© Rodolfo Calanca, 2003 |
STORIA DEI TRANSITI DI VENERE (1631-1882) |
I^ PARTE: LA PARALLASSE SOLARE E I TRANSITI DEL 1631-1639-1761 |
di Rodolfo Calanca |
La
distanza media tra la Terra ed il Sole, comunemente definita Unità Astronomica
(AU), è una delle costanti fondamentali del Sistema Solare: è ad essa che si
rapportano tutte le altre distanze dei corpi planetari, delle comete e degli
asteroidi. L’esatta determinazione di questa distanza ha richiesto uno sforzo
straordinario da parte di generazioni di astronomi, in particolare tra il XVII e
il XIX secolo.
Fin
dall’epoca classica, la determinazione dell’Unità Astronomica discendeva
direttamente da una grandezza angolare fondamentale: la parallasse
orizzontale equatoriale media π” del
Sole.
Nel
1623, Galileo aveva dato una definizione generale della parallasse (parola che
deriva dal greco parállaxis, alterazione, mutazione) in questi termini:
la
parallasse è lo spostamento apparente di un punto rispetto a un altro situato a
diversa distanza dall'osservatore, che si verifica quando l'osservatore si
sposta in direzione perpendicolare alla congiungente i due punti.
In
particolare, per parallasse solare intendiamo l’angolo sotto il quale, dal
centro del Sole, è visto il raggio equatoriale della Terra quando questa si
trova alla distanza media dal Sole.
La possiamo esprimere sotto forma di rapporto tra il raggio equatoriale terrestre R, (6378.140 Km) e la distanza media Terra-Sole, AU (in Km):
π” = 206265" R/AU
Il
valore di π” adottato dall’International Astronomical Union nel
1976, è 8”.794148 ± 0”.000007, al quale corrisponde, in
virtù della relazione di cui sopra: AU = 149 597 870 Km.
Possiamo
anche dare una definizione geometrica dell’AU del tutto equivalente alla
precedente:
essa
è il raggio di un’orbita circolare lungo la quale un corpo di massa
trascurabile e libero da perturbazioni, si muoverebbe intorno al Sole in un anno
gaussiano (la cui durata è di 365d 06h 09m 56s).
L’AU
è lievemente minore della distanza media fra la Terra e il Sole, dalla quale
differisce di soli 34 chilometri.
Ancora nel tardo-medioevo, alla parallasse solare si attribuiva una serie piuttosto discordante di valori, tutti, sistematicamente, troppo elevati: la Terra si trovava al centro di un rassicurante universo in miniatura.
Nonostante
la sua rivoluzionaria teoria eliocentrica, anche Nikolaj Koppernigk non era
andato oltre Tolomeo, per il quale π=180”, e la corrispondente distanza
della Terra dal Sole risultava solamente un ventesimo del reale (appena 7.5
milioni di Km).
Alla
fine del XVII secolo, Halley propose un metodo per determinare la parallasse
solare che faceva uso dell’osservazione dei transiti di Venere (metodo di
Halley).
L’idea
di Halley fu ritenuta valida fino alla fine dell’Ottocento, quando fu
soppiantata da altri metodi astronomici più accurati.
La
ricca e complessa storia delle osservazioni dei transiti di Venere, che ci
accingiamo a narrare, è uno dei capitoli più affascinanti dell’astronomia
degli ultimi quattro secoli.
Se l’orbita di Venere
fosse complanare a quella della Terra, allora i transiti si ripeterebbero ogni
584 giorni, ogni volta cioè che Venere passa tra il Sole e la Terra. Ma
l’orbita di Venere è inclinata sul piano orbitale terrestre di circa 3°.5.
Affinché durante una congiunzione inferiore il pianeta transiti sul disco solare,
è necessario che la sua latitudine celeste sia piccola, in altre parole, esso
si deve trovare molto vicino ad uno dei nodi della sua orbita.
In particolare, affinché
accada un transito, Venere, visto dalla Terra, non deve distare più di 4°.7
in longitudine da uno dei suoi nodi (fig. 1). Questo è un angolo limite
che corrisponde ad un passaggio radente del pianeta sul Sole, come quello
verificatosi il 7 dicembre 1631.
La linea dei nodi di
Venere, individuata dall’intersezione del piano della sua orbita con
l’eclittica, è soggetta ad uno spostamento assai lento nello spazio e, nel
corso della sua rivoluzione annuale, la Terra la interseca due volte in date
pressoché fisse (variando di un giorno, in aumento, ogni 110 anni circa). Nella
nostra epoca, questi due giorni sono l’8 dicembre, al nodo ascendente, e il 6
giugno per il discendente: è intorno a queste due date che si producono i
transiti.
Un pianeta
interno, nella sua congiunzione inferiore, è sempre in
moto retrogrado, pertanto esso si sposterà da est verso ovest rispetto al Sole
e, alle latitudini boreali, il transito avverrà sempre da
sinistra a destra.
Se Venere non si trova
esattamente ad un nodo al momento del passaggio, la sua traiettoria apparente non sarà un
diametro del disco solare, ma una corda, tanto più corta quanto
più il pianeta è angolarmente lontano dal suo nodo.
Nel periodo compreso tra il 3000 a.C. ed il 3000 d.C., sono stati previsti 82 passaggi, dei quali tre esattamente centrali: il 17 novembre 2970 a.C., il 22 maggio 183 a.C. e il 22 novembre 424 d.C., e tre radenti.
Il più lungo, quello del 424 d.C., ebbe una
durata di ben 8h 20m 16s.
Di
questi, 45 sono al nodo discendente e 37
all’ascendente.
Per studiare la periodicità dei transiti di Venere, poniamo, in prima approssimazione, che le orbite del pianeta e della Terra siano circolari.
Si supponga poi che il tempo impiegato da
Venere a passare ai due nodi della sua orbita sia uguale a metà del periodo
siderale e, infine, che la posizione dei nodi sia invariabile.
Basandoci su queste
premesse, supponiamo che ad un certo istante iniziale, la Terra, Venere e il
Sole siano tutti e tre perfettamente allineati e che Venere si trovi esattamente
al nodo ascendente (in altre parole, che si verifichi un transito
centrale), allora l’allineamento si ripeterà quando i due pianeti avranno
entrambi completato un numero intero di orbite N1 (Venere) e N2
(Terra), secondo la relazione:
224.701
N1 = 365.25636 N2
dove 224.701 e 365.25636
sono, rispettivamente, i periodi siderali, in giorni terrestri, di Venere e
della Terra. Si noti che la precedente espressione non è commensurabile, e
quindi non potrà mai essere rigorosamente verificata.
L’allineamento tra
Terra, Venere e Sole può verificarsi anche al nodo discendente
dell’orbita venusiana e si ripeterà per un numero intero di orbite N1
e N2 di Venere e della Terra, più una mezza orbita.
L’espressione equivalente è allora:
224.701
(N1+0.5) = 365.25636 (N2+0.5)
Dalle due relazioni
avremo quindi le seguenti coppie di periodi siderali quasi
commensurabili:
N1 = 13, che
corrispondono a N2 = 8 anni siderali – 0.94 giorni
N1 = 395, che
corrispondono a N2 = 243 anni siderali – 0.48 giorni
N1 = 777, che
corrispondono a N2 = 478 anni siderali – 0.02 giorni
Deduciamo quindi che i
transiti si ripeteranno secondo lo schema:
N2
->
8, 121.5, 8, 105.5, ... anni
Il periodo di 243 anni,
che si ricava dalla somma 121.5+8+105.5+8, che separa, ad esempio, i transiti
del 1631 e 1874, è chiamato anche saros venusiano, a causa della sua
analogia con il saros lunare che governa le eclissi. Un saros venusiano contiene
2 stagioni, dunque un minimo di 2 passaggi e al massimo 4, raggruppati a coppie
(fig. 2).
Durante il transito si
individuano quattro istanti particolari, quelli dei contatti, durante i
quali il lembo del pianeta è tangente al disco solare.
I contatti esterni (in fig.
3 sono indicati con le cifre romane I e IV) sono difficili da determinare
con precisione perché il pianeta non è quasi mai visibile. Sono quindi i
contatti interni, II e III, che interessano maggiormente gli astronomi.
Fino
alla metà del Seicento, le dimensioni apparenti dei pianeti erano enormemente
sovrastimate. Si attribuiva a Mercurio un diametro di 3’, anziché i 10” che
ha in congiunzione inferiore, mentre Venere, per astronomi come Tycho Brahe,
misurava addirittura 12’ (il 40% della Luna piena!) e per Kepler, invece,
7’, ancora sette volte il vero.
Queste
stime sbagliate, che riguardavano anche le dimensioni apparenti delle stelle più
luminose, alimentarono la convinzione che fosse realmente possibile percepire
Mercurio o Venere proiettati sul Sole e ci fu chi asserì di aver osservato un
transito di Mercurio ad occhio nudo. Oggi sappiamo che questo è impossibile
perché il diametro apparente del pianeta è al di sotto del potere risolutivo
dell’occhio umano, che è di appena 1’. Correttamente, sia il grande
studioso arabo del IX secolo, Al-Battani, sia Copernico 500 anni dopo, ritennero
errate le testimonianze di queste presunte osservazioni, tra le quali ricordiamo
quelle del benedettino Adelmo, vissuto durante il regno di Carlo Magno, del
filosofo arabo-spagnolo Averroè.
Ma
sbagliata era anche quella, di diversi secoli dopo, eseguita da Kepler.
Quest’ultimo aveva calcolato che il 28 maggio del 1607, Mercurio, in congiunzione inferiore, sarebbe passato esattamente sul disco solare.
Quel giorno, Kepler vide una
macchia nera sul Sole che scambiò per Mercurio in transito. Pubblicò
l’osservazione, dandole gran risalto ma, dieci anni dopo, ammise candidamente
l’errore, e riconobbe che si era invece trattato di una grande macchia solare.
La
prima corretta previsione di un transito si deve allo stesso Kepler che, nel 1629,
pubblicò l’Admonitio ad astronomos
(Avviso per gli astronomi), nel quale, in poche ma importanti pagine, annunciava
due passaggi sul Sole: il primo di Mercurio l’altro di Venere, rispettivamente
il 7 novembre ed il 6 dicembre 1631, ed esortava gli astronomi
all’osservazione di questi importanti fenomeni.
Uno dei pochi studiosi ad
accogliere l’invito di Kepler fu il francese Pierre Gassendi, un anti-aristotelico
convinto, amico di alcuni dei massimi ingegni del tempo, da Mersenne a Galileo a
Tommaso Campanella.
Agli inizi di novembre
del 1631, Gassendi, nella sua abitazione di Parigi, si preparava all’osservazione del transito di Mercurio.
Con ancora qualche dubbio
sulla precisione della predizione di Kepler, si mise ansiosamente ad
esplorare il disco solare alla ricerca di Mercurio già il 5 novembre, due
giorni prima della data prevista. Il cielo però rimase a lungo coperto da
spesse nubi.
Il Sole fece capolino
solamente nelle prime ore del mattino del 7 novembre, ancora tra nuvole minacciose gonfie di
pioggia. Alle 9 il suo disco gli apparve totalmente privo di particolari interessanti, a
parte una piccolissima macchia nera che, in un primo tempo, l’astronomo ritenne
essere una macchia solare, una di quelle misteriose strutture che spesso ne
costellano la superficie. Poi si accorse, con stupore e meraviglia, che
quell’insignificante punto sul Sole, di soli 20”, era in
realtà Mercurio.
Gassendi eseguì quattro
misure di posizione del pianeta rispetto al centro del Sole e all’eclittica
che cercò di riportare con cura in un disegno (fig.
4).
Galvanizzato dal successo
dell'osservazione del passaggio di Mercurio, Gassendi, un mese dopo, si
apprestava ad osservare un nuovo transito, questa volta di Venere.
Kepler aveva determinato
l'istante della congiunzione in longitudine del Sole e di Venere per le 9h
6m pomeridiane del 6 dicembre: Gassendi si augurava fervidamente che
il transito si svolgesse invece sotto i suoi occhi durante le ore diurne.
Alle prime luci
dell’alba, un velo di nebbia copriva il Sole ma, finalmente, alle 8 a.m., la
luminosa immagine dell’astro si stagliò netta sul foglio di carta posto
dietro il telescopio.
Venere però non compariva.
Stoicamente, rimase in
osservazione fino al tramonto: l'unico particolare visibile era una macchia
solare doppia che, memore della passata esperienza con Mercurio, Gassendi si
affrettò a controllare con estrema attenzione.
La snervante ricerca
continuò, senza successo, anche nelle giornate del 7 e dell’8 dicembre.
Oggi sappiamo che si
trattò di un transito radente non visibile da Parigi perché ebbe inizio alle 3h
57m UT del 7 dicembre, con il Sole sotto l'orizzonte di ben 34°.
La storia della prima
osservazione di un transito di Venere è narrata da Jeremiah Horrocks, un
giovanissimo studioso inglese di astronomia, in uno scritto pubblicato postumo
da Johannes Hevelius vent’anni dopo i fatti: Venus
in Sole visa (Venere osservato sul
Sole).
Horrocks intratteneva
una fitta corrispondenza scientifica con un altro appassionato di astronomia, un
commerciante di tessuti, William Crabtree che viveva a Salford, nei pressi di
Manchester.
Dal giugno 1639 fino
all'aprile 1640 Horrocks visse nella chiesa del villaggio di Hoole a 15 miglia
da Liverpool, non sappiamo bene con quali incarichi, data la giovanissima età
(nel 1639 aveva solo vent'anni).
Gli interessi di questo geniale giovane presto si orientarono allo studio delle tavole astronomiche e alla compilazione di effemeridi planetarie. Mentre diligentemente compilava le posizioni di Venere per gli ultimi mesi del 1639 scoprì che Venere sarebbe transitato sul Sole il 4 dicembre.
Quel giorno, probabilmente impegnato nelle funzioni religiose domenicali presso la chiesa di Hoole, Horrocks non si recò nella camera oscura che alle 3 pomeridiane, con il Sole ormai prossimo al tramonto.
Già
dalla prima occhiata capì che il meraviglioso spettacolo di Venere sul Sole si
stava svolgendo come previsto. Rapito, seguì il fenomeno per
la seguente mezz’ora che precedeva il tramonto, determinando anche il diametro
apparente del pianeta in 1’10”.
Crabtree fu meno
fortunato. Sopra Salford, infatti, le nuvole si dissiparono verso le 3h
30m p.m., appena il tempo sufficiente per scorgere Venere sul
Sole.
Horrocks, con il diametro angolare di Venere rilevato durante il transito, stimò la parallasse solare in 14".
Pochi mesi dopo, il giovane astronomo morì
improvvisamente a soli 22 anni, forse di una fulminea malattia epidemica. Bailly, famoso
storico francese dell’astronomia, scrisse che egli aveva attraversato come una
meteora la vita terrena, e che sembrava essere apparso sulla terra solamente
per vedere il passaggio di Venere.
Nel
1677, il grande astronomo inglese Edmond Halley, allora poco più che ventenne,
su invito del matematico scozzese James Gregory, si recò all’isola di S.
Elena, nell’Oceano Atlantico, per seguire un transito di Mercurio. Ne ricavò
un valore della parallasse solare di 45”. Consapevole del grave errore del
quale era affetta la sua determinazione, Halley si convinse che l’osservazione
di un transito di Venere avrebbe fornito un valore della parallasse assai più accurato.
Nel 1691 egli pubblicò
sulle Philosophical
Transactions
della Royal Society un’importante dissertazione sulle congiunzioni con
il Sole dei pianeti interni, che comprendeva un elenco di 29 transiti di
Mercurio, nel periodo 1615-1789, e 17 di Venere tra il 918 e il 2004, ritornando
ancora sull'argomento molti anni dopo, nel 1716, con un nuovo lavoro che
illustrava il suo metodo per la parallasse solare (vedi: metodo
di Halley).
Egli riteneva che non fosse necessario conoscere con grande esattezza le coordinate geografiche del luogo d'osservazione ma solamente il tempo locale. Dai tempi di ingresso e di uscita sul disco solare, diceva, si potrà determinare sia la durata del transito sia l’esatta lunghezza della traiettoria del pianeta.
Se poi gli osservatori saranno almeno due, posti in località tra loro molto lontane, essi vedranno Venere descrivere due diverse traiettorie sul Sole e, attraverso la separazione delle due corde, si sarebbe potuto calcolare il cercato spostamento parallattico con l’accuratezza di una parte su 500.
Infine, egli si appellava alle generazioni future affinché seguissero i
prossimi transiti di Venere perché le immensità delle sfere celesti,
circoscritte nei limiti più precisi, possano alla fine procurare loro la gloria
e una fama eterna.
Quando finalmente arrivò
il tanto atteso transito del 1761, Halley era morto da quasi vent’anni.
In
Francia e in Inghilterra, da altrettanto tempo, si discettava sull’effettiva
lunghezza della corda che Venere avrebbe percorso sul disco solare e i molti
matematici impegnati nel fissare le fasi del passaggio, diedero soluzioni spesso
contrastanti.
Il
problema non era di poco conto poiché, secondo le tavole planetarie aggiornate
da Halley, ad esempio, il passaggio
del 1769 non sarebbe stato visibile a Parigi, mentre le tavole di Jacques Cassini
ne
prevedevano la visibilità poco prima del tramonto del Sole.
Tra
le cause che rendevano imprecise le predizioni di questi fenomeni ricordiamo che
era mal conosciuto il moto retrogrado annuo di Venere, dal
quale dipendeva gran parte dell’errore di Halley nella previsione del transito
del 1761. Quest’errore era stato scoperto da Delisle nel 1760 e ampiamente
pubblicizzato dalle gazzette parigine che colsero l’occasione, in piena guerra
dei Sette Anni, per propagandare una supposta superiorità della scienza
francese rispetto a
quella britannica.
Delisle,
Nel 1753, escogitò un bel metodo grafico per raffigurare su di un mappamondo,
in modo intuitivo, le principali fasi dei transiti di Mercurio e Venere, senza
far ricorso a complessi calcoli matematici.
Contemporaneamente, egli propose un nuovo metodo per determinare la parallasse solare in alternativa a quello di Halley: questo metodo consiste nel servirsi delle osservazioni dell’entrata o dell’uscita, tra luoghi della Terra dove una di queste due fasi del transito arriverà con la massima differenza possibile dei tempi. Avevo trovato che nel passaggio di Mercurio [del 1753] la più grande differenza tra i tempi dell’osservazione dell’entrata o dell’uscita non era che 4 o 5 minuti; ma si vide che si doveva avere più di 16 minuti di differenza tra i luoghi che avrebbero visto per primi l’uscita di Venere al tramonto del Sole e quelli che avrebbero assisto per primi all’uscita di Venere al nascere dell’astro.
Nelle
principali nazioni europee furono organizzate alcune importanti spedizioni
scientifiche per l'osservazione del transito.
L’accademia
di Parigi ne promosse due: all’isola di Rodrigue, una colonia
nell’Oceano Indiano (arcipelago delle Mascarene), l’altra a Pondicherry in
India.
Un
altro accademico francese, su invito dell’Accademia di S. Pietroburgo, si recò
in Siberia, dove il transito sarebbe stato interamente visibile.
I
tre personaggi erano: l’ormai cinquantenne canonico Alexandre-Gui
Pingré, abilissimo calcolatore di effemeridi ed esperto di comete, il più
giovane abate Jean Chappe
d'Auteroche, geografo ed abile osservatore e, infine, l’astronomo
dell’Observatoire, che rispondeva all’impegnativo nome di
Guillaume-Joseph-Hyacinthe-Jean-Baptiste le Gentil de la Galaisière.
In
Siberia si recò l’abate Chappe, mentre Pingré ricevette l’incarico di
recarsi all’isola di Rodrigue.
A
Pondicherry, in India, fu invece destinato le Gentil de la Galaisière, che partì nel
1759.
La
Royal Society inglese, in un primo tempo, pensò di organizzare una spedizione
alla Baia di Hudson nell’America Settentrionale, località consigliata da
Halley nella sua memoria del 1716, fino ad allora ritenuto uno dei siti più favorevoli
all’osservazione del transito. I piani inglesi cambiarono quando dovettero
incassare il brutto colpo costituito dall’errore di Halley, corretto da
Delisle, che dimostrava la scarsa utilità della spedizione.
Su
pressione dell’astronomo reale James Bradley, la Royal Society inviò
allora all’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico, Nevil Maskelyne,
mentre Charles Mason e Jeremiah Dixon furono destinati all’isola di Sumatra.
La
meta dell’abate Chappe era Tobolsk, capitale siberiana 400 chilometri a Est
degli Urali. Arrivare però, durante l’inverno, in un posto simile, a quasi
6000 chilometri da Parigi, richiedeva un coraggio non comune. Alla fine di
novembre del 1760 Chappe partì dalla capitale francese.
Portava con sé, oltre ad un vasto assortimento di strumenti, il suo
servitore personale e un orologiaio di fiducia. Dopo un viaggio molto
avventuroso, finalmente, il 10 aprile dell’anno successivo arrivò a Tobolsk.
La
notte che precedette il transito fu nuvolosa e fredda, Chappe, rintanato nel suo
osservatorio, guardava con apprensione il rincorrersi incessante delle nuvole.
Il
Sole apparve quando già il primo contatto esterno era avvenuto e, quando il
pianeta non era ancora completamente entrato sul Sole, vide una piccola
atmosfera in forma d’anello attorno al disco (si
veda disegno dell'anello visto da Chappe).
Intanto che Chappe era
alle prese con i rigori dell’inverno siberiano, Pingré si dirigeva verso un
luogo dal clima torrido, la sperduta isoletta di Rodrigue, in pieno Oceano
Indiano.
Non tutti,
all’Accademia di Parigi, ritenevano che questa piccola isola si sarebbe
trovata nell'area di totalità del transito. E a ragione: a Rodrigue, il primo contatto
esterno avvenne prima del sorgere del Sole e quello interno a soli 2° sopra
l’orizzonte.
Pingré
giunse sull’isola
il 26 maggio, ed il suo il primo pensiero fu di
alloggiare in un osservatorio di fortuna la strumentazione che aveva portato
dalla Francia.
Il 6 giugno il cielo si
presentò coperto e, a tratti, piovoso. Il Sole apparve quando Venere era già
immerso nel disco solare, ed egli ebbe l’impressione che il pianeta non si
presentasse perfettamente rotondo, ma le grosse nuvole che avvolgevano l’astro
non gli permisero di accertarsene con maggior sicurezza.
Alle 12h 36m
di tempo vero, Pingré colse l’istante dell’emersione totale del pianeta.
Nei giorni successivi, mentre il canonico era affaccendato in altre osservazioni astronomiche, una nave da guerra inglese si presentò, minacciosamente, davanti al porto dell’isola. Un breve bombardamento permise agli inglesi di catturare il piccolo vascello che attendeva la conclusione dei lavori dell'astronomo.
Pingrè, nonostante le
vivaci proteste, si vide sottrarre la nave e fu costretto ad attendere sull'isola l'arrivo di un altro veliero per poter far ritorno in patria, dove giunse il 24
maggio dopo 18 mesi e sette giorni di assenza.
Come abbiamo già
anticipato, il terzo astronomo
francese in viaggio era le Gentil de la
Galaisière, assistente di Cassini III all’Observatoire parigino.
Giunto all’Isle de
France il 10 luglio 1760, apprese che in India la guerra contro gli inglesi era
combattuta senza esclusione di colpi da entrambe le parti.
Dopo aver tentennato a
lungo per il timore di trovarsi coinvolto in un qualche cruento combattimento navale,
si imbarcò su di un vascello che, dopo uno scalo all’isola di Bourbon, avrebbe
tentato di sbarcare a Pondicherry. Ma la colonia francese era ormai stata conquistata
dagli inglesi e la sua nave dovette quindi ritornare, di gran fretta, al porto di partenza.
Il giorno del transito,
Legentil era in pieno oceano. Tentando, con scarso successo, di scorgere Venere sul Sole
dalla tolda traballante della nave, decidendo poi, caparbiamente, di rimanere
nei mari del sud fino al successivo transito del 1769.
A Città del Capo,
invece, Mason e Dixon fecero una delle più accurate osservazioni del fenomeno,
mentre, all’isola di St. Helena, la sorte non fu benigna con Nevil Maskelyne
che, a causa delle pessime condizioni meteorologiche poté osservare il transito
per soli dieci minuti.
Tra
le numerose
osservazioni parziali eseguite in Europa ne ricordiamo solo alcune.
A
Parigi, Josephe-Jerome
de Lalande, una degli astronomi più prestigiosi coinvolti nei transiti
di quegli anni, fece la sua osservazione dal palazzo del Luxembourg servendosi
di un eliometro composto da due vetri di 18 piedi di fuoco, con il quale
eseguì numerose misure di distanza tra i bordi del Sole e di Venere. Durante il
contatto interno vide la black drop.
In
Inghilterra, al Royal Observatory di Greenwich, l’astronomo reale
Nathaniel Bliss ed il suo assistente Charles Green attendevano l'alba. Il cielo
si presentò però nuvoloso, riuscendo comunque a rilevare il tempo
dell’emersione di Venere e a prendere qualche misura del diametro del pianeta
e del Sole.
In
Italia, il transito fu seguito con attenzione dagli astronomi di Roma, Firenze e
Bologna.
A
Roma, troviamo impegnato nell'osservazione Giovanni Battista Audiffredi, un padre domenicano bibliotecario
alla Casanatense che aveva un piccolo osservatorio nel convento di S. Maria
sopra Minerva. A Firenze operò il padre Leonardo Ximenes, direttore
dell’osservatorio di S. Giovanni Evangelista.
Infine,
a
Bologna, Eustachio Zanotti, dell’Istituto delle Scienze, osservò il transito
insieme ad alcuni collaboratori e colleghi, tra i quali spiccava il padre Paolo
Frisi, grande fisico e matematico. Le osservazioni bolognesi furono poi aspramente
criticate da Pingré per la loro presunta imprecisione.
Le
osservazioni del passaggio di Venere furono esaminate e commentate da astronomi di diverse nazioni.
Rilevante
il contributo di Pingré che, in più occasioni, negli anni successivi, le
esaminò e le discusse.
Da
convinto sostenitore del metodo di Halley, non mancò però di mettere in
evidenza il fatto che le località scelte per le spedizioni erano state troppo
sfavorevolmente situate, perché si potesse ricavarne delle conseguenze
assolutamente decisive. La sua analisi dei dati indicava che la parallasse
solare era compresa nell’intervallo 9”.5÷11”.
L’inglese
Short si era invece avvicinato molto di più al valore vero della parallasse,
8”.6, anche se il modo, spesso arbitrario, con il quale aveva ottenuto
questo risultato fu contestato da Pingré.
Per
Lalande la parallasse, con il metodo di Halley, doveva essere prossima a 9.5”,
lo stesso valore trovato un secolo prima da Giovan Domenico Cassini.
Questo
giocare su differenze di pochi secondi d’arco non era una semplice fisima di
astronomi pedanti. La teoria gravitazionale di Newton mostrava in modo
inequivocabile che piccole variazioni della parallasse solare modificavano in
modo consistente non solo le distanze planetarie, ma anche le dimensioni, le
masse e le densità di ogni singolo pianeta.
Il
fenomeno che impressionò maggiormente gli astronomi fu l'apparizione della misteriosa black
drop o, come la chiamavano i francesi, la goutte noire. Osservata
durante il contatto interno da numerosi astronomi, venne descritta come un
legamento che univa i bordi di Venere e del Sole.
FINE DELLA I^ PARTE
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