vita - dal cercare di usare piccole cose come "la pratica di rispondere al telefono" che mi insegnò Larry Rosenberg quando lavoravo in un ufficio per un periodo, al ricordare i suggerimenti di tutti i nostri grandi insegnanti, ad usare il respiro come un'ancora in tutti i momenti, per coltivare un senso del "qui ed ora", al riflettere sull'importanza di sviluppare "sila", usando precetti morali.

Questa è ancora la mia pratica di base, guardare il respiro più volte possibile durante il giorno, tentando di bilanciare la tendenza che tutti abbiamo di fare troppo, di muoverci troppo, di usare la testa per vedere ossessivamente nel futuro della nostra vita o indietro nel passato. Io mantengo questa attitudine di essere nel presente il più possibile; e guardo alle situazioni di pratica intensiva, come i ritiri, come opportunità di sviluppare una più forte esperienza di comprensione di cosa significa essere continuamente rivolti al momento presente.

Quello che voglio dire insomma è che non penso sia possibile integrare la pratica di meditazione nelle nostre vite senza provare a praticare seriamente nelle situazioni di tutti i giorni e senza coltivare questa attitudine alla meditazione come parte delle normali attività quotidiane. Comunque questo è quello che io provo a fare.

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FN: A distanza di qualche anno la pratica meditativa ha influenzato il suo stile di vita?

JA: Assolutamente sì. Dopo circa vent'anni di pratica guardo alla meditazione come la bussola che ha guidato molte delle importanti decisioni della mia vita e che modella il mio stile di vita oggi. Il buddismo è anche stato, senza dubbio, un elemento fondamentale nella mia crescita personale ed uno strumento per riconoscere e sviluppare la mia vita interiore. Ed inoltre la vita monastica ha avuto l'impatto maggiore. Inizialmente, è stata una decisione importante andare a vivere con il Sangha, e ha influenzato il corso della mia vita. Io mi trovo in Europa grazie a questa scelta. Mi ha anche aiutato ad ordinare altre priorità della mia vita, a dedicare me stesso alla pratica del Dhamma ed ha lasciato che guidasse e filtrasse il modo nel quale io vivo la vita. La vita monastica mi ha aiutato a capire che c'erano modi diversi di vivere; mi ha dato la possibilità di reinventare me stesso, di lasciare l'America e fare esperienza fuori dalla cultura americana. La pratica del Dhamma mi ha certamente aiutato a semplificare la vita e ad apprezzare di più le cose più essenziali.

Io ricordo un aspetto della vita monastica che mi ha particolarmente aiutato nella vita laica. Inizialmente la vita monastica era così nuova ed io ero trasportato dall'entusiasmo di essere con dei maestri, compagni spirituali tanto saggi e buoni. Come ho detto prima, la routine a volte ti spinge avanti, ti aiuta a rimanere in pista nei momenti di dubbio o di incertezza. C'è l'energia della vita comunitaria e la volontà di fare la cosa giusta che ti aiuti ad andare avanti. Ma con il passar del tempo, specialmente quando venni in Italia, mi trovai a combattere contro la sensazione che in fondo non stavo facendo niente di speciale. Era come se la vita mi stesse passando accanto, ed io stavo là nascosto nella solitudine e nell'austerità del monastero, chiedendomi se stavo facendo qualcosa che avesse un senso o fosse interessante.

Dico che questa cosa è stata utile per me, un punto di forza anche nella vita laica, perché c'è la tendenza a pensare: "La vita dovrebbe essere più interessante ed io dovrei fare qualcosa di diverso e sentirmi più stimolato". Io ricordo la vita monastica come un ambiente di contenimento, dove bisogna trovare una soluzione a queste sensazioni e non ci sono molte distrazioni. Così, quando ho questo stesso tipo di dubbi nella vita laica, cerco di usare la stessa attitudine.

Certo è una sfida maggiore nella vita laica, perché tu puoi semplicemente uscire e fare di tutto per distrarti da ogni sensazione. Ma adesso io ho anche questo altro tipo di esperienza che qualche volta mi aiuta a bilanciare un po' le cose. E' qualcosa che io associo all'avere fede negli insegnamenti, un senso di perseveranza, e un desiderio di continuare a usare i cosiddetti "mezzi abili" degli insegnamenti di Budda, come sviluppare principi morali, per continuare a trasformare l'esercizio interiore in un comportamento esterno.

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FN: Uno degli obiettivi fondamentali della pratica della meditazione di consapevolezza è quello di operare una trasformazione nel comportamento morale del praticante: All'interno del suo percorso meditativo lei ritiene che ciò si è verificato?

JA: Sì. Almeno lo spero. Mentre un praticante continua a sviluppare una sempre maggiore consapevolezza, che è veramente caratteristica della pratica, appena questa matura nella persona, inevitabilmente si diventa più sensibili all'impatto del proprio comportamento su di sé e sul mondo circostante. E' come uno studio a lungo termine sulla tua vita interiore che continuamente porta la tua attenzione su ciò che ti motiva, su come rispondi alle cose, cosa che necessariamente trasforma comportamenti e condizioni acquisiti in una più integra crescita personale. Questo processo è, certo, influenzato da tutti i fattori, compresa la cultura ed il Khamma.

Io ho alcuni esempi personali di cui non mi è facile parlare, ma che credo potrebbe essere utile riportare. Per esempio, ricordo che dopo l'esperienza di vita monastica, avevo moltissime difficoltà a riscoprire un equilibrio tra un normale appetito sessuale e un'espressione di questi desideri. Ero come imbottigliato. Dunque il mio comportamento morale era stato trasformato, ma io dovevo trovare la giusta misura tra limite e repressione.

In America io sono cresciuto in un ambiente sociale nel quale le espressioni sessuali ed i rapporti tra i sessi erano vissuti piuttosto liberamente, malgrado le complicazioni e i problemi che sorgevano, e gli amici potevano parlare ed anche condividere esperienze, pur non avendo una relazione stabile. Io non sono sicuro se tutto questo fosse giusto o sbagliato; ma dopo la vita monastica avevo delle difficoltà ad accettare, dentro di me, le espressioni sessuali che erano legate esclusivamente al puro piacere, e quelle che potevano essere un'espressione di una unione morale e virtuosa tra due persone, basata sull'impegno, su una vita insieme, sul matrimonio, ecc. L'altro comportamento che rifiutavo è quello di inebriarsi.

Diciamo anche che sono diventato più conservatore in entrambe queste aree della mia vita e ho una sensazione che quello che era visto come libertà di espressione in precedenza, può essere stato dannoso al livello del cuore o aver creato sofferenza per me stesso e per gli altri. Queste sono in ogni caso questioni con le quali bisogna impegnarsi saggiamente se devono condurre alla comprensione, piuttosto che alla confusione e alla agitazione.

Penso comunque che un praticante sviluppi una responsabilità morale più rigorosa come conseguenza naturale dell'impegno con la pratica del Dhamma, perché inizia con questa promessa di coltivare e capire il comportamento che non è dannoso a sé stesso e agli altri. Se la tua condotta secondo questi principi si evolve, davvero non puoi far altro che trasferirli alla tua stessa vita, ma anche riflettere per lo meno su quanto il tuo comportamento influenzi il mondo nel quale vivi. In ogni modo è un esercizio continuo e spesso trovo utile stabilire momenti del giorno e della settimana per praticare metodi consapevoli ma semplici, e raffinare la mia sensibilità su comportamenti comuni, come imporsi di rimanere entro il limite di velocità o essere particolarmente attento nella fila al supermarket o alle poste, non usare un linguaggio volgare o offensivo ecc.

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FN: Come giudica il crescente interesse nei confronti della spiritualità delle religioni e filosofie orientali e in particolare del buddismo da parte di diversi settori della cultura occidentale: Per lei è un fenomeno passeggero o un qualcosa che si sta radicando gradualmente nella nostra cultura?

JA: Io penso che il crescente interesse per il buddismo in Occidente sia connesso col fatto che per tutto il secolo passato moltissime persone hanno rifiutato, o almeno posto in dubbio, i sistemi che influenzano come viviamo sia nel mondo che nella religione. Io penso che le persone vogliano essere libere e rispondere a se stesse. Ma la gente ha anche la sensazione che è meglio avere un modello con il quale lavorare, o un a bussola che indichi la strada.

Nel buddismo c'è un'enfasi maggiore sulla nostra abilità di sviluppare, da soli, un sentiero di scoperta personale, guidati lungo un processo di trasformazione interiore da un senso di benessere psicofisico che gradualmente sperimentiamo lungo la strada. Questo non è un approccio religioso tradizionale, che molti di noi hanno sperimentato nelle proprie tradizioni religiose, che inizia con il credere in qualche entità divina che giudica dall'esterno, e poi cerchiamo di adeguarci. Al contrario, i praticanti ed i buddisti seguono una serie di linee-guida che sono più o meno specifiche a seconda dei propri interessi, del proprio livello e della propria personalità, che sono state originate da un processo di scoperta personale del Budda e offerte per la nostra propria scoperta personale, aiutandoci a spazzar via quelle afflizioni che causano sofferenza nella nostra vita. In questo modo noi siamo veramente guidati dalle nostre stesse azioni e dalla capacità di sviluppare una sensibilità crescente verso il modo nel quale viviamo e sentiamo.

Questo crescente interesse nel trovare alternative sociali e spirituali è evidente se si guarda ai numerosi centri di meditazione ed attività associate che sono sorte in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, dal momento che sempre più gente cerca un certo tipo di sostegno e vuole saperne di più di questi insegnamenti. In Italia Santacittarama è un centro particolarmente promettente perché è un punto di riferimento stabile per coloro che vorrebbero conoscere di più il buddismo tradizionale Theravada.

Tuttavia, riguardo ad una eventuale espansione del buddismo in un futuro prossimo, non credo che in Italia ci sarà un vero boom. E per quanto ci sia un crescente interesse nel monastero e nell'aiutare i monaci a Santacittarama, io non vedo che ci sia una particolare forte motivazione per gli italiani nell'intraprendere la vita monastica come un modo per sviluppare la loro pratica. E' una cosa strana ma storicamente ci sono stati pochissimi monaci italiani nella tradizione Theravada. Personalmente non vedo qui le condizioni socioculturali necessarie per motivare la gente a lasciare tutto, ad abbandonare le proprie tradizioni, e dedicare completamente se stessi alla vita monastica. L'Italia comunque sta cambiando. Chissà cosa accadrà in futuro?

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FN: Qual è l'importanza e l'utilità della presenza di un monastero Buddista Theravada in Occidente?

JA: Io credo fermamente che Santacittarama dia alle persone la possibilità di approfondire la comprensione degli insegnamenti di Budda, vivendo l'esercizio spirituale in una dimensione monastica, che è sana e di saldi principi, come quella che ho vissuto in Inghilterra come un anagarika. A parte il fatto che si trova in un bel posto, lontano dalla città e circondato da una bella zona boscosa, la possibilità di stare là e di praticare in compagnia di monaci residenti e vivere nel contesto dell'antica tradizione della Foresta, è un esempio vivente di impegno con il Dhamma.

Il posto adesso è sufficientemente organizzato per accogliere un buon numero di persone, per periodi di tempo sia lunghi che brevi, per dar loro la possibilità di avvicinarsi agli insegnamenti del Budda, non solo intellettualmente, ma attraverso il diretto contatto con maestri qualificati, in un ambiente indirizzato alla formazione. Io penso che anche solo poter vedere come vivono i monaci le regole della loro formazione e cosi via, fornisce un concreto, tangibile esempio di cosa il Budda abbia insegnato. Io penso che sia veramente indispensabile. Per quello che mi riguarda, avere monasteri buddisti in Inghilterra mi ha dato la possibilità di fare qualcosa che io non avrei mai potuto fare se fossi dovuto andare in Asia, per esempio. Penso che sia fondamentale, se le persone devono sviluppare un sentiero naturale di pratica nei loro paesi, avere un ambiente tradizionale buddista, invece di doversi integrare con le difficoltà ambientali e culturali che si potrebbero incontrare andando in oriente. Personalmente sono molto grato per ciò che mi è stato consentito di fare nel passato e nel presente.

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FN: Lei si considera buddista?

JA: Io sono sempre un po' imbarazzato a definire me stesso in questo modo. Ma credo di esserlo. Un po' di anni fa stravo seduto con Ajahn Sumedho e alcuni altri monaci, ad Amaravati, e parlavo dello spirito della tradizione Nichi Ren in Italia e di come sembrasse fuorviante che la gente credesse che fossero buddisti. Tan Ajahn rise con una delle sue profonde risate, e mi prese in giro dicendo: "Oh John. Tu sei proprio un'integralista. Sei davvero un buddista tradizionale".

Su un piano convenzionale, è giusto che io dica che sono buddista, per definire meglio in certe situazione sociali come vivo e la scelta religiosa che ha guidato la mia vita. In questo senso, uso l'etichetta del buddista, sapendo che questo non spiega pienamente il significato e i valori che io associo all'essere buddista. Una delle cose che mi ha sempre messo un po' a disagio è la meccanica associazione di idee che compie la gente: spesso infatti sono stato marchiato come "alternativo" o anche "New Age". Mi imbarazza perché io effettivamente sono piuttosto conservatore.

Nel mio cuore mi considero un buddista perché provo a vivere gli insegnamenti del Budda in tutto quello che faccio e c'è sempre un punto di riferimento per me nella mia giornata e nella mia vita. Mi sento particolarmente vicino al buddismo Theravada per la sua semplicità e per la sua autenticità; e perché ho trovato una vera amicizia spirituale nella gente che ho incontrato nei centri monastici nei quali ho praticato - monaci e laici - che hanno contribuito a che la mia fede negli insegnamenti maturasse.

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FN: Come considera il Buddismo: una religione, una filosofia, uno stile di vita?

JA: Non è facile per me rispondere a questa domanda. Io non credo che possiamo considerare il buddismo come una religione nel senso convenzionale del termine, in parte perché non è basato su un credo in qualcosa di trascendentale che è tipico delle religioni monoteistiche. Comunque possiamo anche trovare alcune similitudini con le religioni tradizionali: le storie mitologiche che riguardano il Budda e la sua vita, l'impegno morale ed etico, regole e linee-guida per la vita, e così via. In questo senso gli insegnamenti del Budda si rifanno alla religione come viene comunemente definita.

Tuttavia sembrerebbe esserci più attenzione nel fornire gli strumenti necessari per lo sviluppo di una esperienza di vita spirituale, e meno attenzione su quello che potrebbe essere considerato l'aspetto metafisico della religione. Quindi penso che possiamo perderci nelle nostre passate esperienze di altre tradizioni religiose quando pensiamo che il buddismo sia una religione, una filosofia o una stile di vita. Penso che quello che possiamo dire è che, attraverso la pratica degli insegnamenti del Budda, noi siamo capaci di sviluppare un apprezzamento più profondo di certi valori che ci permettono di avvicinarci a quello che il Budda stava indicando, che ci da la possibilità di capire più chiaramente cos'è la nostra esperienza esistenziale. Questa non è una cosa razionale, ma un processo intuitivo ed una rivelazione graduale attraverso le nostre vite, le nostre relazioni e le nostre scelte.

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