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IL RICOVERO OSPEDALIERO:

PROBLEMI PSICOLOGICI E PRATICI

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"Gli apprendisti stregoni prolungano la vita. Poi chiedono: dei vecchi che farne? Non producono, non partecipano quasi più al gioco dei consumi, ci ingombrano, rovinano il pianeta. Pertanto si vede una vecchiaia espulsa dalla società e mal sopportata. Bussa alla porta dei pubblici ospizi. Incrostata di solitudine aspetta la fine in condizioni intollerabili"

(La Stampa, 1973)

 

Il semplice fatto di venire ricoverati in ospedale, anche per pochi giorni, rappresenta un’eventualità che chiunque ovviamente cerca di evitare. Oltre a disturbare il normale ritmo di vita e di lavoro, il ricovero ospedaliero mette in contatto con una realtà molto sgradevole che ogni persona sana normalmente cerca di rimuovere dalla propria coscienza ma che improvvisamente, quando subentra una malattia, viene riproposta in tutta la sua complessità.

È ovvio anche che c’è parecchia differenza tra un ricovero di pochi giorni per esami di controllo e il ricovero per un’operazione chirurgica oppure tra un’ospedalizzazione di breve durata per una malattia comunque guaribile e un ricovero per parecchie settimane (o mesi o anni) per una malattia che lascerà strascichi.

Ma qualunque ne sia la motivazione, il ricovero ospedaliero è sempre un trauma psicologico severo, talvolta grave, e non solo per il paziente ma anche per tutta la sua famiglia. Tutta la struttura interna della famiglia deve adattarsi prima all’evento patologico imprevisto, poi al periodo di ospedalizzazione e infine alla convalescenza a casa: ogni volta i ruoli stabiliti devono confrontarsi con la nuova realtà e subire un processo di modifica non facile.

 

Purtroppo l’organizzazione sanitaria nel suo complesso, ma in modo particolare l’organizzazione delle strutture ospedaliere, non è preparata ad affrontare le implicazioni psicologiche degli eventi connessi alla malattia. Infatti, la critica di maggior rilievo mossa agli ospedali in generale è quella di privare il paziente e la sua famiglia di alcuni diritti fondamentali, primo fra tutti l’assistenza psicologica necessaria ad affrontare la difficile esperienza costituita dal ricovero.

In altre parole, il maggior numero di lamentele circa l’ambiente ospedaliero si riferisce all’assenza di strutture di comunicazione, di assistenza "umana", di dialogo, e non a mancanze di carattere tecnico.

 

Il ricoverato raramente sa qualcosa di preciso circa il decorso della sua malattia, sugli esami da svolgere, sulla data di un’operazione, sulla data della dimissione.

 

 

Classicamente i medici, tranne che per assolvere alle loro funzioni strettamente professionali, passano vicino al malato senza fermarsi; i giorni passano senza che apparentemente succeda nulla, poi improvvisamente appare il primario con il suo codazzo di assistenti e tutti si occupano a fondo del paziente discutendo tra loro in termini incomprensibili e mettendolo inevitabilmente in un acuto stato di soggezione e ansia. Il paziente ricoverato quindi difficilmente "osa" chiedere notizie approfondite sulla propria salute e comunque il tentativo di sapere qualcosa di più viene spesso respinto dai medici in visita con accenni vaghi ed affrettati.

Poi arriva l’infermiera con i farmaci o le medicazioni o i cateteri che il paziente deve subire senza battere ciglio. Poi arriva qualcun altro del personale che si mette a sbraitare perché il paziente è passato su un corridoio bagnato per recarsi alla toilette. Seguono periodi più o meno lunghi durante i quali il ricoverato crede di essere stato dimenticato ma poi, come per incanto, improvvisamente succede qualcosa di sgradevole: esami radiografici, endoscopie, elettrocardiogrammi ecc.

 

Se in questo periodo il paziente ha avuto la fortuna di trovare medici e paramedici simpatici e volenterosi e compagni di corsia disposti alla conversazione e in accettabili condizioni di salute, allora egli sarà probabilmente in grado di superare senza grandi squilibri la prova cui viene sottoposto.

Ma purtroppo molto spesso il ricoverato, ed in modo particolare l’anziano ricoverato in lungodegenza, si trova in una corsia in cui i vicini sono seriamente ammalati e magari muoiono sotto i suoi occhi, i medici sono troppo tecnici e troppo poco "umani", le infermiere sono troppo occupate per dare retta a tutti gli ammalati, il personale in generale è scorbutico.

 

Tra l’altro, le procedure di accettazione e il trattamento subìto durante il periodo di ricovero tendono a spersonalizzare il paziente e a fargli comprendere che in ospedale egli rappresenta un caso come un altro, un numero piuttosto che un individuo.

 

Se poi andassimo più a fondo nell’analisi delle motivazioni che stanno dietro ad un ricovero ospedaliero, troveremmo aspetti sottili (e forse anche un po’ inquietanti) relativi alle vere ragioni che guidano l’operato delle famiglie e dell’ospedale.

 

Situazioni di questo tipo sottopongono il degente ad un ulteriore stress psichico che si aggiunge a quello causato dalla malattia e che renderà più difficile il recupero, quando addirittura non arriverà a provocare un vero e proprio peggioramento delle condizioni non solo psichiche ma anche fisiche.

Per quanto riguarda le persone in età avanzata, i problemi psicologici scatenati dal ricovero in ospedale, e a maggior ragione in strutture per lungodegenza (dove gli anziani si sentono, più che ricoverati, sepolti vivi), sono ancora più drammatici di quanto succeda nelle persone giovani o adulte. In questi casi il ricovero (che non raramente è accolto dalla famiglia come una liberazione lungamente attesa) per il paziente non è altro che un aggravamento del già penoso stato di isolamento e di solitudine che già caratterizza "normalmente" l’età avanzata.

Succede dunque spesso che il vecchio ospedalizzato metta sul proprio comodino una fotografia di quando era giovane, bello e forte, indipendente e produttivo, come a dire "se non mi rispettate per quello che sono adesso, almeno rispettatemi per quello che ero in gioventù".

Altrettanto spesso accade che l’anziano ricoverato rifiuti di mangiare o comunque si rifiuti di vivere o addirittura chieda anche accoratamente di essere ucciso perché si sente ancora di più emarginato, più ghettizzato, più inutile, più di peso di quanto già non si sentisse quando ancora non era ricoverato, e invoca dunque la morte come liberazione per se stesso e liberazione definitiva per la propria famiglia.

 

Dobbiamo dunque sempre tenere bene a mente che nella gestione dei vecchi ricoverati e delle loro malattie croniche il problema centrale è costituito non tanto dalle cure farmacologiche o chirurgiche (che ovviamente sono comunque di grande importanza) quanto dalla messa in opera di tutte le precauzioni e i provvedimenti psicologici idonei a mantenere la qualità della vita al livello più alto possibile, compatibilmente con l’oggettivo stato del paziente.

 

Pur con tutti i problemi che comporta la malattia in tarda età, la lungodegenza dovrebbe essere qualcosa di molto diverso da un luogo dove attendere stancamente l’ora della fine.

Per ottenere ciò, è estremamente importante che tutto il personale medico e paramedico che opera nei reparti geriatrici metta in primo piano il contatto umano: in questo settore c’è la assoluta necessità di avere operatori che dimostrino di avere a cuore i pazienti anziani (e, sotto l’aspetto del dialogo, anche i famigliari), di occuparsi e preoccuparsi non solo della situazione clinica del vecchio ricoverato ma anche e soprattutto delle sue condizioni psicologiche.

Insomma, è necessario che tutto lo staff di persone che orbitano intorno all’anziano (compreso il personale che viene in contatto con il paziente anche soltanto quando si dispensa il vitto o quando si effettuano pulizie di reparto) sappia dialogare e prestare attenzione alle sue esigenze di carattere psico-emotivo, al suo desiderio di sentirsi non un relitto della società, non un peso, non un numero, non uno che da fastidio quando chiede la padella o il pappagallo o quando suona molte volte al giorno il campanello per chiamare gli infermieri, non uno senza rispetto altrui solo perché non riesce a trattenere i propri bisogni fisiologici e passa sul corridoio bagnato, bensì un essere umano ancora rispettato, ancora inserito nel contesto di un tessuto sociale, ancora amato.

 

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