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EUTANASIA:

considerazioni bioetiche e scientifiche

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Lo scopo della medicina è

"il liberare completamente gli ammalati dalle malattie,

l'attutire l'intensità delle sofferenze e

il non porre mano a coloro che sono ormai vinti dal male,

ben sapendo che la medicina non può porre rimedio a tutto"

 

(Ippocrate di Chio, V sec. a.C., matematico greco)

 

 

Un tempo morire era, generalmente, un evento rapido: un'influenza, una gastroenterite, una polmonite bastavano a stroncare in pochi giorni le resistenze di bambini e vecchi, senza risparmiare spesso anche i soggetti nella pienezza delle risorse della maturità.

Oggi altre forme morbose, come ad esempio il cancro e le malattie ischemiche del cuore o del cervello, hanno trasformato spesso il morire in un processo lento, che espone i pazienti a lunghe sofferenze e alla necessità di un'assistenza gravosa.

Questa situazione ha posto la famiglia e la società di fronte all'esigenza di un nuovo atteggiamento nei confronti del morente. Tuttavia, la paura, l'ignoranza e la scarsa famigliarità verso i bisogni della persona giunta al termine della propria esistenza, inducono la maggioranza delle famiglie ad evitare il problema, trasferendolo quasi completamente alle istituzioni: ospedali, lungodegenze, ospizi, infermieri domiciliari.

E' vero, le famiglie molto numerose sono oggi in gran parte scomparse, le persone sono quasi sempre impegnate in un lavoro, le abitazioni sono piccole, la tecnologia medica alimenta la speranza e la convinzione che il morente possa essere assistito in ospedale meglio che a casa. Tuttavia, ciò non può cambiare le esigenze psico-emotive del morente, né tanto meno può sottrarre i famigliari (e il medico di famiglia) ad alcuni profondi doveri di solidarietà che non possono essere demandati ad alcun altro, persona o istituzione che sia.

 

R.N. Butler ha scritto, a questo proposito, queste parole:

 

"Noi non facciamo come alcune tribù primitive,

non uccidiamo i nostri vecchi né eliminiamo gli infermi.

Noi li seppelliamo vivi nelle istituzioni.

Per salvare la faccia, chiamiamo queste istituzioni case,

ma non è che una parodia di quello che la parola casa significa...

I ricoveri non sono altro che depositi prefunerari

dove le persone conducono la loro esistenza nell'isolamento e nella più cruda noia

con nessuna speranza tranne che la propria morte".

 

Al di là di qualsivoglia perfezionamento delle istituzioni, non credo ci siano dubbi che soltanto le pareti domestiche, cariche di ricordi e di affetti, possano costituire l'ambiente più adatto per confortare le ultime ore di un morente, per evitargli l'esperienza più dolorosa: la solitudine. Vi sono ovviamente circostanze che non consentono l'assistenza domiciliare, ma non dovrebbe esistere alcuna circostanza che impedisca la continua presenza di persone care attorno al letto del morente.

 

A questo punto, è opportuno ricordare che l'immagine che comunemente si ha dell'agonia è impropria, certamente esagerata.

Essa riflette più il nostro atteggiamento e le nostre paure nei confronti della morte che non la reale esperienza del morente. Sulla base di molte osservazioni, si può dire che in molti casi il trapasso comporta un'esperienza di pace, di tranquillità, di calda serenità.

La possibilità di dipartita senza drammi terminali non deve però far dimenticare che il morire comporta spesso una sequenza di mutamenti psicologici che possono mettere a dura prova sia il morente che i famigliari e il medico che lo assistono.

Molto schematicamente, possiamo individuare quattro momenti che caratterizzano l'ultima fase della vita di un paziente:

  1. dapprima c'è il rifiuto ad accettare l'inevitabile;

  2. poi subentra la collera, di solito rivolta verso le persone che più si prodigano nell'assistenza;

  3. in seguito vi è un periodo di mercanteggiamento con toni religiosi e mistici nel quale, generalmente attraverso la preghiera, il morente chiede a Dio ancora un po' di tempo; quando finisce questo periodo, essenzialmente di preghiera, una profonda depressione può invadere il morente, che piange non solo e non tanto per la sua perduta salute quanto soprattutto la privazione che si prospetta davanti a lui delle cose e delle persone che più ha amato;

  4. infine, subentra l'ultima fase, quella dell'accettazione della morte, tanto più rapida e profonda quanto maggiore è la maturità del paziente; non si tratta di un atteggiamento di sconfitta e di rinuncia, bensì di un intervallo in cui il morente, non più scosso dal timore, entra in un'atmosfera di pacificazione in cui ricompone il proprio animo nella dignità della quiete finale.

Attraverso queste fasi deve impegnarsi lo sforzo di quanti (famigliari, medici, infermieri) sono preposti all'assistenza della persona giunta al termine della vita. Tale sforzo deve essere rivolto alla salvaguardia della dignità umana di chi sta morendo, dignità che troppo spesso è calpestata dall'ignoranza e dall'indifferenza.

Bisogna continuare ad intrattenere con il morente rapporti d'amore, di stima, di fiducia e provvedere a tutte le sue esigenze con affettuosa sollecitudine, cosa che purtroppo non accade quasi mai negli ospedali, nelle lungodegenze e negli ospizi: in questi luoghi troppo spesso l'inizio della fine è contrassegnato dalla cessazione di ogni interesse per il morente, che viene abbandonato moralmente (e talvolta anche materialmente) a se stesso.

E' un obbligo morale quello di alleviare (o tentare di alleviare) le sofferenze del morente facendo ricorso a tutte le risorse della medicina, ma non fino al punto di privarlo della sua umanità, perché molto spesso il morente preferisce mantenere la propria lucidità e questo desiderio va rispettato. In secondo luogo, il paziente dovrebbe essere sempre fatto partecipe delle decisioni che lo riguardano (compatibilmente con il suo stato e le sue capacità di decisione).

 

 

Bisogna informare l'individuo della morte che si avvicina?

Questo è uno dei problemi più ardui da risolvere.

Tutti sappiamo che si deve morire, ma non si ama parlare della morte, come se non parlandone si potesse esorcizzarla, facendo finta che non esiste, o come riguardasse solo gli altri, oppure se ne parla facendo tutti gli scongiuri possibili.

Ai nostri bambini raccontiamo favole che quasi sempre finiscono con la fatidica frase "... e vissero felici e contenti".

Chi di voi che state leggendo queste righe ha mai raccontato una favola che finisca con frasi del tipo "... e vissero felici e contenti fino a quando si ammalarono ed andarono incontro alla morte attraverso grandi sofferenze"? Probabilmente nessuno (o forse pochissime persone) se la sente di togliere serenità ai propri pargoli parlando loro francamente dell'inevitabile destino degli esseri umani, della inevitabile morte, preceduta talora da lunghi periodi di dolore psicologico e fisico. Manca, nella nostra società, una vera cultura della morte.

E così, anche quando si deve informare un paziente che è prossimo alla dipartita, riaffiorano tutti insieme i tabù legati al pensiero della morte e si tende, almeno nella cultura italiana, a scegliere la strada più facile, quella di nascondere il peggio, di non togliere ogni speranza.

Dovrebbe invece costituire un fondamentale dovere morale del medico quello di dire la verità, ovviamente cercando di attenuare le cattive notizie con un adeguato supporto emotivo e con la rassicurazione che i sintomi possono essere alleviati.

Tuttavia, motivi psicologici, culturali, etici, religiosi e anche di ordine pratico possono di volta in volta suggerire soluzioni diverse.

 

 

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Il desiderio sempre più del benessere e del piacere rende inconcepibile l'idea che qualcuno possa soffrire aspettando la morte. Si è portati a ricorrere quindi all'eutanasia, che consiste nel porre fine dolcemente alla vita propria o altrui. Tale desiderio di morire o di far morire nasce da una società in cui l'obiettivo primario è quello di produrre, di essere efficienti. Tale obiettivo non può essere raggiunto quando non si può vivere e senza dolore e senza sofferenza. Nasce allora la voglia di farla finita, di arrendersi, di evitare una vita dolorosa, affidandosi alle mani di una dolce morte.

 

Per eutanasia si deve intendere una "uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta".

Per accanimento terapeutico si intende l'utilizzo di mezzi tecnici che ritardano solo di fatto la morte, prolungando il dolore e la sofferenza morale e conducendo il paziente sulla via di una lenta ed inutile agonia. È lecito rinunciare a tali trattamenti quando non aiutano l'ammalato a superare la malattia o a migliorare la sua condizione; in questo caso non si può parlare di eutanasia perché non c'è una volontà arbitraria di porre fine ad una vita umana, ma soltanto un'accettazione della condizione umana di fronte la morte.

Altro rilievo acquistano le cosiddette cure palliative, che consistono nell'utilizzo di sedativi e analgesici allo scopo di alleviare il dolore del malato con il rischio di abbreviargli la vita: tali cure non hanno nulla a che fare con l'eutanasia, perché in questo caso l'intenzione non è di portare l'ammalato alla morte, bensì di rendergli gli ultimi giorni meno dolorosi. Cambia completamente lo scopo della terapia, fondato non più sulla malattia, ma sul dolore che il medico cerca in tutti i modi di lenire.  

 

A prescindere dagli aspetti legali, il problema dell'eutanasia può essere considerato a tre livelli: quello del paziente, quello del medico e quello dei famigliari del paziente.

 

L'istinto di sopravvivenza, ad una certa età della vita e in determinate circostanze, può essere dominato dalla ragione. Di fronte a una malattia inguaribile all'ultimo stadio, quando le oggettive sofferenze possono essere aggravate da altre considerazioni (ad esempio, il desiderio di evitare una catastrofe economica famigliare in conseguenza di un'agonia inutilmente prolungata) non raramente lo stesso paziente esprime il desiderio di porre fine ad ogni dolore e preoccupazione: egli sente che la propria vita non ha più valore, ha perso irrimediabilmente di qualità e quindi non la considera più degna di essere vissuta. Queste qualità sono radicate nella società, nel senso che sono misurate in base all'opinione comune di "vita normale, ben riuscita". Quanto più la società esalta il concetto di "normalità" e il potenziamento ed il riconoscimento della salute psico-fisica, tanto più i malati si sentono diversi, emarginati, privi di dignità e così preferiscono chiedere la "dolce morte".

Ma se si cede alla loro richiesta e si dà loro la morte, si tratta veramente di un atto caritatevole teso ad alleviare le sofferenze del malato oppure si tratta di un atto voluto quasi premeditatamente da una società che vuole liberarsi dai "diversi" sofferenti ed irrecuperabili?

 

Il medico, di fronte alla sofferenza senza speranza di un paziente, non può evitare il drammatico interrogativo se la sua opera è impegnata realmente a prolungare la vita o non è piuttosto rivolta a prolungare l'agonia con un inutile accanimento terapeutico. Tuttavia, va considerato che non è eutanasia, ma un vero e proprio dovere per il medico, il sospendere delle cure quando queste si configurino solo come accanimento terapeutico, così come non è eutanasia il sospendere le cure per diretta e consapevole scelta del paziente. Inoltre, non è eutanasia, bensì omicidio, la sospensione di cure necessarie alla sopravvivenza contro la volontà del paziente oppure l'atto di dare la morte ad un paziente terminale contro la sua volontà.

Dato che la morte non è una cura e nemmeno una guarigione dalle sofferenze, qualora si arrivasse anche in Italia ad ammettere la liceità dell'omicidio del consenziente, questo dovrebbe essere affidato non ad ospedali o cliniche ma ad apposite istituzioni, diverse dai luoghi di cura, e ad apposite persone che risulterebbe difficile chiamare "medici".

Tra l'altro, le richieste di eutanasia arrivano di solito da pazienti affetti da dolori molto intensi non adeguatamente trattati e che quindi esigono maggiore assistenza; gli stessi pazienti temono inoltre di essere in seguito del tutto abbandonati alle loro sofferenze. Va dunque considerato attentamente il fatto che la maggior parte dei pazienti in fase terminale che ha richiesto l'eutanasia cambia parere dopo che le sofferenze sono state alleviate, sia con trattamenti antidolorifici idonei sia con cure contro la depressione.

 

L'impatto della fase terminale di una malattia inguaribile sulla famiglia è devastante, ma il più delle volte l'atteggiamento nei confronti del paziente morente esprime non più i suoi oggettivi interessi, bensì i turbamenti psico-emotivi, il dolore, i sensi di colpa e la stanchezza dei famigliari.

 

In concreto, nella maggioranza dei casi nulla viene deciso ed il paziente consuma fino all'ultima stilla la sofferenza della sua morte.

 

 

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Questioni legali

In Italia non esiste una disciplina specifica sull'eutanasia. I princìpi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti hanno spinto verso un'interpretazione giuridica restrittiva che ha di fatto equiparato l'eutanasia all'omicidio, o all'omicidio del consenziente (reato per il quale è prevista una pena minore) o all'istigazione o all'aiuto al suicidio; in alcuni casi è stato punito con pene severe anche il semplice rifiuto di fornire cure forse essenziali per il prolungamento della vita.

In altri paesi come l'Olanda, dove è da tempo possibile optare per l'eutanasia passiva, il dibattito sull'ammissibilità dell'eutanasia attiva è sempre più vivace. Proprio in Olanda la Royal Dutch Medical Association, l'associazione dei medici olandesi, ha rivisto nel 1995 la normativa che regola la pratica medica, sottolineando l'importanza della responsabilizzazione del paziente, che generalmente pone fine da sé alla sua vita assumendo in dose eccessiva i farmaci prescritti dal medico ("suicidio assistito"), ma prevedendo anche che il medico stesso possa prestare assistenza (e garantendogli, se ha seguito le procedure previste dall'Associazione, la tutela sul piano legale).

Del tutto recentemente (novembre 2000) la Camera dei deputati olandese ha approvato a larga maggioranza (104 voti a favore e 40 contrari) la nuova legge che autorizza e regola ufficialmente l'eutanasia attiva.

Un altro stato dove è stata recentemente introdotta un'innovativa legislazione che consente il suicidio assistito da un medico è l'Australia.

 

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Personalmente, ritengo che l'eutanasia, come il suicidio, sia inaccettabile perché va contro l'inclinazione naturale dell'uomo verso la vita e perché costituisce una mancanza di amore verso se stessi e verso gli altri.

L'uomo può non accettare il dolore fisico, ma dovrebbe essere in grado di accettare la sofferenza, intesa come condizione indispensabile per avviare e sviluppare la vera cultura della vita.

Essere partecipi al suicidio di un'altra persona, aiutare a realizzarlo, significa accettare un'ingiustizia che non può essere giustificata.

 

La vera compassione consiste nell'essere partecipi della sofferenza altrui

e nell'essere vicino al sofferente sino alla sua morte,

non nel procurargli la morte per evitare il dolore.

 

 

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