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Il governo della globalizzazione
di George Monbiot
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Il governo della globalizzazione

Caspar Henderson di openDemocracy intervista George Monbiot
www.opendemocracy.net

Lo scrittore ed ambientalista George Monbiot, ha partecipato a molte campagne mondiali di resistenza al potere degli stati e delle multinazionali. Ma qual è in concreto la visione sociale e politica alla base della sua attività? In che cosa differisce da quella dei sostenitori della globalizzazione come Maria Cattaui, Peter Sutherland e George Soros? E che tipo di futuro prevede per il movimento internazionalista alla luce della "guerra al terrorismo"?

Caspar Henderson - openDemocracy ha avviato un dibattito sulla globalizzazione. Per questo, ha intervistato Maria Cattaui, direttore dell'International Chamber of Commerce e ha ospitato una discussione tra Peter Sutherland, che ha fondato l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ed è l'attuale presidente di BP nonché dirigente della Goldman Sachs International, e l'esponente politica e accademica inglese, Shirley Williams. Nel loro concetto di globalizzazione, istituzioni come il WTO sono considerate parte di un sistema globale basato su regole. Un sistema che aiuta sia ricchi che poveri a crescere economicamente. Cosa significa per lei "globalizzazione"?

George Monbiot - Globalizzazione è un termine ambiguo che è arrivato ad assumere il significato che ogni singolo individuo vuole dargli. Questa vaghezza crea delle difficoltà al cosiddetto movimento "anti-globalizzazione", che viene spesso percepito per ciò che non è. Esso, infatti, molto erroneamente, viene descritto come un movimento favorevole all'autarchia e alla separazione piuttosto che a quella sorta di internazionalismo che da sempre caratterizza la politica progressista.

Leggendo le interviste di Peter Sutherland e Maria Cattaui, sono rimasto impressionato da quanto rimangano intrappolati nei modelli e nelle definizioni correnti, che considerano il mondo per quello che è e non per quello che potrebbe essere. Sembrano attendersi miracoli da istituzioni fornite di un mandato estremamente limitato.

Consideriamo, ad esempio, il WTO. Nel 1944, l'intento originario della conferenza di Bretton Woods era quello di creare un'organizzazione per il commercio internazionale (International Trade Organisation) finalizzata a favorire il libero commercio, ma anche ad assistere i paesi poveri nel perseguimento della prosperità economica attraverso il trasferimento di tecnologia, la difesa delle norme sul lavoro e il miglioramento delle loro bilance commerciali. Alla fine, però, tutti questi compiti, ad eccezione di quello relativo al libero commercio, vennero preclusi dall'opposizione delle imprese statunitensi. Fu creato, così, il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), concepito come una soluzione ad interim, in attesa del raggiungimento di un accordo molto più ampio.

A quel tempo, vi era un ampio riconoscimento del fatto che l'adozione di misure volte ad agevolare il libero commercio non avrebbe prodotto giustizia economica, se non fosse stata accompagnata da azioni tendenti a generare prosperità nel mondo povero. Questo problema fondamentale è tuttora in attesa di una soluzione. Il GATT venne trasformato nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organisation) e gli originari obiettivi dell'ITO sono stati dimenticati. Il WTO costituisce un meccanismo incompleto per arrecare prosperità ai paesi più poveri: incompleto perché assolve soltanto ad una delle importanti funzioni inizialmente prospettate.

Le fasi dello sviluppo

CH - Ma non le sembra che la sua analisi sia parzialmente condivisa da Cattaui e Sutherland? Quest'ultimo, ad esempio, parla dell'assoluta esigenza che i paesi avanzati destinino perlomeno lo 0,7% del loro PIL agli aiuti allo sviluppo come punto di partenza. Il cancelliere dello scacchiere britannico, Gordon Brown, sta chiedendo ai paesi industriali ricchi di incrementare notevolmente gli aiuti allo sviluppo. Tutto ciò non dimostra forse che è ampiamente sentita l'esigenza che il mondo si trasformi in un sistema globale basato su regole, di tipo più progressista?

GM - Sono certamente favorevole all'aumento del budget a favore degli aiuti allo sviluppo, non fosse altro per tamponare parte dell'enorme vuoto lasciato dal fallimento delle istituzioni di Bretton Woods. L'ITO era stato originariamente concepito per regolamentare l'economia internazionale, in modo da consentire ai paesi poveri di sopravvivere e prosperare senza dover fare affidamento sulle donazioni provenienti dal mondo industrializzato. Il fatto che a distanza di settantacinque anni, parliamo ancora dell'esigenza di aumentare gli aiuti da inviare ai paesi poveri, dimostra quale enorme fallimento sia stato il fare affidamento sul libero commercio per creare ricchezza. L'insuccesso delle regole si traduce sempre in spesa pubblica.

CH - A questo, Sutherland obietterebbe che gli attuali problemi sono anche imputabili alla cattiva amministrazione (inclusa l'eredità coloniale), che caratterizza aree come l'Africa; laddove in zone come il Sud-est asiatico, sistemi aperti e un'efficace regolamentazione sono stati forieri di una sostanziale prosperità. Si tratta di motivi sia negativi che positivi per partecipare a un sistema aperto di commercio internazionale.

GM - Sarebbe certamente singolare ascrivere il miracolo economico asiatico soltanto al libero commercio. I paesi dell'area che hanno maggiormente prosperato, fino alla crisi del 1997-98, hanno seguito un processo di sviluppo in tre stadi. Nel primo stadio è stata attuata una massiccia riforma e redistribuzione delle terre. In Giappone, Taiwan e Corea, dopo che la guerra produsse il reale smantellamento del potere terriero feudale, fu istituito un programma sistematico di riforma agraria a seguito del quale si verificò una grande redistribuzione della ricchezza. Il secondo stadio è rappresentato dalle misure protezionistiche che i rispettivi governi vararono per proteggere l'economia locale e nazionale. Soltanto dopo che questi due fattori accelerarono una crescita interna molto sostenuta, le economie vennero esposte al libero mercato che Peter propone.

È semplicemente impossibile competere con il capitale multinazionale, se prima non viene creata la ricchezza delle comunità e delle imprese locali. Il problema attuale è che pretendiamo che i paesi in via di sviluppo vadano direttamente al terzo stadio senza passare per i primi due. È semplicemente impossibile per la gente competere con il capitale multinazionale, se prima non viene creata la ricchezza delle comunità e delle imprese locali. All'arrivo delle multinazionali, la gente non ha modo di competere. È quanto è successo in Russia, ad esempio, con il benestare del Fondo Monetario Internazionale (FMI), dove è stata praticamente rimossa tutta la regolamentazione finanziaria e commerciale in vigore così che l'economia è caduta nelle mani del capitale straniero o della mafia locale.

Il futuro è keynesiano

CH - Mi sembra che Maria Cattaui concordi su questo punto quando dice che "nonostante la crisi finanziaria del '97-98, tutti i Paesi del Sud-est asiatico sono oggi più forti di quanto non fossero negli anni '60; tuttavia, dimentichiamo che le loro politiche non furono incentrate sul laissez-faire. Esse furono fortemente promosse dal governo. Solo recentemente queste economie hanno assunto un minore orientamento governativo. Perché? Perché sappiamo che il tipo di sussidi all'epoca utilizzato alla fine non ha funzionato e ha determinato la perdita di competitività delle industrie. Sappiamo ora che la Corea è migliorata, ma altrettanto si è verificato nel mondo sviluppato. Bisogna sempre comprendere la finalità di un sussidio." In altre parole, lo sviluppo economico avviene per stadi. Non è opinione condivisa che si tratti di un processo a più stadi e che ciascun Paese debba entrare nell'economia globalizzata alle proprie condizioni?

GM - Trovo singolare che Maria ammetta che è in questo modo che quelle nazioni un tempo povere hanno raggiunto uno straordinario benessere, ma, poi, escluda lo stesso metodo per i tanti paesi ancora oggi in via di sviluppo.

Attribuire tutti i fallimenti dei paesi in via di sviluppo a una cattiva amministrazione locale costituisce un grottesco insulto per i popoli di quei paesi. Ma quello che forse è ancora più importante è che sia Maria che Peter addossino l'onere del cambiamento ai governi dei paesi in difficoltà economiche. Anche se è vero che molti di questi paesi hanno indubbiamente gestito male l'economia, attribuire tutti i fallimenti dei paesi in via di sviluppo a una cattiva amministrazione locale costituisce un grottesco insulto per i popoli di quei paesi.

In primo luogo, molti dei paesi a cui rimproveriamo una gestione economica incompetente sono in realtà governati dal FMI. La gestione economica ha poco a che fare con il governo stesso, che è diventato un mero esecutore delle politiche stabilite dal FMI. Se queste politiche si sono rivelate fallimentari, non si capisce perché dovremmo attribuirne la responsabilità agli impoveriti governi nazionali.

In secondo luogo, molti paesi in via di sviluppo non hanno realmente vie d'uscita. Per perseguire lo sviluppo, necessitano delle infrastrutture di base. Ma sono intrappolati in un ciclo di sotto investimenti. Poiché mancano di buone strade, scuole ed ospedali, la loro posizione economica continua a deteriorarsi e in questo modo risulta impossibile generare il denaro per costruire le infrastrutture. L'unica opzione disponibile è l'aumento della spesa pubblica. Ma non possono aumentare la spesa pubblica perché il FMI e la Banca Mondiale glielo proibiscono. La loro intera economia è stata ri-orientata da queste due istituzioni verso il prelievo di risorse e ricchezza allo scopo di pagare i grotteschi livelli del debito, di cui va data colpa ai creditori e che sovente sono stati ottenuti in primo luogo attraverso la corruzione. Critichiamo pure i governi corrotti dei paesi in via di sviluppo, ma non dovremmo biasimare anche i corruttori?

È necessario riesaminare non solo il WTO, ma anche istituzioni come il FMI e la Banca Mondiale. Si tratta di un insieme di istituzioni incapace di mettere in atto un positivo cambiamento economico globale. Per due ordini di fattori. Primo, queste istituzioni sono interamente controllate dalle nazioni creditrici. I paesi in cui operano non hanno alcun controllo sulle loro operazioni. Il che è profondamente ingiusto: un palese deficit di democrazia. Secondo, il loro ruolo consiste essenzialmente nel tutelare il debito. Non sono che gli ufficiali giudiziari dell'economia mondiale. Non servono a ripristinare l'equilibrio della bilancia commerciale, ma a farne pagare lo squilibrio.

Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, è qualcosa di simile all'unione di compensazione internazionale proposta da John Maynard Keynes nel corso della Seconda guerra mondiale, secondo la quale l'estinzione di un debito costituisce un onere tanto per il debitore quanto per il creditore: un sistema economico globale capace di autocorreggersi, in alternativa a un sistema gestito dalle nazioni creditrici in base ai propri interessi.

CH - Come funzionerebbe?

GM - L'idea di Keynes era semplice. Egli concepì un sistema di commercio mondiale in grado di autocorreggersi e di eliminare i propri squilibri. L'idea di base era che le transazioni internazionali, piuttosto che nelle valute nazionali come il dollaro, venissero condotte in una valuta internazionale, da lui denominata "Bancor".

Gestore della valuta sarebbe stata una banca centrale, l'Unione di compensazione internazionale, che avrebbe applicato a creditori e debitori lo stesso tasso di interesse. Di conseguenza, un paese con un debito o un credito ammontante a cento milioni di bancor avrebbe comunque pagato lo stesso tasso di interesse. Il bello di questo meccanismo risiede nel fatto che avrebbe incentivato le nazioni creditrici ad adeguare il valore della propria valuta nazionale al bancor oppure a reinvestire massicciamente nell'acquisto di molti più prodotti del paese debitore. Così, il debito sarebbe stato un fenomeno transitorio e non il problema cumulativo, sempre più grave, che è diventato.

Keynes presentò la sua proposta a Bretton Woods. Predisse che la controproposta statunitense, contemplante la creazione di un fondo di stabilizzazione internazionale (dal quale sarebbe nato il FMI) e di una Banca Mondiale, avrebbe portato ad un massiccio indebitamento endemico, all'ininterrotto impoverimento del mondo sottosviluppato e alle crescenti ricchezza e potere del mondo industrializzato, in particolare degli Stati Uniti. Gli USA minacciarono di ritirare il prestito bellico concesso alla Gran Bretagna se avesse continuato ad insistere sull'idea keynesiana. La Gran Bretagna fece marcia indietro e la previsione di Keynes si realizzò. Oggi è tempo di riesaminare la proposta di Keynes e di cercare di rimodellare l'architettura economica globale in maniera veramente radicale.

Costringere i potenti a dare risposte

CH - In base alle sue parole, Keynes si scontrò con la realtà del potere statunitense nei primi anni '40. Gli Stati Uniti, il cui PIL rappresenta il 25% del PIL mondiale, che possono annoverare vasti programmi militari e un enorme potere finanziario, costituiscono la maggiore economia nel mondo. Come si potrebbe avere la meglio sugli interessi americani laddove Keynes non è riuscito?

GM - Alcune zone del mondo si trovano oggi in una posizione più forte di quanto non fosse la Gran Bretagna nel 1944. L'UE rappresenta un blocco commerciale molto potente. E in unione con le maggiori economie in via di sviluppo acquisterebbe una notevole influenza. Non sarebbe un'impresa facile. Il confronto tra i poteri non lo è mai. Ma costituisce la sfida perenne da affrontare per chiunque sia coinvolto in politiche progressiste.

CH - Adesso sta esprimendo una qualche speranza in merito al potenziale dell'UE. Ma, in altri interventi l'ha accusata di essere alla mercé delle multinazionali europee. Ad esempio, ha molto criticato il tavolo di negoziato europeo degli industriali. Perché, allora, l'UE dovrebbe fare quello che gli USA non vogliono che faccia?

La condotta governativa è influenzata dalla volontà popolare di critica e interdizione. Non esiste sistema politico in grado di garantire la democrazia.

GM - L'Unione europea prenderà decisioni che scontentano gli Stati Uniti soltanto su richiesta della propria popolazione. La condotta governativa è influenzata dalla volontà popolare di critica e interdizione. Non esiste sistema politico in grado di garantire la democrazia. La bontà di un sistema è direttamente proporzionale alla capacità dei critici di confrontarsi con esso.

Una nuova voce nel commercio mondiale

CH - A Doha, il WTO è riuscito a pervenire a un accordo. Per quanto sia molto complesso, molti osservatori lo ritengono significativo per almeno una ragione: alcuni dei paesi in via di sviluppo hanno ottenuto delle vittorie sia sull'UE che sugli USA.

In merito ai diritti di proprietà intellettuale, sembra che gli Stati Uniti abbiano ceduto molto terreno, non ultimo a causa degli attuali problemi con l'antrace. L'UE sembra che abbia fatto concessioni in campo agricolo; è probabile che alcuni dei suoi sussidi verranno finalmente aboliti. Poiché il dumping alimentare praticato dalla UE nei paesi in via di sviluppo danneggia le economie agricole indigene, l'abolizione dei sussidi rappresenterebbe una considerevole vittoria.

Nella realpolitik del potere mondiale cominciano ad affermarsi paesi come l'India; la Cina è diventata membro del WTO e sarà seguita dalla Russia. I paesi in via di sviluppo, o quantomeno i rispettivi governi, propendono verso il WTO per risolvere in parte i propri problemi. In tal modo, l'equilibrio dei poteri tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo potrebbe spostarsi così da diventare più equo o da permettere, quantomeno, un reale negoziato. Tutto ciò non rappresenta un progresso rispetto al WTO?

GM - Alcuni paesi in via di sviluppo, l'India in particolare, al WTO hanno indubbiamente sviluppato un potere di negoziazione più efficace rispetto al passato e hanno dimostrato notevoli doti di astuzia ed abilità nei negoziati. Sono riusciti a respingere il tentativo grossolano del "gruppo dei quattro" (USA, Canada, Giappone ed UE) di imporre alle trattative commerciali mondiali l'agenda del mondo industrializzato.

Ma, è presto per fare previsioni sul risultato di questo nuovo round. La maggior parte delle promesse fatte nel round precedente, quello uruguayano, non è stata mantenuta. Dobbiamo ancora vedere quali risultati si avranno in campo agricolo. Ciò che forse è ancora più importante, è che i paesi industrializzati potrebbero continuare ad appesantire l'agenda di nuove tematiche - investimenti, servizi e acquisizioni governative, ad esempio - che renderebbero ancora più arduo, ai paesi in via di sviluppo, mettere all'ordine del giorno le loro esigenze.

A Doha il Terzo mondo è riuscito a farsi sentire, forse per la prima volta in oltre cinquanta anni. Il che è sicuramente un dato positivo. Ma, come ho detto all'inizio, non dobbiamo dimenticare che il WTO affronta soltanto un aspetto dell'economia globale ed è istituzionalmente incapace di risolvere lo squilibrio commerciale.

Che tipo di globalizzazione?

CH - Alla luce di queste critiche, la gente vuole sapere come è possibile procedere. Prendiamo, ad esempio, George Soros, che condivide parte della Sua analisi. In Project Syndicate, un articolo pubblicato sul Glasgow Herald immediatamente prima di Doha, Soros argomenta che la sfida che hanno davanti i paesi più poveri "non è in realtà il WTO, quanto l'assenza di istituzioni ugualmente autorevoli ed efficaci dedicate ad altri obiettivi sociali". Tra questi, annovera l'istruzione, la sanità e la formazione di "capitale umano".

"Il rispetto delle regole del WTO", continua Soros, "non consente di perseguire gli obiettivi sociali perché molti paesi sono privi di risorse tali da soddisfare gli standard internazionali. Piuttosto che imporre condizioni, sarebbe meglio fornire risorse in modo da permettere ai paesi poveri di aderire volontariamente al divieto di lavoro minorile senza che occorra introdurre all'uopo una norma. È nostro compito fornire l'istruzione primaria su scala universale".

Un altro punto chiave, "l'ordine di precedenza tra WTO e leggi nazionali dovrebbe essere modificato a favore di queste ultime". Soros, inoltre, sostiene che "il WTO ha voluto strafare con la proprietà intellettuale" - opinione, questa, condivisa persino dal decano degli economisti liberisti, Jagdish Bhagwati. Soros, infine, ritiene che vada rinegoziato l'accordo sugli investimenti correlati al commercio in modo da poter sostenere le piccole e medie imprese nazionali.

Se, quindi, in questo campo lei e Soros condividete la stessa prospettiva, come è possibile fare avanzare queste proposte? Che tipo di globalizzazione, pur con le Sue riserve sulla parola, stiamo perseguendo? Quanta sovranità i governi dovrebbero cedere alle organizzazioni internazionali? Quanta ne dovrebbero trattenere e quali altri meccanismi sono necessari perché si abbia un reale coinvolgimento democratico?

GM - Lei mi ha appena posto circa otto domande, per rispondere a ciascuna delle quali sarebbero necessari parecchi giorni! L'analisi di Soros per molti aspetti è puntuale, ma nel discutere di regolamentazione, occorre andare oltre la regolamentazione della condotta dei governi rispetto al commercio. Bisogna considerare anche la regolamentazione delle multinazionali.

Uno dei grandi errori dell'Occidente, sia che si tratti dell'UE che di persone come Maria e Peter, è quello di considerare i governi come gli attori esclusivi delle problematiche ambientali. Sulle questioni riguardanti l'ambiente, i diritti umani, le norme sul lavoro, la protezione dei consumatori, la salute e la sicurezza sul lavoro, è necessario responsabilizzare anche le multinazionali. A livello globale, in realtà, esse non sono normate. Non sono soggette al rispetto delle norme sui diritti umani che pretendiamo dai governi. Non sono costrette a pagare il conto, quando dispongono operazioni nocive per l'ambiente o la salute.

Per attuare un riequilibrio del commercio globale, è necessario regolamentare in maniera efficace le multinazionali. Occorre una sorta di WTO speculare, finalizzato ad approvare o sanzionare le azioni delle multinazionali. Una tale istituzione può funzionare solo a livello globale. Se si prova ad imporre un'aliquota elevata all'imposta sulle società, ad esempio, le multinazionali semplicemente sbaraccano in Tailandia. L'esistenza di un'imposta societaria globale impedirebbe questo comportamento. E lo stesso vale per le norme relative a: ambiente, salute, sicurezza e difesa dei consumatori.

Per inciso, sarei lieto se, oltre all'aliquota globale dell'imposta sulle società, si arrivasse ad uno stipendio massimo globale, in base al quale nessuno all'interno di una multinazionale possa guadagnare più di otto o dieci volte il salario minimo percepito da un membro della forza lavoro o di una società in subappalto. Rappresenterebbe un formidabile incentivo per elevare la paga di coloro che si trovano alla base della scala. Quanto detto risponde solo in minima parte alla vasta gamma di domande che mi ha posto. Al pari di George Soros, desidero vedere l'attuazione di misure pratiche ma, diversamente da lui, voglio un ordine mondiale differente piuttosto che il semplice miglioramento di quello esistente.

CH - La differenza è tanto netta? Anche Maria Cattaui ritiene che le multinazionali in molti mercati non siano soggette ad alcuna normativa. Ma, sottolinea come l'opinione pubblica internazionale possa arrivare ad influire sulla loro condotta. A titolo esemplificativo, si potrebbero citare i casi della Shell in Nigeria e della Nike in Indonesia. Peter Sutherland, invece, sostiene che il potere delle multinazionali sia eccessivamente sopravvalutato; pensa che, in realtà, sia in fase di contrazione.

GM - Prendiamo a titolo esemplificativo la Gran Bretagna. Dagli inizi degli anni '90 è stata istituita l'iniziativa di finanziamento privato (PFI - Private Finance Initiative), [NdT: un meccanismo di cui si sono serviti tanto i governi conservatori quanto quelli laburisti per appaltare la costruzione di ospedali e scuole al settore privato in cambio di una riscossione degli affitti a lungo termine e che ha posto, perciò, un enorme onere finanziario a carico dei cittadini per la prossima generazione e oltre]. Come ha detto uno dei suoi architetti, si tratta dello "Heineken delle privatizzazioni, in grado di raggiungere parti della macchina governativa mai raggiunte in passato". Rappresenta il progetto più ambizioso che sia mai stato varato in Gran Bretagna dalle imprese private. Sta conducendo allo smantellamento del sistema sociale universale e alla conquista del settore pubblico da parte dei fornitori privati. Rappresenta un'autorizzazione al capitale multinazionale che le imprese à avrebbero soltanto potuto sognare dieci o venti anni fa. E lo stesso si sta verificando su scala mondiale. Ipotizzare che il potere delle multinazionali si stia indebolendo è semplicemente risibile.

Un nuovo modello di governance globale

CH - Almeno Peter Sutherland ha operato per la condivisione di sovranità e la redistribuzione all'interno della UE. Quando afferma che ci vorrà molto tempo perché altrettanto possa realizzarsi su scala globale, non ha ragione nel sostenere che occorre guardare con realismo al contesto in cui si opera? L'ideale di un'imposta globale sulle società a livello universale non è per niente fattibile al momento.

È realistico che la Banca Mondiale e il FMI possano migliorare le economie dei paesi poveri, invece di continuare a distruggerle?
È realistico che misure di libero commercio possano da sole continuare ad arrecare giustizia economica?

GM - Dunque, prendiamo in esame il termine "realismo". È realistico pretendere che le nazioni povere saldino debiti che a volte eccedono il loro stesso PIL? È realistico che la Banca Mondiale e il FMI possano migliorare le economie dei paesi poveri, invece di continuare a distruggerle? È realistico che misure di libero commercio possano da sole continuare ad arrecare giustizia economica? È realistico che le multinazionali si autoregolamentino? È realistico che senza opportune misure di governance globale la voce dei poveri venga realmente udita? Per trovare misure realistiche, dobbiamo trasformare da cima a fondo i modelli politici ed economici della governance globale.

Se con il termine "realistico" si vuole indicare ciò che è fattibile, allora, sì, queste modifiche sono fattibili se è presente un'adeguata volontà politica. Ma se cerchiamo semplicemente modi per sopravvivere all'interno del modello economico corrente, non riusciremo a raggiungere nulla. Il punto di partenza deve essere costituito da cosa è desiderabile.

Ciò, ritengo, implica una completa trasformazione delle politiche di governance globale. Attualmente si osserva un massiccio deficit democratico a livello globale. Le decisioni chiave vengono prese, ovviamente informalmente, ma comunque prese nei G8. Da otto uomini, cioè, che rappresentano il 13% della popolazione mondiale. Ciascuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che incidentalmente sono anche i maggiori trafficanti di armi nel mondo, ha un potere di veto sulle decisioni del consiglio stesso. L'Assemblea generale dell'ONU, che dovrebbe costituire la sede del governo mondiale, è un'istituzione totalmente priva di democrazia. In Gran Bretagna abbiamo appena assistito alle proteste generate dalla decisione di Blair per cui i membri della Camera dei Lord saranno d'ora in poi nominati invece che eletti. E, tuttavia, non si è levata ancora alcuna protesta riguardo al fatto che tutti i nostri ambasciatori all'ONU sono designati per nomina invece di essere eletti e tendono ad essere vicini ai loro servizi di sicurezza e distanti dai popoli che rappresentano.

Ci sarebbe bisogno di una sorta di parlamento mondiale, i cui rappresentanti vengano eletti per suffragio diretto in base alla popolazione, in grado di bypassare i governi e di dotare una persona residente a Kinshasa dello stesso potere di una residente nel quartiere di Kensington, a Londra, in campo internazionale. Non sto parlando di sottrarre potere ai governi, ma di rendere più democratici i poteri che già esistono a livello internazionale e che sono nelle mani di una manciata di governi.

CH - Ma come potrebbe funzionare? Ad esempio, come potranno i Cinesi persuadere il governo a consentire loro di partecipare direttamente a un parlamento mondiale, scavalcando le strutture e gli organi del Partito comunista della Repubblica popolare?

GM - Ciò fa parte della grande sfida verso la democrazia mondiale, ma per ora stiamo eludendo sia i temi del potere che della rappresentanza. Consentiamo a pochi governi di decidere quanto deve accadere nell'interesse del resto del mondo e di nominare coloro che devono svolgere funzioni di governo internazionale.

Come scavalcare il governo cinese, e anzi anche i nostri governi, per fondare delle strutture di governance globale a livello internazionale, che risultino indipendenti dai governi locali? In teoria, è semplice. Basta iniziare senza di loro e tentare gradualmente di accumulare autorità morale attraverso la creazione di strutture i cui rappresentanti possano essere eletti direttamente. Grazie all'autorità morale sarebbe, quindi, possibile togliere potere a coloro i quali l'hanno arraffato incampo internazionale.

CH - Durante la Guerra civile e la Rivoluzione inglesi del 17° secolo, Oliver Cromwell, responsabile del rovesciamento della monarchia, era deluso dal comportamento venale del parlamento eletto. Lo sostituì, perciò, con il Parlamento dei Santi, i cui membri avevano un filo diretto con la volontà del Signore - si trattava di brave persone comuni in possesso, però, di nomi straordinari come "Laudato, Treossi". Il risultato fu disastroso ed egli divenne di fatto un dittatore.

Intendo dire che la storia è piena di schemi concepiti con le migliori intenzioni. In Europa, sono occorse molte centinaia di anni perché emergesse una popolazione istruita in possesso di coscienza e risorse politiche sofisticate. E ancora incontriamo difficoltà a perseguire un governo democratico a livello europeo. L'affermazione di un parlamento mondiale, dove possano incontrarsi tutti i buoni e i giusti, è forse un obiettivo lodevole, ma non presuppone molte fasi intermedie per la sua realizzazione? Ad esempio, non occorre che i Cinesi diventino più ricchi, più sani e meglio istruiti; che instaurino una democrazia e una società civile nel loro paese, prima di poter partecipare realmente al governo internazionale?

GM - Il Parlamento dei Santi corrisponde proprio a quanto abbiamo con l'Assemblea generale dell'ONU. È composto da tutti i "buoni e i grandi", nominati ambasciatori ONU dai rispettivi governi e privi di alcuna credenziale democratica. È il disastroso parlamento che inevitabilmente porta alla dittatura dei G8 per le sue evidenti carenze democratiche.

Io credo che un corpo rappresentativo fondato dal basso potrebbe esso stesso divenire una forza di democratizzazione molto potente. Un corpo veramente democratico su scala mondiale, che crescesse dal basso e fornisse una rappresentazione alternativa di come potrebbe essere la democrazia, avrebbe un enorme impatto. A quel punto, i cinesi che ne facessero parte, non cercherebbero di rovesciare i loro governi autoritari per qualcosa di migliore?

Dopo l'11 settembre

CH - Come pensa di far progredire un movimento in favore della democratizzazione mondiale nelle attuali circostanze internazionali di estrema tensione?

GM - Quanto succede in Afghanistan evidenzia che c'è un bisogno urgentissimo di rivedere il modo in cui le decisioni vengono prese. Sarebbe molto grave se metà del mondo ritenesse di essere escluso dai processi decisionali, di non essere rappresentato al Consiglio di sicurezza dell'ONU; di non avere voce nei negoziati internazionali. Se ritenesse - e ciò vale particolarmente per il mondo musulmano - che l'Occidente ha imposto la sua volontà in maniera autoritaria e aggressiva, potremmo aver seminato in Afghanistan molti più problemi di quanti non ne abbiamo risolti.

E ciò mi fa pensare che abbiamo un disperato bisogno di portare le popolazioni escluse nei forum decisionali chiave a livello globale. È fuor di dubbio che al momento questo senso di esclusione ha contribuito ad edificare un profondo sentimento di ostilità nei confronti dell'Occidente.

CH - Ma come può un movimento, che si propone di modificare queste condizioni, acquisire legittimità senza essere temuto dalla gente?

Il dissenso, proprio quando è più duro, diventa più necessario.

GM - Indubbiamente la gente teme molto il cambiamento al momento; gli stessi governi sono estremamente timorosi nei confronti del radicalismo e del dissenso. Non per questo dobbiamo smettere di porre sfide o domande. Anzi, dobbiamo porle ora più che mai. Il dissenso, proprio quando è più duro, diventa più necessario.

Abbiamo bisogno disperatamente di fornire alternative al modo in cui le decisioni vengono assunte a livello globale. Disperatamente, perché una fetta tanto elevata della popolazione mondiale si sente completamente esclusa, il che contribuisce a quel risentimento nel quale il terrorismo può prosperare. Oltre che nell'interesse di chiunque abiti sulla Terra, è nell'interesse dello stesso Occidente cominciare a risolvere questi problemi ed evitare che la caduta dei Talebani in Afghanistan diventi il pretesto per un nuovo imperialismo.

Inoltre, dobbiamo chiarire la nostra stessa posizione in quanto movimento. Prima dell'11 settembre il movimento internazionalista (un termine che personalmente preferisco a quello di "movimento anti-globalizzazione") stava attraversando dei problemi. Si era dimostrato meno capace del previsto di reprimere il tipo di violenza che abbiamo visto per le strade di Genova. Ora, è indubbio che la maggior parte della violenza sia provenuta dalla polizia, ma è ugualmente indubbio che alcuni dei contestatori si sono esibiti negli atti di vandalismo più stupidi e insensati, fornendo così il pretesto alla polizia per attaccare coloro che protestavano pacificamente e ai leader del G8 di ignorare gli sforzi dei trecentomila presenti.

Come movimento, ci siamo dimostrati troppo morbidi nei confronti di coloro che pretendono di essere dalla nostra parte, ma in realtà stanno indebolendo i nostri sforzi. Abbiamo tollerato un discorso di diversità, dove la gente dice: "voi fate a modo vostro, mentre noi facciamo a modo nostro; la protesta violenta può convivere abbastanza felicemente con la protesta non violenta". È una totale sciocchezza. La protesta violenta distrugge quella non violenta - la rende impossibile. Fa in modo che il mondo consideri tutti quelli che protestano violenti. Dobbiamo darci maggiore disciplina di quanto abbiamo fatto in passato. Dobbiamo anche domandarci se possiamo continuare a organizzare grandi dimostrazioni del tipo di quella vista a Genova.

Dobbiamo imparare da gruppi come il World Social Forum, che sta organizzando vasti incontri e radunando persone dappertutto nel mondo.

Dobbiamo costruire sugli sviluppi estremamente positivi manifestatisi durante la protesta in strada a Genova, Nizza, Davos. Dovremmo coinvolgere sempre più gente e cominciare a trasformarlo in un processo democratico di genuina rappresentanza. E, poi, potremmo sviluppare una sorta di parlamento mondiale in esilio.

Non ha alcuna importanza se il nostro governo, o qualsiasi altro governo, sia favorevole o contrario. Sono convinto che dopo un po' di tempo avrebbe accumulato sufficiente autorità morale perché istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI e alcune agenzie dell'ONU fossero costrette a rispondergli e a dar conto del loro operato. Quindi, comincerebbe ad accumulare, in quanto parlamento mondiale, un potere estremamente significativo a livello internazionale.

CH - Movimenti come il World Social Forum sono caratterizzati da un forte dinamismo. Ma, non si tratta di un'immensa agglomerazione di Ong, sindacati e individui mossi da buone intenzioni che non sono eletti? Il termine "parlamento mondiale" è, in questo senso, realmente appropriato?

GM - È vero, inizialmente non è un corpo rappresentativo, ma lentamente si trasforma in tale. Si crea il movimento in modo democratico, dove le persone sono delegate prima di tutto dalle rispettive comunità, poi dalle rispettive popolazioni e lo si trasforma, quindi, in un processo elettivo. Quello che nasce come un corpo non rappresentativo, ma che pure comprende tutte le nazioni del mondo e attualmente non è certo meno rappresentativo dell'Assemblea generale dell'ONU, può ben trasformarsi in un genuino forum rappresentativo.

CH - Come descriverebbe in sintesi lo spirito del movimento?

GM - Una delle grandi opportunità che ci sono offerte allo stadio attuale è quella di sbarazzarci degli slogan semplicistici che hanno dominato la politica in passato, anche da parte di chi protestava. Oggi potenzialmente possiamo contare su un elettorato molto meglio informato a livello globale e nazionale del passato. Internet e altri mezzi di comunicazione moderni rendono possibile l'attuazione di quel tipo di dibattito informato che è finora purtroppo mancato. Abbiamo l'opportunità di cominciare ad applicare analisi complesse e di cominciare a pretendere che i governi agiscano in base a queste analisi. Uno dei maggiori problemi nel mondo è dato dal fatto che cerchiamo sempre soluzioni semplici alle questioni complesse. È tempo di smetterla. Dobbiamo impegnarci nella complessità, se vogliamo che altrettanto facciano i governi.

CH - Un parlamento deve essere rappresentativo di tutte le opinioni. Nella discussione che ha avuto con Shirley Williams, Peter Sutherland dice che gli piacerebbe un summit sulla globalizzazione a cui partecipasse un ampio ventaglio di paesi ed organizzazioni. Non potrebbe anche questo essere un passo verso il parlamento mondiale da Lei auspicato?

GM - Potrebbe, ma preferirei soluzioni emergenti dal basso piuttosto che imposte, una volta di più, dai governi nazionali e dalle istituzioni globali, le cui ricette si sono dimostrate in passato fallimentari. Chi decide chi partecipa al summit? Chi dà loro mandato perché parlino a nome nostro? Non siamo stufi di imponenti, olimpiche panoramiche da parte dei "vertici"? E se, invece, cominciassimo a rivolgerci alle "valli" e alle pianure?

Copyright openDemocracy, 2001.

Traduzione: Stefania Russomando (Traduttori per la Pace)


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