© Rodolfo Calanca, 2003 |
LA BLACK DROP DURANTE I TRANSITI DI MERCURIO E VENERE |
Rodolfo Calanca |
Nelle
fasi iniziali o finali dei transiti di Mercurio e Venere sul disco del Sole, in
prossimità del secondo e terzo contatto, un fenomeno improvviso
e quasi sempre inatteso, ha spesso frustrato gli sforzi degli astronomi
impegnati nel fissare l’esatto momento di tangenza dei bordi dei due astri:
l’apparizione della misteriosa black drop o goccia nera (figg.
1-2).
Osservata
durante i contatti interni, la black drop era apparsa (vedi: simulazione
black drop), agli occhi attoniti dei primi osservatori secenteschi, come un
legamento oscuro che univa i lembi del pianeta e del Sole. Altre volte si
manifestava sotto forma di una protuberanza o un’escrescenza o, ancora, come
un’appendice del pianeta.
Thomas
Pynchon, uno dei maggiori scrittori
americani contemporanei, ne parla così in un suo romanzo, Mason &
Dixon:
una Goccia d’Inchiostro
lì lì per cadere dalla Penna di uno Scrivano svagato.
Dai numerosi resoconti dei transiti dei due pianeti, che gli astronomi hanno seguito fin dai tempi dell’invenzione del cannocchiale (il primo, osservato da Pierre Gassendi, fu quello di Mercurio del 1631), emerge chiaramente la notevole complessità del fenomeno che va sotto il nome di black drop, che non è semplicemente limitato ad una alterazione apparente della forma del pianeta e all’apparizione del legamento che congiunge i lembi dei due astri. Si sono riconosciute, infatti, prima e anche dopo la formazione della goccia, alcune fasi che descriviamo nel seguito.
- Aureole ed anelli completi o parziali: in molti transiti si sono osservati anelli, più o meno completi, oppure aureole luminose intorno al disco di Venere, sia quando esso era solo parzialmente immerso nel disco solare, sia nella fase di totale immersione.
L’aureola
fu descritta da Charles Messier durante il transito di Venere del 1769. L’astronomo
reale Nevil Maskelyne durante lo stesso transito ne parla così:
Vidi
[di Venere] la sua intera circonferenza completa che si manifestava tramite un
vivido e tuttavia sottile e non ben definito contorno di luce. Esso illuminava
quella parte della sua circonferenza ancora fuori dal Sole e che, altrimenti,
sarebbe stata invisibile… Ho continuato a vederlo anche nei primi minuti
successivi al contatto interno.
Fase
del lembo staccato (figg. 3-4)
Nel 1882, Stuyvaert, della spedizione belga in Texas e Lagrange, in quella del Cile, videro il lembo di Venere interamente circondato dalla luce solare. Lagrange commentava così l’osservazione:
un
filetto luminoso viene a tagliare la goccia nera. Il disco di Venere sembra
separarsi dal bordo del Sole, ma tra il disco ed il bordo c’è un filetto nero
più o meno concentrico rispetto al Sole.
Formazione della black drop, del “cappello cinese” e della forma a “D”: nel passato, in modo troppo generico, si è indicato con il termine “legamento” ogni forma od ombra che si mostri tra i dischi di Mercurio o Venere ed il Sole. Questa semplificazione non è però corretta perché essa dovrebbe riferirsi unicamente ai segmenti rettilinei che congiungono i lembi dei due astri.
Tale segmento spesso si ingrossa e si fonde con il lembo di Mercurio o Venere formando la classica goccia. I numerosi disegni eseguiti da William Hirst durante il transito del 1769, offrono un eccellente esempio di black drop.
Accenniamo poi alla fase del lembo staccato, attraversato da parte a parte dal segmento rettilineo, osservata quasi esclusivamente da astronomi inglesi, in particolare da Morris, Ellery, Moerlin e Russell, in Australia, durante il transito di Venere del 1874. A questa particolare apparenza fu posto il nome di cappello cinese.
La forma a “D” del pianeta (figg. 5-6-7) in prossimità dei contatti interni, fu notata e descritta durante i transiti di Mercurio del 1868, 1878 e 1881, e in quello di Venere del 1874.
Nel
corso degli ultimi tre secoli sono state fornite diverse spiegazioni
dell'insorgere della black drop e dei fenomeni ad essa correlati, quasi tutte
insoddisfacenti. Tra queste ricordiamo
Le ipotesi attualmente più interessanti sono due. La prima, recentemente proposta da B.E. Schaefer dell’Università del Texas, che chiama in causa l'effetto di smearing, al quale contribuirebbe il seeing atmosferico e la diffrazione negli strumenti astronomici e, la seconda, risalente agli anni Venti del Novecento di Guido Horn d’Arturo, a quel tempo direttore dell’osservatorio di Bologna.
Adottando
l’ipotesi di Schaefer, non sarà casuale il fatto che la lunghezza media del
legamento raggiunge i 3” (anche se, di frequente, esso è stato visto assai più
cospicuo, specialmente in condizioni di forte turbolenza atmosferica) e che tale
valore è molto vicino al seeing medio diurno, di solito compreso tra i
3” e i 5”.
Il
termine seeing è correntemente utilizzato in astronomia per descrivere
l’insieme dei disturbi atmosferici che deteriora la qualità delle immagini
dei corpi celesti. La qualità dell’osservazione degli astri è
notevolmente compromessa da condizioni di seeing sfavorevoli, qualunque
sia la tecnica impiegata: visione diretta al telescopio, fotografia, CCD, ecc.
Secondo Schaefer, il fatto che le dimensioni della goccia, osservata dagli astronomi nei passaggi del Settecento, fossero, in genere, più accentuate che nei due del secolo successivo, si deve alle maggiori dimensioni del disco di Airy prodotto dalle lenti dei piccoli cannocchiali allora impiegati, che non superavano quasi mai i 5-8 centimetri d’apertura ed erano quasi sempre affette da aberrazione sferica e cromatica.
L’estensione
della figura di diffrazione di una sorgente puntiforme nei piccoli cannocchiali
è all’incirca dello stesso ordine di grandezza del seeing medio
diurno: una lente di 4 centimetri d’apertura produce infatti un dischetto di
diffrazione di 3” di raggio, che, all’aumentare delle dimensioni
dell’obbiettivo, diminuisce sensibilmente (per la luce visibile, tale raggio,
che determina il potere risolutivo dello strumento, è dato dal rapporto tra il
coefficiente angolare 12” ed il diametro della lente in centimetri) e, in
questo caso, l’influenza del seeing predomina.
La
spiegazione di Schaefer è convincente soprattutto perché illustra in modo
adeguato la formazione del legamento oscuro e la sua evoluzione temporale.
Lo
smearing non sembra però in grado di spiegare le osservazioni, quasi
esclusivamente visuali, di alcune fasi sopra descritte, quali le aureole, la
forma a “D” o il “cappello cinese”. E’ quindi necessario ricercare
un’altra causa.
Poco
conosciuta, ma certamente degna d’attenzione, l’idea che all’origine delle
summenzionate, e non spiegate, osservazioni sia un comunissimo difetto della
vista, l’astigmatismo.
Ricordiamo
che l’astigmatismo, in una trattazione semplificata, può dirsi prodotto da
una deformazione della cornea, la quale presenta due raggi di curvatura, uno
massimo e l’altro minimo, perpendicolari tra loro. Ne consegue che,
all’interno dell’occhio astigmatico si hanno due fuochi a distanze diverse:
se la retina è nella posizione di uno di essi, l’immagine è normale in una
direzione, ma è allungata o accorciata nel senso perpendicolare alla prima. Di
un punto luminoso infinitamente lontano, l’occhio astigmatico fornisce
l’immagine di un segmento rettilineo, orientato verticalmente se la retina è
nel fuoco del raggio di minima curvatura, orizzontalmente nell’altro caso.
A proporre l’astigmatismo quale probabile causa della black drop, nel lontano 1922, fu l’astronomo italiano Guido Horn d’Arturo, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Bologna.
L'astronomo
italiano partiva dal presupposto che l’immagine di un corpo celeste di forma
circolare, deformata dall’astigmatismo, appare allungata ai poli se la retina
si trova nel fuoco del raggio di curvatura massima, oppure schiacciata ai poli
se essa è nel fuoco del raggio di curvatura minima.
Durante
i transiti di Mercurio e Venere, quando la silhouette del pianeta è nera
sullo sfondo luminosissimo del Sole, il grado di deformazione provocata
dall’astigmatismo dipende dal rapporto tra le intensità luminose dei due corpi:
a causa del suo enorme splendore, all’occhio astigmatico il Sole apparirà
dilatato, mentre il disco oscuro del pianeta in transito sembrerà contratto.
Vediamo
ora cosa accade, seguendo la teoria astigmatica, intorno alla fase d’emersione
del pianeta dal disco solare. Naturalmente, i fenomeni descritti nel seguito
avverranno, in ordine inverso, durante l’immersione del pianeta.
Innanzitutto,
definiamo la forma del pianeta e del lembo solare, indicando con
l’espressione: limiti reali delle immagini del Sole e del pianeta, le
linee S e V, in figura
9, visti dall’occhio privo di
difetti visivi.
Inoltre,
con S’, V’ i limiti apparenti visti dall’occhio
astigmatico e, infine, con i limiti latenti le segmentate S”, V”.
I
limiti latenti sono quelli che non si vedono finché i due dischi sono distanti
tra loro, sappiamo però che i loro effetti si manifesteranno nel corso del
passaggio.
Nel
processo di graduale avvicinamento dei lembi dei due astri, ad un certo punto,
il limite latente del pianeta s’immergerà nella zona compresa tra il limite
latente e quello reale del Sole (fig. 9).
Ora, la parte di lunula, appartenente al pianeta e penetrata in tale zona, apparirà di un grigio profondo, quasi nero, essendo costituita dalla somma di due parti di scuro e di una sola di chiaro: è proprio in questi momenti che assistiamo all’importantissima formazione del lembo staccato.
Nel
momento in cui il limite latente di Venere V” sarà entrato in contatto
con il limite reale S del Sole, subito si stabilirà un collegamento tra
lo sfondo del cielo, il lembo staccato ed il disco del pianeta, attraverso la
formazione di un piccolo segmento rettilineo. L’apparizione del segmento
determina l’inizio della fase della black drop, anche questa
descrivibile con la teoria dell’astigmatismo.
La
spiegazione è che, siccome ogni punto luminoso produce sulla retina
dell’astigmatico un’immagine rettilinea, così, quando il punto più
avanzato del lembo staccato del pianeta copre un punto del bordo reale del Sole,
nell’occhio dell’osservatore non si formerà l’immagine di un punto scuro,
bensì di una retta di un grigio profondo.
Man mano che un numero sempre maggiore di punti luminosi dei bordi reali dei due astri sarà occultato, aumenterà, di conseguenza, lo spessore del legamento
Poco
prima di essere giunto con il suo centro sul lembo vero del Sole, il pianeta
assumerà la forma della “D” maiuscola, spesso osservata durante i transiti.
Le
aureole vedute con il pianeta in parte emerso si spiegano con l’ipotesi
astigmatica considerando che molte volte il fondo cielo è più chiaro del disco
del pianeta, e ciò accadeva soprattutto quando l’osservatore non aveva la
necessità di impiegare un filtro di attenuazione della luce solare d’elevata
densità.
L’aureola
si formerà quando una lunula più chiara del pianeta, ma più scura del fondo
cielo (lunula compresa tra il suo limite latente e quello apparente), è tale da
dare l’impressione che il disco sia avvolto da un’atmosfera.
La
spiegazione dei numerosi aspetti osservati in prossimità dei contatti, fornita
dalla teoria astigmatica di Horn d’Arturo è indubbiamente suggestiva e
coerente.
Rimangono
però dei dubbi e dei problemi irrisolti. Come si spiega, ad esempio, il fatto
che la black drop appaia anche in moltissime fotografie? E’ possibile
che l’astigmatismo residuo dei telescopi, anche di moderna concezione, sia di
una tale grandezza da produrre i fenomeni registrati da film e sensori digitali?
L’esame
delle due teorie esposte, suggerisce che, vista la complessità e la varietà
dei fenomeni da spiegare, diverse siano le concause che contribuiscono alla loro
formazione. Probabilmente, tutti e tre i fattori considerati, seeing,
diffrazione strumentale ed astigmatismo dell’occhio dell’osservatore,
intervengono, in diversa misura e secondo il tipo di rivelatore impiegato ed
alle condizioni meteorologiche d’osservazione, alla formazione del legamento
oscuro, del lembo staccato, della forma a “D” e delle aureole.
Nell’osservazione
visuale dei transiti, supponendo il telescopio otticamente perfetto, possiamo
affermare che le apparenze osservate sono in gran parte da attribuire
all’astigmatismo dell’astronomo.
E’
d’altra parte certo che il meccanismo di smearing non può spiegare
l’insorgere del lembo staccato o delle aureole, fenomeni riportati, per
secoli, attraverso l’osservazione diretta al telescopio. Lo smearing
sembra però predominante quando sia lo strumento ottico sia il rivelatore, sono
esenti da astigmatismo.
Attendiamo
con impazienza i prossimi transiti di Mercurio e Venere perché, grazie
all’impiego di rivelatori CCD ma anche alle osservazioni visuali ed alla buona
qualità dei moderni telescopi che in gran numero scruteranno i pianeti in
transito, sarà forse possibile raccogliere elementi utili per confermare o
confutare le teorie correnti sulla black drop.
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