Logo Traduttori per la Pace

«L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»     art. 11 della Costituzione italiana


Rapporto della 'Asian Peace Mission' in Iraq

(13-18 Marzo 2003)

Home

Le nostre giornate a Baghdad

Una guerra ai bambini, non a Saddam

Per giustificare la guerra all'Iraq, gli USA sono passati dall'affermazione che il paese detiene armi di distruzione di massa e nasconde terroristi, all'affermazione che il suo presidente è un tiranno brutale, che deve essere deposto per "liberare" il popolo irakeno.
La prima di queste ragioni è ben poco fondata, visto che le sue argomentazioni sono basate su documenti falsificati, dossier artefatti e notizie di intelligence gonfiate. Addirittura Hans Blix, il capo degli ispettori ONU, ha accusato gli USA di fabbricare l'evidenza; persino la CIA e l'FBI hanno protestato contro le distorsioni apportate ai propri report di intelligence.
E' evidente che le ispezioni dell'ONU hanno portato il paese a disarmare, e continuano a farlo; non c'è nessuna ragione per fermarle ora.

Una Missione asiatica di Pace, composta di esponenti della società civile e parlamentari, si è recata in Iraq non solo per esprimere solidarietà, ma anche per constatare in prima persona le condizioni reali degli iracheni e i possibili effetti di una guerra sulla popolazione.
La missione è stata guidata da Loretta Ann Rosales, presidente della commissione per i diritti umani del Parlamento delle Filippine. Tra i membri: Hussin Amin, sempre del Parlamento filippino, in rappresentanza della provincia di Sulu, probabile nuovo bersaglio di un attacco USA; Dita Sari, dirigente sindacale indonesiana e insignita del prestigioso riconoscimento Magsaysay; Walden Bello, direttore generale di "Focus on Global South", un centro di ricerca e di supporto alle politiche regionali con uffici a Manila, Mumbai e Bangkok; e Zulfiqar Ali Gondal, membro dell'Assemblea Nazionale Pakistana.
La delegazione è uscita dall'Iraq qualche ora dopo la scadenza dell'ultimatum, convinta di almeno una cosa: questa non sarà una guerra contro Saddam Hussein. Questa sarà una guerra contro il popolo iracheno, metà del quale è composto da bambini. I bambini soffrono per una guerra continua, fatta sotto la maschera delle sanzioni economiche, e le loro sofferenze verranno solo aumentate da un ulteriore conflitto.
Inoltre, l'affermazione spesso ridimensionata, eppure altrettanto spesso ripetuta, della similitudine tra Saddam Hussein e Adolf Hitler, mirata a rafforzare l'impressione della minaccia arrecata dall'Iraq, e quindi per giustificare la guerra, non regge. La Germania, ai tempi di Hitler, era la nazione industrialmente più avanzata del mondo. I membri della missione hanno constatato che l'Iraq, a prescindere dalla descrizione che ne fanno gli iracheni, è un paese effettivamente in ginocchio, un paese devastato.

"Sono queste le persone che volete uccidere?"
Il gruppo è arrivato a Damasco giovedì 13 marzo ma, dopo ore di attesa all'aeroporto, è riuscito a muoversi verso Baghdad soltanto venerdì sera.
Dopo il ricevimento da parte del rappresentante del parlamento irakeno, nella mattinata del 15 marzo la missione si è subito diretta all'ospedale infantile Al Mansour, per vedere da vicino alcuni degli effetti nefasti provocati dall'embargo ancora in vigore nel paese.

Nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra del Golfo, nel 1991, gli USA, sotto l'egida dell'ONU, hanno proibito le importazioni in Iraq di tutti i prodotti che potevano essere utilizzati nella costruzione di armi di distruzione di massa. Nei fatti, ciò ha significato l'impossibilità di fornire a migliaia di bambini malati le cure e i medicinali necessari. Secondo l'ONU, più di mezzo milione di bambini sono morti per diretta conseguenza delle sanzioni economiche.

All'ospedale, la missione di pace ha visitato Salah, un paziente di cinque anni malato di leucemia, che attende semplicemente di morire. La sua vita avrebbe potuto essere salvata se si fosse sottoposto alla radioterapia, ma le sostanze chimiche necessarie sono tra quelle che, secondo gli USA, potrebbero servire a produrre armi nucleari, e quindi non sono a disposizione dei medici. I casi di cancro sono aumentati notevolmente dopo gli attacchi americani all'uranio impoverito condotti durante la prima guerra del Golfo.

La missione ha poi incontrato Murtazan, un bambino di tre anni colpito da un linfoma, che potrebbe sopravvivere se le cure continueranno, cosa molto incerta vista l'arbitrarietà e i ritardi cui sono sottoposte le richieste di medicinali.
Secondo il dottor Murtada Hassan, la mancanza di medicinali è stata una catastrofe per i bambini iracheni. Prima dell'inizio delle sanzioni, nel 1989, la mortalità dei bambini sotto i cinque anni era di 56 su 1000. Nel 1999, questa cifra è più che raddoppiata, fino a 131 su 1000. Solo nell'ospedale del dottor Hassan muoiono due o tre bambini ogni settimana per varie tipologie di cancro e relative complicazioni.
"Quando vado nel reparto a visitare i pazienti sono davvero affranto", ha detto il dottore ai membri della missione, "perché non posso fare nulla in mancanza di medicinali adeguati".
Il dottor Hassan, che non può nemmeno permettersi di comprare libri di medicina aggiornati, e tanto meno partecipare a conferenze mediche internazionali, ha guidato i membri della missione nell'ospedale. La pressione economica dovuta all'embargo, spiega, ha portato al deterioramento delle strutture ospedaliere. Degli otto ascensori, solo due funzionano. Non c'è collegamento a Internet. Solo un numero limitato di condizionatori d'aria sono disponibili, e molte delle camere dell'ospedale diventeranno insopportabilmente calde durante l'estate, quando la temperatura sfiorerà i 60°. E Al Mansour è uno dei migliori ospedali, negli altri le condizioni sono di gran lunga peggiori.
Il dottore fa osservare come gli USA, tramite l'utilizzo dell'uranio impoverito, hanno provocato malattie a migliaia di bambini iracheni. Ora, con le sanzioni, impediscono le loro cure e, di fatto, assicurano loro una morte certa e dolorosa.
Dopo aver incontrato i bambini in punto di morte nel reparto di oncologia, la missione è stata portata nella stanza "artistica" dell'ospedale, dove il dottor Hassan ha fatto vedere i dipinti e i manufatti dei bambini ormai morti. Appese al muro, le foto dei piccoli pazienti iracheni, corredate dalla domanda: "Mr Bush, sono queste le persone che lei vuole uccidere?".
A un certo punto il dottore ha preso alcune foto dagli scaffali, dicendo: "questo lo abbiamo perso la scorsa settimana, quest'altro un mese fa".

'Abbastanza sano per morire'
La missione di pace si è recata in seguito agli uffici dell'UNICEF di Baghdad, dove un rappresentante dell'organizzazione, il dottor Carel de Rooy, ha illustrato la situazione dei bambini iracheni tracciando un'immagine a dir poco atroce e desolante. L'Iraq ha uno dei più elevati tassi di mortalità infantile al mondo.
Nell'ultimo decennio ha avuto il più alto tasso di crescita della mortalità, maggiore anche dei paesi più poveri del mondo. Tutto ciò, però, non costituisce una sorpresa, visto che l'incidenza delle malattie prevenibili è aumentata di più del 100% dal 1990.
Cinque milioni di persone in Iraq non hanno accesso all’acqua potabile. Tra le donne, tre su cinque sono anemiche. La percentuale dei bambini sotto i cinque anni che risultano cronicamente malnutriti è, secondo le parole di de Rooy, "assurdamente alta".

De Rooy ha messo in evidenza come le sanzioni non solo siano da biasimare, ma anche che "hanno provocato danni, danni tremendi". Alla radice dei mali iracheni, ha affermato, c'è l'embargo economico. Di fronte alla guerra imminente, l'UNICEF si sta assicurando che gli iracheni possano resistere almeno alle malattie causate dalla guerra stessa, dice De Rooy. Se gli USA colpiscono, come già fecero nel 1991, acquedotti e fognature, gli effetti in termini di igiene e diffusione di malattie saranno catastrofici.
Ciò che l'UNICEF sta facendo, in poche parole, e considerata l'elevata possibilità di epidemie, è assicurare che i bambini siano abbastanza sani nel momento della morte.

'Il vero terrorismo'
Dopo aver visitato i malati e i morenti, la missione si è recata a visitare i morti. Nel febbraio del 1991, mentre gli USA iniziavano a bombardare Baghdad, molte famiglie si nascosero nei rifugi di Al-Amiriya nella speranza di sopravvivere alla guerra. Gli spessi muri dell'edificio si rivelarono di nessuna protezione.
Verso le quattro del mattino del 12 febbraio, una bomba lanciata dagli USA cadde sul tetto dell'edificio, fece un buco di tre metri nel pavimento ed esplose. 407 persone, per la maggior parte donne e bambini che dormivano, morirono all'istante. Un numero del quale il Segretario di Stato USA Colin Powell, a una domanda sulla quantità di civili uccisi durante la guerra, si disse "non particolarmente impressionato".
Le immagini di alcune di queste 407 persone, vittime di un crimine di guerra, sono oggi visibili sui muri delle stanze di Al-Amiriya, trasformato in un museo che intende preservare il luogo come fu ridotto dai bombardamenti. I muri sono ancora neri per la cenere e la fuliggine. I grandi buchi sul soffitto e il pavimento sono oggi la maggiore attrazione del luogo. Cavi e sbarre, ricurvi o spezzati, sono ancora arrotolati attorno alle colonne. Scure e dense macchie di sangue marcano ancora il pavimento in corrispondenza dei corpi delle vittime.
Nell'istante in cui la bomba esplose, una madre che stava cullando il proprio bambino venne sbattuta violentemente contro la parete, lasciando un'immagine visibile simile a una "Madonna col bambino" sullo sfondo nero del muro.
"Questo è il vero terrorismo" ha detto un turista commosso alla vista delle immagini dei corpi carbonizzati.

Verso sera, la missione ha fatto una visita di cortesia all'ex ambasciatore in Germania e Francia, Abdul Razzaq Al Hashmi, il quale ha affermato che le sanzioni e la minaccia di guerra hanno ridotto il paese a un enorme campo profughi, dove la gente non fa altro che mangiare e dormire.

'Più sicuri di sé'
Il giorno successivo, 16 marzo, la missione si è recata in visita dal ministro della sanità. Il dottor Umaid Mubarak ha rimarcato gli effetti delle sanzioni e della guerra. Ha raccontato di come gli uffici del suo ministero fossero tra quelli bombardati nella prima guerra come obiettivi militari. Per qualche oscura ragione, anche farmacia e ambulatori vennero distrutti.
Mubarak sottolinea ancora l'iniquità e l'ingiustizia con cui sono state applicate le sanzioni e gestito il programma Oil for Food. Secondo il programma, l'Iraq poteva vendere il petrolio per acquistare generi di prima necessità. Ma questi non sono decisi dall'Iraq, bensì da un comitato ONU virtualmente controllato dagli USA.
L'Iraq può richiedere solo alcuni tipi di prodotti, include le medicine, le quali sono sottoposte al giudizio di questo comitato. Una procedura non solo tediosa, ma spesso anche capricciosa. Alcuni prodotti, ipoteticamente utili per la costruzione di armi, ma assolutamente necessari per portare avanti certe terapie mediche, sono stati negati. Circa 5,2 miliardi di dollari di richieste per cibo e medicine, ottenuti dall'Iraq dalla vendita del petrolio, devono ancora essere consegnati alla gente che ne ha un disperato bisogno.
Nonostante ciò, riferisce Mubarak, la gente irachena non solo riesce ad andare avanti, ma è diventata anche più fiduciosa in se stessa e autosufficiente. "Siamo iracheni diversi da quelli del 1991".

'Come Tebaldo'
All'università di Baghdad, la missione ha visto con i propri occhi la volontà degli studenti di non lasciare entrare la guerra nella propria educazione. Alla vigilia della guerra, i corsi continuavano come sempre. Gli studenti affollavano i corridoi, giocavano a pallavolo e studiavano Romeo e Giulietta di Shakespeare. Il gruppo è entrato in una classe durante una lezione di letteratura inglese ed ha parlato con quasi cinquanta studenti, per la maggior parte donne, per chiedere loro cosa pensassero della guerra.
Gli studenti erano perfettamente al corrente di quali fossero le vere ragioni di questa guerra. Conoscevano la loro storia. Per rispondere all'affermazione di Bush secondo cui i bombardamenti sono necessari per liberarli, uno studente dice: "E' ciò che hanno detto, da secoli, tutti quelli che volevano conquistare l'Iraq".

Gli USA e i loro alleati sperano che le sofferenze provocate dall'embargo e dalla guerra convincano il popolo iracheno a ribellarsi contro Saddam Hussein. Al contrario, non fanno che aumentare il consenso verso il regime. Questo era del tutto evidente dal modo in cui tutti gli studenti dichiaravano il proprio apprezzamento per Saddam e il disgusto per Bush. "E' come Tebaldo" dice uno studente, riferendosi al personaggio di Romeo e Giulietta.

Il professor Abdul Sattar Jawad dice che nonostante alcuni degli edifici dell'università siano stati bombardati nel 1991, lui e i suoi studenti vedono ancora la scuola come un rifugio. Racconta di come uno studente abbia discusso la sua tesi di dottorato proprio mentre le bombe cadevano sul resto della città.
Jawad considera una pia illusione l'idea che la gente irachena corra nelle strade e gioisca per l'arrivo dei liberatori a Baghdad. A suo avviso l'embargo ha peggiorato notevolmente il sistema educativo, rendendo molto difficile l'importazione di libri e impossibile la partecipazione a conferenze internazionali.
Jawad, che insegna letteratura americana e autori come William Faulkner e F. Scott Fitzgerald, sostiene che sta diventando sempre più difficile far capire agli studenti la differenza tra cultura americana e aggressione americana. Di fronte alla pioggia di bombe, chiede, "come posso convincere i miei studenti che la cultura e la democrazia americana sono cose buone?".
Egli ne è, tuttavia, convinto, e così sembrano i suoi studenti. Alla domanda se i libri che studiano mostrino che gli USA siano intrinsecamente aggressivi e violenti, la risposta unanime è "No". Tutti gli studenti sono d'accordo nel ritenere che l'unico modo per non essere soverchiati dalla minaccia della guerra è quello di continuare ad andare a scuola. Stare a casa, dicono, è già un segno di disperazione e di resa.

'International Solidarity '
Dopo la visita all'università, la missione si è recata al Press Center del ministero per l'Informazione, dove alcune emittenti internazionali si sono accampate per monitorare la situazione a Baghdad. Durante la conferenza stampa, alla presenza degli inviati di diversi media europei, canadesi e del Medio oriente, la delegazione ha esposto gli obiettivi della missione in una fase così critica come quella attuale.
Etta Rosales ha posto l'accento sulla necessità di esprimere un forte messaggio di solidarietà inter-asiatica al popolo iracheno. Hussin Amin, dal canto suo, ha ricordato il rischio che la provincia filippina del Mindanao, da cui proviene, possa essere uno dei prossimi obiettivi dell'azione militare statunitense. Zulfiqar Gondal ha risposto ad alcune domande sull'atteggiamento del popolo pachistano verso la guerra. Dita Sari ha espresso la solidarietà degli indonesiani verso i fratelli musulmani che saranno colpiti dall'intervento armato.
La conferenza stampa è stata trasmessa in serata dalla televisione di stato irachena e da altre emittenti arabe, consentendo così il raggiungimento di uno dei principali obiettivi della missione: far pervenire direttamente il messaggio di solidarietà asiatica al popolo iracheno nell'ora del bisogno.

Successivamente, alcuni componenti della delegazione hanno presenziato, nella Piazza della Libertà di Baghdad, alla cerimonia d'inaugurazione di un gigantesco murale, opera del famoso artista coreano Choi Byung Soo. In quella sede hanno avuto l'opportunità di incontrare altre delegazioni di pace provenienti da Messico, Giappone e Corea. A un certo punto, un uomo si è avvicinato esprimendo, in un inglese incerto, la gratitudine degli iracheni per la presenza della delegazione nella loro città.

La missione ha poi organizzato una Serata di Solidarietà asiatica per confrontarsi e discutere con i numerosi gruppi stranieri giunti a Baghdad per opporsi alla guerra. Hanno così avuto modo di condividere impressioni, pareri e progetti con pacifisti provenienti da un gran numero di paesi quali Australia, Ucraina, Russia, Italia, Canada, Svezia, Corea del sud, Giappone, Regno unito e Stati Uniti. L'incontro è stato anche l'occasione per esprimere formale ringraziamento alla preziosissima assistenza di Kathy Kelly, di 'Voices in the Wilderness'; l'organizzazione che ha fatto arrivare a Baghdad alcuni gruppi di cittadini statunitensi, tra cui alcuni rappresentanti delle vittime dell'11 settembre; a Han Sang Jin, dell'organizzazione coreana 'Nonviolent Peaceforce'; a Wadah Qasimy e Hasan al-Baghdadi, del ministero degli Esteri iracheno; a Fahdi Hefashy, console onorario delle Filippine in Siria; e a Grace Escalante, ambasciatrice filippina in Iraq.

Alcuni delegati stranieri hanno intenzione di rimanere in Iraq anche durante la guerra. Ritengono di avere appena il 20% di possibilità di sopravvivenza in caso di conflitto. C'è chi è assolutamente determinato a posizionarsi come 'scudo umano' a protezione di obiettivi militari come ospedali, ponti, centrali elettriche e impianti di trattamento idrico. Eventuali bombardamenti di questi siti sarebbero da considerare come crimini di guerra.

'Evacuazione'
Il programma della missione è stato discusso e organizzato in piena autonomia dai componenti della delegazione, senza alcuna ingerenza da parte delle autorità irachene. In aggiunta, c'è stata l'opportunità di interagire con la gente della strada - tassisti, camerieri, funzionari statali, negozianti, poliziotti, ecc.
Queste interazioni sono state assolutamente spontanee e casuali, e non arrangiate a bella posta dagli strateghi del governo iracheno.

La notte del 16 marzo, nei locali del Palestine Hotel, dove soggiornavano i membri della delegazione e numerosi giornalisti e pacifisti stranieri, oggetto di tutte le conversazioni era l'ultimatum lanciato da Bush all'Onu e a Saddam Hussein. Non pochi, tra i delegati che avevano deciso di restare, si sono sciolti in lacrime nell'accomiatarsi da coloro che erano in partenza. Inizialmente la missione aveva previsto di restare fino alla notte del 17 marzo, eventualmente anche fino al 18, ma a quel punto il volo per Damasco era già stato cancellato. Il costo dell'eventuale noleggio di pulmini per raggiungere la Siria via terra nel frattempo era più che triplicato, e la possibilità di accreditarsi come personale diplomatico o di agenzie dell'Onu diminuiva di ora in ora, così come quella di trovare un iracheno disposto ad accompagnarli, data la limitata disponibilità di veicoli. L'evacuazione di Baghdad era iniziata già prima dell'arrivo della missione, ed aveva subito un'accelerazione la notte del 16 marzo, in coincidenza con l'ultimatum statunitense.
Per queste ragioni, nonostante la loro intenzione di proseguire la missione, i membri della delegazione si sono visti costretti a fare i bagagli e a partire la mattina seguente, anche per la pressante insistenza dell'ambasciatrice filippina. Lungo la strada per Damasco, la missione ha incontrato file di macchine con famiglie che si affrettavano a trasferirsi in località più sicure, e lunghe code alle stazioni di benzina.
Giunti in prossimità del confine con la Siria, la missione ha fatto conoscenza con un gruppo di volontari provenienti da Marocco, Algeria, Palestina e Siria, che stavano entrando in Iraq per combattere gli Stati Uniti e le truppe alleate. Dopo un estenuante viaggio di 15 ore, la missione è giunta a Damasco il 18 marzo per poi partire alla volta di Manila, Giacarta e Karachi il giorno seguente.

La delegazione ha promesso di farsi portavoce del messaggio proveniente dal popolo iracheno nei rispettivi paesi di appartenenza. Questa non è una guerra contro dei terroristi. Non è una guerra contro Saddam. E' una guerra contro il popolo iracheno, in particolar modo contro i bambini, che costituiscono la metà della popolazione.

I componenti della missione:
Loretta Ann Rosales, responsabile della missione, esponente del partito Akbayan! al Parlamento filippino e presidente della Commissione per i diritti umani;
Prof. Walden Bello, direttore generale di 'Focus on the Global South' (Mumbai, Bangkok, Manila);
Zulfiqar Ali Gondal, membro dell'Assemblea nazionale Pachistana;
Dita Sari, attivista sindacale indonesiana, insignita del prestigioso riconoscimento Magsaysay nel 2001;
Hussin Amin, parlamentare filippino del primo distretto di Sulu;
Jim Libiran e Ariel Fulgado, rispettivamente inviato e operatore del programma d'inchiesta "The Correspondents"
Herbert Docena, ricercatore di 'Focus on the Global South'.

Lasciamo vivere l'Iraq e i suoi bambini

Dichiarazione della Missione asiatica di Pace sull'imminente guerra in Iraq (Damasco, 19 marzo 2003)

La Missione asiatica di Pace a Baghdad intende esprimere la sua più totale contrarietà alla decisione presa dagli Usa di avviare un'azione militare unilaterale contro il popolo iracheno. La principale motivazione addotta dal presidente degli Stati Uniti George Bush e dal premier inglese Tony Blair per giustificare la guerra imminente è stata la "liberazione del popolo iracheno".
Siamo appena di ritorno da Baghdad, dove abbiamo avuto modo di incontrare un gran numero di persone della strada. Ebbene, nessuno degli iracheni con cui abbiamo parlato ha espresso la volontà di essere "liberato" dagli Usa e dal Regno Unito. Inoltre, la reazione più diffusa tra gli iracheni al teorema Bush-Blair della liberazione per mezzo di un'aggressione, è rappresentata dalle parole di una ragazza dell'università di Baghdad: "Sono migliaia di anni che ci invadono, e sempre con il pretesto di liberarci". Per colmo dell'ironia, il principale obiettivo dichiarato della guerra rischia di produrre l'esatto opposto: anziché affrancare il popolo iracheno dal suo governo, è assai probabile che rafforzi il consenso al regime.
Washington sostiene che lo scopo della guerra è disarmare Saddam Hussein. Questa asserzione si scontra con i rapporti degli ispettori delle Nazioni Unite, secondo cui le autorità irachene nelle ultime settimane avevano sostanzialmente aumentato il livello di cooperazione nell'ambito del processo di disarmo.

Il fatto è che non esiste nessuna valida ragione per questa guerra. Al contrario, ci sono tutte le ragioni per opporsi a una guerra al di fuori dell'egida delle Nazioni Unite.
Il diritto internazionale è l'esile muro che separa la civile convivenza delle nazioni dall'anarchia. L'intervento armato americano farà precipitare il mondo intero indietro di 60 anni. Come l'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'esercito nazista nel 1938, l'intervento anglo-americano in Iraq in sprezzo delle Nazioni Unite costituisce una palese violazione del diritto internazionale che può avere conseguenze devastanti. Come la mossa di Hitler rappresentò l'epitaffio sulla Società delle Nazioni, così la guerra di Washington e Londra contro l'Iraq distruggerà ogni residua capacità dell'Onu di svolgere un ruolo di mantenimento della pace globale.

Siamo pieni di rabbia, ma anche tristi. Nel corso della nostra breve missione in Iraq, abbiamo incontrato molti iracheni, stretto molte amicizie. E' primavera a Baghdad, la stagione in cui la natura si rinnova. Tuttavia, molti tra coloro che abbiamo conosciuto perderanno la vita. Potrebbero esserci centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti o di persone trasformate in rifugiati sotto la scure della potenza militare statunitense.

Baghdad è una città stupenda, pulsante di vita, di festa e di cultura. Gran parte di quest'antica città sarà sicuramente rasa al suolo. Le cosiddette 'bombe intelligenti', che dovrebbero evitare stragi tra i civili, sono soltanto un'illusione. Assisteremo, al contrario, a innumerevoli ripetizioni del bombardamento del rifugio di Al-Aamriyya durante la Guerra del Golfo del 1991, quando un ordigno lanciato dagli USA distrusse il massiccio tetto di cemento dell'edificio uccidendo 407 persone tra uomini, donne e bambini, in un'orrenda esplosione.

Poniamo al mondo la stessa domanda rivoltaci da un professore dell'Università di Baghdad: perché la nazione più industrializzata del mondo è così determinata a distruggere la più antica civiltà del pianeta?
Il desiderio di mettere mano sulle riserve petrolifere dell'Iraq, le seconde per quantità nel mondo, è una ragione importante, ma non l'unica. C'è anche la volontà di instaurare un nuovo assetto in Medio oriente che assicuri il predominio di Israele e un nuovo ordine internazionale in cui l'egemonia statunitense non possa essere sfidata da nessuna altra potenza o coalizione di potenze. Ma questo non esaurisce le ragioni che spingono gli Usa alla guerra con tanta smania. Perché c'è dell'altro: la cupidigia del potere fine a se stesso, che esprime tutto il suo ferale narcisismo attraverso la distruzione del prossimo.

Washington è decisa ad aggredire l'Iraq a tutti i costi, ma commetterebbe un gravissimo errore se si aspettasse di fare una passeggiata. Oltre l'apparenza della routine quotidiana, abbiamo riscontrato negli iracheni una ferma determinazione a difendere la sovranità del paese. Come ci ha detto un iracheno, "Siamo diversi rispetto a prima della guerra del Golfo. Costringendoci a fare affidamento solo su noi stessi, gli anni dell'embargo ci hanno rafforzato". Washington e Londra faranno bene a non sottovalutare i 7,5 milioni di miliziani addestrati, molti dei quali difenderanno Baghdad isolato per isolato. Come si può dubitare che di fronte a un'aggressione esterna non sia la cosa giusta? In circostanze simili, la resistenza all'invasore non è forse il più sacro dei doveri?
La forza dovrà misurarsi con l'esercizio del più alto imperativo etico, e l'esito finale non è così scontato.

La guerra sta per cominciare. In qualità di membri della Missione asiatica di Pace, uniamo le nostre voci a quelle del mondo intero per chiedere agli Usa e al Regno Unito di desistere dai loro propositi di aggressione. Lo facciamo in nome dei bambini iracheni. Chiediamo che invece di scatenare una guerra si uniscano anche loro al resto del mondo per eliminare le sanzioni economiche che hanno trasformato una popolazione di bambini un tempo relativamente sani in un moltitudine di persone gravemente malnutrite, che sarà devastata dagli effetti di quella che si annuncia come una guerra di lunga durata.

Ci appelliamo alla comunità delle nazioni affinché si costruisca un ultimo tentativo per costringere la superpotenza americana a non smantellare l'unico strumento a salvaguardia della pace globale, così faticosamente costruito negli ultimi 58 anni. Non potremo mai stancarci di ripetere che, a meno di una strenua opposizione contro l'arrogante intervento armato, il destino a cui va incontro oggi l'Iraq potrà essere un domani il nostro destino comune.

Oggi siamo tutti iracheni.

Missione asiatica di Pace a Baghdad, 14-17 marzo 2003
Loretta Ann Rosales, responsabile della missione, presidente della Commissione per i diritti umani al Parlamento filippino;
Zulfiqar Ali Gondal, membro dell'Assemblea nazionale Pachistana;
Hussin Amin, parlamentare filippino;
Dita Sari, attivista sindacale indonesiana, insignita del ricionoscimento Magsaysay nel 2001;
Walden Bello, direttore generale di "Focus on the Global South" (Mumbai, Bangkok, Manila);
Herbert Docena, Ariel Fulgado e Jim Libiran, staff.

(Traduzione di Daniele Miggino e Andrea Grechi - Traduttori per la Pace)