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Mistretta per Cagliari

L'Università, Cagliari e la Sardegna*

Se ripercorriamo la situazione sarda negli anni dal dopoguerra ad oggi, non possiamo che prendere atto di un profondo cambiamento sociale e culturale tutto sommato positivo. E ciò nonostante la Sardegna abbia vissuto la trasformazione dell'intero sistema sociale ed economico, quasi saltando una vera fase industriale. Il passaggio dalla fase del primario a quella del terziario (sia di mercato che relativa ai servizi pubblici) è indubbiamente ancora in via di effettiva maturazione. E già ha richiesto non pochi costi sociali, ma non drammatici anche per merito del tanto vituperato intervento pubblico. Infatti, nonostante il perdurare di un ritardo rispetto alle regioni del centro e del nord italiano, si sono garantiti da un lato un certo tipo e livello di occupazione, da un altro lato un miglioramento sostanziale e una significativa diffusione dell'istruzione e della cultura, peraltro tuttora in misura non soddisfacente. Questo ha avvantaggiato in modo particolare le parti più sacrificate della Sardegna, specie le zone interne, ma anche le città, seppure queste, Cagliari e Sassari in particolare, in modo del tutto naturale, avendo già di per sé connotazione terziaria.

Oggi, considerando luci e ombre dell'attuale situazione, possiamo affermare che la Sardegna e Cagliari, che della regione riveste un ruolo guida, possiedono le condizioni di base per affrontare il terzo millennio in una prospettiva di promettente sviluppo. Le non indifferenti potenzialità di cui la Sardegna dispone, insieme al ricupero della parte migliore della tradizione e della cultura sarda, devono però essere utilizzate in modo tale da contrassegnare un deciso cambiamento evolutivo. In questa prospettiva i sardi, specie coloro che hanno responsabilità collettive, devono avere più capacità di capire, di assecondare e, laddove necessario, di indirizzare e governare i grandi processi di cambiamento imposti dalla "globalizzazione", in un certo senso già avvertibili nell'isola.

In questo quadro la formazione in generale e la formazione universitaria in modo particolare, che pure hanno avuto una funzione importante nei traguardi raggiunti, possono e debbono svolgere un ruolo ancor più incisivo, strategicamente determinante, nella convinzione che lo sviluppo del sistema produttivo di un territorio è funzione del suo sviluppo culturale e quindi della quantità e della qualità dell'investimento nella formazione delle sue risorse umane.

Ci limitiamo qui a individuare ed esplicitare alcuni segnali, più o meno forti, che possano aiutarci a capire le realtà emergenti e possano consentirci di impostare o semplicemente di suggerire politiche innovative.

Il primo segnale è costituito dall'inedito proporsi della questione femminile che, a grandi linee, può essere spiegato dal fatto che le giovani donne, in numero crescente, liberate dal servizio in famiglia, hanno finalmente scoperto la possibilità di studiare, di cambiare luogo di studio e di lavoro, di emanciparsi insomma, per raggiungere obiettivi radicalmente diversi da quelli che la tradizione aveva loro assegnato. Di questo aspetto dà conto il successo registrato dalle donne negli studi universitari. Gli ultimi dati mettono in evidenza il 63% di laureate rispetto al totale; dato che tendenzialmente lascia presupporre un aumento proporzionale, con possibilità che negli impieghi occupazionali si verifichi una consistente sostituzione della componente maschile nelle funzioni del terziario più qualificato. Il fenomeno, forse in progressione più lenta ma altrettanto determinata, riguarderà il mondo dell'artigianato di qualità e delle imprese.

Per contro, troviamo in Sardegna un modello di sviluppo non in grado di cogliere le opportunità delle grandi risorse create dai processi formativi dedicati ai giovani e soprattutto dalle energie che si sprigionano dall'emancipazione delle donne. Questo perché si tratta di un modello di sviluppo purtroppo tuttora eccessivamente ancorato a produzioni tradizionali di tipo maturo, anziché orientato a una diversa qualità della produzione e ad un diverso modo di inserirsi nei mercati nazionali ed internazionali. Il che non esclude il rinverdimento delle produzioni tradizionali qualora basate sull'apporto delle tecnologie d'avanguardia in tema di organizzazione, marketing, qualità.

Si tratta di un discorso indubbiamente alquanto complesso: non solo perché si colloca nel quadro delle politiche e degli equilibri europei, ma soprattutto perché incide sulle problematiche sociali più spinose (costo del lavoro, politica del credito e, in generale, scelte prioritarie dell'intervento pubblico). Un discorso tuttavia da affrontare con spirito innovativo, a livello imprenditoriale e pubblico.

Il secondo segnale importante si individua nella contrazione delle nascite, con tutti i problemi che ciò comporterà in una regione di per sé a bassissima densità di popolazione. L'invecchiamento della popolazione costituirà sempre più un problema rilevante. Forse una delle risposte sarà rappresentata dal modo con il quale si governerà in Sardegna l'immigrazione, sia proveniente dall'Africa, sia dal Balcani o dall'Oriente. Immigrazione importantissima, perché quasi totalmente costituita da persone giovani, che potranno essere inserite nel tessuto socio-produttivo, ancorché con passaggi obbligati dipendenti dal disagio economico e quindi dall'impossibilità attuale di accedere ad una formazione di qualità universitaria. Una situazione, dunque, che nell'arco dei prossimi 10/15 anni potrà essere superata in modo da poter disporre di risorse umane integrate socialmente, non più dedite esclusivamente ai servizi più umili (come oggi succede), ma da impiegare nella gamma di servizi e di attività di cui la Sardegna avrà necessità, anche quando la sua popolazione diminuirà per motivi demografici e di senilità.

Il terzo segnale si individua nelle modifiche, già in atto e sempre più necessarie, del mercato del lavoro. L'espulsione di forza lavoro dai settori primario e secondario e la loro incapacità di fornire alternative, non è assolutamente bilanciabile con l'assorbimento nel terziario tradizionale e nella pubblica amministrazione (nella quale le politiche di riduzione del deficit pubblico si traducono nella contrazione del posti). Occorre allora percorrere nuove strade. Per esempio, se il terziario turistico in Sardegna diventasse - come è sperabile - un terziario di assoluta innovazione e qualità, senza remore e senza speculazioni di cemento (ma senza remore vuol dire anche senza infingimenti sulla mediazione tra la tutela del paesaggio e l'attività imprenditoriale), inquadrato in una politica complessiva di utilizzo del territorio che comprendesse la politica del parchi e la politica culturale delle risorse ambientali di cui il territorio è particolarmente ricco (basti pensare al parco geo-minerario che è stato riconosciuto dall'Unesco come patrimonio mondiale), si potrà convenire che nei prossimi dieci anni questa realtà, sviluppandosi opportunamente, possa dare non indifferenti possibilità di lavoro in termini diretti e indiretti. Non potrà altresì non costituire ulteriore, potente incentivo anche per la ricerca scientifica applicata.

Tutto ciò, unicamente ad altri interventi di identificazione e soddisfacimento del nuovi bisogni su cui costruire nuova occupazione, richiede l'accettazione della sfida della "flessibilità". Per questo, scontato che negli anni 2000 potremo sempre meno fare affidamento su un'occupazione stabile dal 30 al 65 anni, dobbiamo agire, da un lato, in maniera da favorire la crescita di nuove forme di rapporti professionali (lavoratori autonomi, interinali, part time) e, dall'altro, operando in modo che l'impresa e la pubblica amministrazione, anche sotto il profilo culturale e organizzativo, siano aperte a garantire, appunto, la flessibilità. In altri termini, a fronte della disponibilità dei lavoratori e del sindacati a concedere più flessibilità al mercato del lavoro, deve corrispondere l'accettazione delle imprese e della pubblica amministrazione del fatto che si possa entrare e uscire dalle organizzazioni in tutte le età della vita lavorativa (dai 18 ai 65 anni e oltre), sfruttando quindi tutte le capacità e professionalità che ogni età prospetta. Se non c'è questo tipo di flessibilità e di mobilità del lavoro, specialmente in Sardegna nel quadro attuale si determinerebbe un rischio altissimo di disoccupazione senza ritorno per gli adulti, in particolare per la fascia d'età intorno al 45 anni. La Sardegna deve stare molto attenta a questo discorso: da un lato non si può più pretendere l'occupazione stabile del "posto fisso", dall'altro lato non si può neanche credere di poter trasformare il mercato del lavoro sardo in un mercato di tipo americano, dove l'occupazione è assolutamente flessibile, aperta a qualsiasi possibilità. Tuttavia è certo che il mercato sardo debba essere potenziato e allargato nella logica dell'apertura europea (prima di tutto) e internazionale, del ricambio e dell'integrazione. Verificandosi tali condizioni è ragionevole prevedere che l'occupazione potrà aumentare, se legata a un modello di sviluppo che privilegi le piccole e medie imprese connesse all'artigianato, i servizi qualificati alle imprese, l'agricoltura di qualità, il turismo culturale, le attività ad alta tecnologia, le attività connesse all'info-telematica.

Il quarto segnale scaturisce dal fatto che siamo cittadini sardi, italiani ed europei. Proprio sulla base del concetto di "cittadinanza europea", la Sardegna, partendo dal suoi intellettuali, deve accettare la sfida del cambiamento. L'Europa, quindi, non più come luogo di emigrazione, ma luogo privilegiato di interazione per il lavoro, per la ricerca e per tutti i rapporti sociali che si possono tessere in un mondo sempre più globalizzato, dinamico, complesso e sempre più obbligato (positivamente) ad integrare razze, religioni, culture, ambienti.

Preso atto di tali quattro, fondamentali segnali, dobbiamo dunque chiederci quale nuovo modello di sviluppo siamo in grado di proporre. Ed ancora, a chi deve servire questo modello. È da ritenere corretto impostare il discorso individuando come destinatari privilegiati della progettualità i giovani più o meno attorno alla soglia del dieci anni di età, proiettando le loro esigenze nell'arco di otto anni.

I giovani di oggi (e di domani) hanno mediamente molte qualità e qualche difetto: sono aperti al mondo, sono utilizzatori intelligenti degli strumenti info-telematici, sono navigatori in Internet, parlano in genere l'inglese e altre lingue straniere, sono più liberi rispetto al nucleo familiare, ed altro. Certo, non tutto il quadro è positivo. Abbiamo, infatti, ben presenti i fenomeni di devianza e di emarginazione, così come le debolezze e fragilità delle nuove generazioni, di cui pure occorre tenere conto. Ma in questa sede ci interessa sostenere con forza che se vogliamo che le qualità presenti e potenziali, che senz'altro sopravanzano gli elementi negativi, possano espandersi, produrre, non ripiegare in frustrazioni e se vogliamo che queste qualità rimangano prevalentemente a beneficio della Sardegna, occorre da subito cercare seriamente di cambiare il modello di sviluppo sardo, proprio in funzione di questi giovanissimi.

Per quanto riguarda l'Università, siamo consapevoli che non basta impegnarsi, come pure stiamo facendo, per un suo adeguamento ai migliori standard europei (miglioramenti dell'offerta didattica, nella flessibilità dei percorsi, nella qualità dei servizi, ecc.): occorre impegnarsi a integrare fortemente l'Università nel territorio, partendo proprio dalla città, per dare visibilità e realizzazione al concetto che abbiamo definito "Università diffusa", dove l'offerta formativa corrisponda, anticipandole e ampliandole, proprio alle esigenze attuali e potenziali del territorio.

La misura del successo di un tale tipo di investimento formativo, che certo non riguarda solo l'Università ma tutto il sistema istruzione-formazione, si riscontrerà soprattutto nel miglioramento della qualità della vita in generale. E questo se per qualità della vita intendiamo, ad esempio, la riduzione della criminalità e l'aumento della sicurezza sociale, la salvaguardia della salute, la riduzione degli incendi estivi e la salvaguardia dell'ambiente, la creazione di maggiore solidarietà sociale, la possibilità di fruizione del grande patrimonio naturale e culturale di cui disponiamo, ecc. Il miglioramento della qualità della vita ovviamente si traduce in ricchezza, diventa cultura, emancipazione e occasione di nuova e diffusa occupazione.

In tutto questo discorso si tratta di avere la piena consapevolezza che, se pure il punto di partenza è - come abbiamo detto - solido e affidabile, non necessariamente si avrà un'evoluzione in positivo. Vale a dire, lo sviluppo si conquista con una forte volontà collettiva, una forte coesione sociale e una classe dirigente (in tutti gli ambiti e livelli di rilevanza sociale) che ben le rappresenti.

L'Università in questo quadro è strategica e fondamentale nell'anticipare gli scenari, nel proporre percorsi e soluzioni, nell'individuare il tipo di formazione necessario e nel cambiarlo, nel formare e sopportare i gruppi dirigenti, nell'essere riferimento alle politiche dello sviluppo sardo, nell'essere riferimento alle politiche della città e dei paesi più piccoli. Perché se è vero che la città deve diffondere i suoi effetti sul territorio per superare il dualismo città-campagna e per superare anche la frattura che potremmo dire culturale tra la gente della città e quella della campagna, a maggior ragione questa diffusione di effetti urbani può avvenire se l'Università diventa lo strumento principe, il referente di questo effetto diffuso che solo la cultura, senza sospetti, può garantire. È questo un passaggio delicatissimo perché presuppone non soltanto la credibilità, che riteniamo di avere, non soltanto le linee progettuali, che siamo disponibili a contribuire a definire, ma soprattutto le risorse, gli strumenti, i mezzi, perché si abbiano i risultati. Emergono quindi con chiarezza le connessioni tra il mondo della ricerca e della formazione, istituzioni statali, regione e amministrazioni locali, associazioni di categoria, associazionismo culturale e, soprattutto, la necessità della riconsiderazione dei rapporti tra queste entità, che vanno considerevolmente rafforzati, nella prospettiva vincente del patto sociale e nell'interesse precipuo della Sardegna.



* Da "Cagliari. Storia e Futuro della Città", a cura del Rotary Club Cagliari, Edizioni della Torre, 1999, pag. 99 e ss.