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Due pesi, due misure - di George Monbiot

(24 Marzo 2003)

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Gli USA esprimono sdegno per i maltrattamenti iracheni ai cinque prigionieri di guerra americani. Allora, cosa sono le persone detenute a Guantanamo?

Improvvisamente, il governo degli Stati Uniti ha scoperto i valori del diritto internazionale. Potrà anche combattere una guerra illegale contro uno stato sovrano, potrà anche ignorare ogni trattato che ostacoli i suoi tentativi di governare il mondo, ma quando cinque dei suoi soldati, fatti prigionieri, sono stati esibiti alla televisione irachena domenica scorsa, Donald Rumsfeld, ministro della difesa degli Stati Uniti, ha immediatamente lamentato che "mostrare fotografie di prigionieri di guerra in modo per essi umiliante è contrario alla convenzione di Ginevra".

Ovviamente, ha del tutto ragione. L'articolo 13 delle terza convenzione, in materia di trattamento dei prigionieri di guerra, stabilisce che essi "devono sempre essere protetti... dagli insulti e dalla curiosità del pubblico". Questa potrebbe essere considerata una delle infrazioni meno efferate delle leggi di guerra, ma le convenzioni, ratificate dall'Iraq nel 1956, non sono negoziabili. In caso di infrazione, si può essere accusati di crimini di guerra.

Dal momento che le cose stanno così, Rumsfeld farebbe bene a essere più cauto, perché, nella sua posizione di ministro della difesa, questo entusiasta neoconvertito alla causa del diritto di guerra è responsabile di una serie di crimini che, se mai fosse giudicato, lo porterebbe in carcere per il resto dei suoi giorni.

Il suo campo di prigionia nella baia di Guantanamo, Cuba, dove vengono detenuti 641 uomini (nove dei quali cittadini britannici), infrange non meno di 15 articoli della terza convenzione. Il governo statunitense ha infranto il primo di essi (articolo 13) nel momento stesso in cui sono giunti i prigionieri, mostrandoli, proprio come hanno fatto gli iracheni, alla televisione. In quella circostanza, tuttavia, non sono stati invitati a rivolgersi alle telecamere. Erano inginocchiati a terra, le mani legate dietro alla schiena, e portavano occhiali dalle lenti annerite e cuffie insonorizzanti alle orecchie. In violazione all'articolo 18, erano stati privati dei vestiti e degli oggetti personali. Erano stati poi internati in un penitenziario (contro l'articolo 22), dove era stato loro negato l'accesso a mense (26), dispense (28), luoghi di culto (34), opportunità di esercizio fisico (38) e l'accesso al testo della Convenzione (41), oltre alla facoltà di scrivere alle proprie famiglie (70 e 71) e di ricevere pacchi di cibo e libri (72).

Quegli uomini non sono stati "liberati e rimpatriati senza indugio dopo la cessazione delle ostilità attive" (118), perché, a giudizio delle autorità statunitensi, il loro interrogatorio potrebbe, un giorno, rivelare informazioni interessanti su Al Qaeda. L'articolo 17 sostiene che i prigionieri sono obbligati a comunicare unicamente il proprio nome, il numero di matricola e la data di nascita. È vietato "esercitare qualsiasi coercizione sui prigionieri di guerra per ottenere da essi qualsiasi genere di informazioni". Nel tentativo di spezzare le loro resistenze, tuttavia, le autorità li hanno costretti in celle d'isolamento e li hanno sottoposti alla cosiddetta "torture lite": privazione del sonno e costante esposizione alla luce intensa. Non sorprende che diversi prigionieri abbiano tentato di uccidersi, sbattendo la testa contro i muri o tentando di tagliarsi i polsi con posate di plastica.

Secondo l'amministrazione statunitense questi uomini non sono soggetti alle convenzioni di Ginevra, in quanto non sono "prigionieri di guerra" ma "combattenti illegali". Lo stesso potrebbero sostenere, e a maggior ragione, gli iracheni che tengono prigionieri i soldati statunitensi che hanno illegalmente invaso il loro paese. Tuttavia, una ridefinizione di questo genere contrasta comunque nella sostanza con l'articolo 4 della terza convenzione, in base al quale le persone detenute come sospetti appartenenti a una milizia (i talebani) o a un corpo di volontari (Al Qaeda) devono essere considerate prigionieri di guerra.

Anche in caso di dubbi sulla posizione giuridica di tali persone, l'articolo sancisce che esse "bebeficieranno della protezione della presente convenzione finché il loro status non sia stato stabilito da un tribunale competente". Ma quando, all'inizio di questo mese, i legali che rappresentavano 16 di questi prigionieri hanno chiesto la convocazione un'udienza, la Corte d'appello USA ha stabilito che, poiché la Baia di Guantanamo non è territorio sovrano degli Stati Uniti, gli uomini non godono di diritti costituzionali. Sembra che molti dei prigionieri lavorassero in Afghanistan in qualità di insegnanti, tecnici od operatori assistenziali. Se l'amministrazione statunitense li processasse o li liberasse, l'imbarazzante mancanza di prove verrebbe portata alla luce.

Non direste certo che questi prigionieri sono fortunati, a meno di sapere che cosa è accaduto ad alcuni degli altri uomini catturati dagli americani e dai loro alleati in Afghanistan. Il 21 novembre 2001, circa 8.000 soldati talebani e civili Pashtun si arresero a Konduz al comandante dell'Alleanza del Nord, il generale Abdul Rashid Dostum. Da allora non si è più avuta notizia di molti di loro.

Come si denuncia nel documentario «Massacro a Mazar» di Jamie Doran, centinaia, se non migliaia di essi furono caricati su camion portacontainer a Qala-i-Zeini, nei pressi della città di Mazar-i-Sharif, il 26 e 27 di novembre. I portelli furono sigillati e i camion furono lasciati fermi al sole per diversi giorni. Successivamente, partirono per la prigione di Sheberghan, a 130 chilometri di distanza. I prigionieri, molti dei quali moribondi per sete e asfissia, iniziarono a battere sulle fiancate dei camion. Gli uomini di Dostum fermarono il convoglio e aprirono il fuoco con le mitragliatrici contro i container. Quando arrivarono a Sheberghan, la maggior parte dei prigionieri erano morti.

Le forze speciali statunitensi responsabili della prigione videro i corpi mentre venivano scaricati e ordinarono agli uomini di Dostum di "liberarsene prima che i satelliti rilevassero immagini". Doran intervistò un soldato dell'Alleanza del Nord a guardia della prigione. «Ho visto con i miei occhi un soldato americano spezzare il collo a un prigioniero. Gli americani facevano quello che volevano. Non avevamo alcun potere per fermarli.» Un altro soldato ha dichiarato: «Portavano i prigionieri fuori e li picchiavano, poi li riportavano in cella. A volte però non li riportavano indietro, e sparivano.»

Molti dei sopravvissuti furono caricati nuovamente nei container con i cadaveri, e quindi portati in una località nel deserto chiamata Dasht-i-Leili. Alla presenza di almeno 40 uomini delle forze speciali americane, i vivi e i morti furono gettati insieme in alcune fosse. Chiunque si muovesse venne fucilato. Il giornale tedesco Die Zeit condusse delle inchieste sulle denunce e concluse che: «Non c'erano dubbi che gli americani avessero partecipato. Anche ai livelli più alti non ci sono dubbi su questo punto». Il gruppo americano Physicians for Human Rights (Medici per i diritti umani) visitò i luoghi identificati dai testimoni di Doran e scoprì che «tutti... contenevano resti umani, per cui l'ipotesi che fossero stati usati come fosse era avvalorata».

Non è nemmeno il caso di ricordare che anche quel genere di trattamento viola la terza convenzione di Ginevra, che proibisce "la violenza contro la vita e la persona, in particolare ogni genere di omicidio, mutilazione, trattamento crudele e tortura", oltre all'esecuzione sommaria. Il ministero di Donald Rumsfeld, con l'appoggio di media compiacenti, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per sopprimere il film di Jamie Doran, mentre il generale Dostum ha iniziato ad assassinare i possibii testimoni.

Non è pertanto difficile comprendere per quale motivo l'amministrazione statunitense abbia esercitato tanti sforzi per contrastare l'istituzione del tribunale penale internazionale prima, e poi per sottrarre i propri cittadini alla sua giurisdizione. I cinque soldati trascinati ieri di fronte alle telecamere dovrebbero ringraziare il cielo di non essere prigionieri delle forze americane che combattono per la civiltà, ma degli iracheni «barbari e disumani».

(Traduzione di Andrea Spila e Spartaco Moscato - Traduttori per la Pace)