Chiesa ed ex-monastero della SS. Trinità

(già dei PP. Celestini)

a cura di Vincenzo Russi

 

            Fu Pietro da Morrone (Papa Celestino V) che nel sec. XIII fondò l’ Ordine dei Celestini in Italia, espressione d’osservanza più stretta dell’Ordine monastico Benedettino, difatti, asceso al soglio pontificio il 5/7/1294 istituì l’ordine sulla precipua osservanza dei dettami evangelici e su un totale isolamento dalla realtà circostante.

            Solo dopo il Concilio di Trento (1545-63), l’Ordine subì una evoluzione tale per cui i gruppi monastici iniziarono ad abbandonare gli antichi monasteri, isolati e stanziati nelle diffuse campagne, per trasferirsi nei centri urbani. In Capitanata i Celestini erano presenti, tra le altre località, a Vieste, Lucera, Montesantangelo e San Severo, dove, verso la fine del sec. XV i monaci Celestini di S. Giovanni in Piano[1], per le angherie subite dalla nobiltà locale e per timore di incursioni turche, furono costretti a trasferirsi, occupando gli edifici “in mezzo la piazza...accanto al Seggio dei Patrizi”[2] . Si stabilirono in strutture esistenti di loro proprietà, consistenti in un ospizio ed una chiesa intitolata alla SS. Trinità, mentre nel 1375 vi costruirono, ampliando il complesso esistente, un vero e proprio monastero (come in linee generali è descritto nel Cartolario di Santo Spirito di Sulmona. Nel passaggio dei monaci celestiniani a San Severo, il padre superiore conservò il titolo di Priore di S. Giovanni in piano  unitamente al nuovo titolo di Priore della SS. Trinità , tenuto sino al 1614 quando, papa Paolo V concesse ai monasteri celestiniani la reggenza non più da Priori ma da Abati; il titolo di Abate di S. Giovanni in piano passò dunque “honoris causa” all’Abate di S. Spirito di Sulmona. Nel tempo il monastero è da presumere che acquisì nuovi ampliamenti, se nella cronaca sul terremoto del 1627 di Lucchino sono citati la presenza di più dormitori ed altri locali, tanto che, come afferma lo stesso cronista[3] , il monastero risulti tra i più belli presenti nella città. Il drammatico evento sismico, produsse ingenti danni al complesso monastico: rovinarono i dormitori, il campanile e l’area presbiteriale dellla chiesa, presumendo quindi che ben poca cosa restò ancora in piedi. Difatti i lavori di ricostruzione durarono per tutto il secolo ed oltre con l’avvicendarsi di Abati, tra i quali l’Abate Gregorio Vasquez De Acugna al quale si deve il risanamento delle finanze con la corretta amministrazione delle rendite derivanti da possedimenti abbaziali, l’Abate Giuseppe Maria Turco di cui parleremo più avanti, figura energica al quale si deve la ricostruzione del complesso monasteriale, la decorazione degli interni e non ultimo, l’ampliamento dello stesso complesso sino a comprendere lussuosi appartamenti e vani di rappresentanza. Solo nel 1707 la chiesa venne riaperta al culto, mentre la consacrazione avvenne nel giugno del 1756 ad opera dell’Abate Saverio Palica del reale monastero celestino di S. Bartolomeo di Lucera. La chiesa della SS. Trinità ed il complesso monasteriale (oggi Palazzo Comunale) risorsero dalle rovine nelle forme visibili attualmente, impostata quasi sullo stesso perimetro della più vecchia struttura, anche se, a onor del vero, le successive destinazioni d’uso[4], ampliamenti e ristrutturazioni eseguite tra l’ Otto e Novecento non ci danno spazio per una ricostruzione esatta dell’antica fabbrica monasteriale. Tentando una ipotesi potremmo rilevare che l’odierno complesso sia stato costruito in tre successivi tempi: un primo corrispondente all’area circostante il nucleo occupato dalla più antica chiesa della Trinità interamente ricostruita di cui resta visibile ancora il chiostro; un secondo inerente al periodo di ricostruzione dopo il terremoto del 1627 in cui venne parzialmente ricostruita  la chiesa, prolungato il lato su via dei Quaranta (occupata attualmente dalla sede dei Vigili Urbani), lavori di trasformazione del cortile che diventa atrio di accesso; un terzo inerente il prolungamento su via Angelo Fraccacreta con la dotazione di un grande portale d’ingresso, uno scalone nobile, un atrio ed un androne.   

            La chiesa si presenta con linee piuttosto sobrie, equilibrata, in rispondenza non solo alle esigenze dell’Ordine celestiniano ma anche alle prescrizioni tridentine sull’architettura di culto, difatti ricordiamo che uno dei fautori della normativa controriformistica fu il cardinale Vincenzo Maria Orsini di Gravina che contribuì non poco alla diffusione della trattatistica sull’architettura religiosa, “regole” composte essenzialmente sulle Instructiones di San Carlo Borromeo[5] . Grande, difatti, fu il suo impegno quando, arcivescovo della diocesi di Manfredonia (1675-80), officiava nelle pratiche di sante visite, consacrazioni di chiese e di altari, attività ricordata con una lapide a San Severo, insieme al vescovo Orazio Fortunato, suo seguace, ivi apposta in occasione della riconsacrazione della ricostruita Chiesa della Trinità nel 1674.

            Il prospetto principale risulta quindi strettamente aderente alla normativa carlina: caratterizzata da una partitura simmetrica rispetto all’asse principale, da una sovrapposizione di tre livelli tripartiti da lesene impostati su un alto basamento (1,30 mt.), una rampa d’accesso in pietra di Apricena (in origine a doppia rampa) ed un semplice fastigio di coronamento di chiara derivazione della regola, mentre di particolare rilevanza è il portale d’ingresso che interrompe la cornice d’imposta delle lesene. Inoltre subito al di sopra dell’architrave, si nota l’ovale in cui si inserisce la figura della Madonna col Bambino, iconografia riferibile al culto mariano[6]  diffusissimo nell’Italia del Sud, mentre nelle nicchie sono disposte le figure alte 1,70 mt. dei santi titolari dell’Ordine celestiniano e benedettino (nelle nicchie inferiori S. Benedetto con il libro delle “regole” e la mitra abaziale, S. Celestino in abiti pontificali, tiara e croce pastorale, nelle nicchie superiori le suore S. Scolastica, sorella di S. Benedetto e S. Gertrude mistica benedettina). Sul lato sinistro v’é il campanile che sembra non ricevere nessun riferimento compositivo (allineamenti con le cornici, equilibrio con le masse costruite) con l’aderente fabbrica se non nel fastigio superiore. Il corpo venne ricostruito in due tempi successivi dopo il fatidico evento del 1627: il primo sino al piano sottostante il vano delle campane (1719), ed il secondo a conclusione della fabbrica (1720), date rispettivamente incise sulla cortina esterna sotto le cornici aggettanti. L’accesso al campanile è situato nella prima cappella a sinistra della Chiesa.

            I lavori di ricostruzione, di restauro nonché di manomissione che nel tempo si sono sovrapposti, ci restituiscono una chiesa a pianta rettangolare (32,00 mt. x 12,00 mt. circa), coperta a botte con cupola impostata su pennacchi, finemente ripartita in riquadri a stucco. All’ingresso troviamo le delicate forme delle acquasantiere recanti lo stemma che i PP. Celestini avevano nel monastero di S. Giovanni in piano, raffiguranti l’agnello (simb. di Cristo) accovacciato su di un libro (simb. le SS. Scritture), il palio (simb. del Cristo vittorioso sulla morte), il mitra abaziale e i pani[7]. Lo stemma ricorda non meno, il recuperato feudo di S. Giovanni in piano da parte di G. M. Turco che successivamente trasformò in azienda agricola[8] .  Di particolare interesse sono altresì l’altare maggiore riconsacrato nel 1756, quasi completamente rifatto durante il secolo scorso e malamente riadattato in tempi più recenti, il tabernacolo[9]  (sec. XVII) di squisita fattura artistica d’area napoletana, mostrata dalle leggere linee rocaille, dalle pregiate pietre e lapislazzuli, la balaustra marmorea, le mensole in area presbiteriale (sec. XVIII) recanti lo stemma dell’Ordine Celestino (una croce ed una S =salvatore ad essa intrecciata) e la cripta, munita lungo le pareti di nove sedili con braccioli che, secondo l’usanza di tempi non recenti, servivano per lo “scolo” dei corpi prima dell’inumazione nell’ossario comune. Stessa qualità artistica del tabernacolo è riscontrabile nel cenotafio dell’Abate G. M. Turco realizzato probabilmente dopo il 1776, anno della sua morte, caratterizzato da un’ interessante scultura a mezzo busto, con al centro lo stemma dell’abate ed una lapide[10]  in cui si ricorda l’operosità a favore di strutture celestine.

            Di pregevole fattura ed importanza è la statua dell’Ecce Homo  opera di Gregorio Palmieri del 1790 e malamente restaurata dal Raffaele D’Amico, “restauratore” di San Severo, i dipinti collocati in area presbiteriale e lungo la navata, tra cui ricordiamo il S. Girolalamo penitente (1711) e la Maddalena (1711) eseguite da Girolamo Cenatiempo[11] , S. Pietro Celestino a colloquio con la Vergine (1709) e la Deposizione (1709) opere di Giuseppe Castellano, S. Benedetto (1708) ed il S. Pietro da Morrone ed il Papa Urbano IV (1708) di D. Gennaro De Vivo, la Madonna del Rosario (1853) del pittore sanseverese Angelo Russi, e la SS. Trinità anonimo solimenesco[12]  databile al 1705.      

            Nel 1985 la Soprintendenza ai BB.AA. della Regione Puglia, dichiara la facciata ed il campanile della Chiesa della SS. Trinità, monumenti di importante interesse storico-artistico.

 



[1]  - Si tratta di un piccolo monastero costruito in agro masserizio chiamato appunto “S. Giovanni in piano”, sito a circa 6 km ad Ovest di Apricena e a 1 km a Sud verso Poggio Imperiale.

[2] Bonsante, Mariella Basile, “Per una storia dell’arte a San Severo”, in Studi per una storia di San Severo di Benito Mundi, Tip. Sales, San Severo, 1989, voll. II, pag. 438, nota 2. “Monasterium cum ecclesia et suis pertinentiis situm et positum atque fundatum in platea pubblica, dicte terre sancti severi, cum dormitorio, curtilio, et ceteris edificijs circa circum dictum monasterium...”

[3] Nota manoscritta di A. Lucchino, pubblicata da N. Checchia nell’edizione della cronaca Del Terremoto etc. pag. 95, n. 25 “il quale per bellezza di Chiesa, Tribuna, di Claustri, di Corsie, di Stanze, di Cortile e di ogni altra comodità, si può paragonare ad ogni altro di qualunque gran città, ch’è ricco di entrate avendo da duemila ducati l’anno”.

[4]  Dal decreto del 13 febbraio 1806, emanato dal re di Napoli Giuseppe Buonaparte,  si apprende che il monastero veniva soppresso. Un successivo decreto di Gioacchino Murat del 28 aprile 1813, destinava il complesso ad usi pubblici e come sede della Sottintendenza trasferitasi da Manfredonia a San Severo. Solo qualche anno dopo divenne proprietà del comune a scopo d’uso pubblico e nel contempo iniziarono lavori perpetrati per tutto il secolo inerenti soprattutto restauri delle coperture, lavori di risistemazione interni, etc. (Per ulteriori approfondimenti si veda Bonsante, Mariella Basile, “Per una storia dell’arte a San Severo”, in Studi per una storia di San Severo di Benito Mundi, Tip. Sales, San Severo, 1989, voll. II, pag. 441 e segg.)

[5]  In merito alla trattatistica sull’architettura sacra, chi si occupò di tale tema fu Pompeo Sarnelli a Manfredonia, al seguito degli Orsini con il testo l’Antica Basilicografia pubblicato a napoli nel 1686, lo stesso Marcello Cavalieri sempre al seguito degli Orsini pubblicò a Napoli nel 1688 Il Rettore Ecclesiastico istruito sulle regole della fabrica e delle suppellettili delle Chiese, della loro pulitezza e della riverenza e cautela con che debbono trattarsi e custodirsi, per comandamento dell’Em.mo Sig. Card. Orsini Arcivescovo di Benevento  che risulta in gran parte una traduzione delle Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae di San Carlo Borromeo pubblicate a Milano nel 1577. Singolare il riferimento contenuto nel primo testo inerente al modo dei primi cristiani di “...orare rivolti ad oriente...” ricavato da Tertulliano.

[6] M. Rosa, Religione e società nel Mezzoggiorno tra Cinque e Seicento, Bari, 1976, pagg. 217-244.

Ricordiamo che il culto mariano fu diffuso in particolar  modo dagli agostiniani, difatti l’effige della Madonna del Soccorso che essi portarono dalla Sicilia, veniva condotta lungo le vie cittadine in processioni sempre più fastose, in occasione di epidemie, etc. Oltre che la Cattedrale, molte altre chiese a San Severo sono state dedicate alla Vergine (S. Maria della Libera, S. Maria dell’Uliveto, S. Maria degli Angioli, etc.), in merito ai non  pochi eventi miracolistici e di leggendarie apparizioni, come ad esempio il miracolo legato alla figura della SS. Vergine della Pietà di cui parleremo nel rispettivo paragrafo.

[7] Secondo la leggenda un anonimo eremita del Gargano offrì al conte di Lesina, Petrone o Petronio, perdutosi nei boschi e in preda alla fame, dei pani. Questi, riconoscente, avrebbe poi fondato nel 1050 nei suoi feudi un monastero ed una chiesa dedicata a S. Giovanni Battista affidando il complesso ai PP. Benedettini. I pani ricordano quindi le origini del monastero come si evince dalla stessa dicitura riportata nelle carte della Dogana delle Pecore presso l’Archivio di Stato di Foggia.   

[8] Tavola dell’introito ed esito, conservato presso l’Archivio della Curia di San Severo.

[9] M. Pasculli Ferrara, Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo, Fasano, 1984, pagg 23-72.

Interessante risulta l’evidente affinità nelle finiture, nei materiali, con l’altare della chiesa dell’ex monastero di S. Bartolomeo di Lucera, ad opera di Aniello Gentile.

[10] Il nome dell’Abate compare in un atto notarile conservato presso l’Archivio di Stato di Lucera, unitamente al titolo di abate del monastero della SS. Trinità di San Severo. Una pergamena conservata nell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino, attesta l’avvenuta elezione il 12 ottobre 1749 quale “abate generale”. Inoltre dall’epigrafe del 1754 nel monastero di S. Pietro a Manfredonia, dall’iscrizione in S. Maria di Ripalta e dalle lapidi sepolcrali nella chiesa della SS. Trinità di San Severo si ricavano notizie sulle realizzazioni compiute in vari edifici celestini e sulle opere di assistenza. Difatti, il monastero raggiunse un grande sviluppo con la figura dell’Abate, il quale istituì una mensa per i poveri e per i nobili caduti in povertà, al punto che questa divenne tradizione, in quanto, sino a pochi decenni addietro i più bisognosi sedevano sulle scale della chiesa, in attesa di elemosina. Il corpo è tumulato ai piedi dell’altare maggiore, come si evince dalla lapide già utilizzata per la consacrazione dello stesso altare, poi rimossa e smarrita. Oggi è conservata nella sacrestia dell’omonima chiesa.

vedi anche R. Pasquandrea, Storia di una epigrafe errante, in Corriere di San Severo, 1 giugno, 1980.

[11] M. D’Elia, “La pittura barocca”, in AA.VV. , “La Puglia tra Barocco e Roccocò”, Milano, 1982. Per le notizie riguardanti l’attività di Girolamo Cenatiempo.

[12] M. A. Pavone, “Angelo Solimena e la pittura napoletana della seconda metà del Seicento”, Napoli, 1980. L’attribuzione all’area dei solimeneschi napolatani, sembra priva di dubbio se si confronta l’opera con il S. Michele e le anime purganti del 1694, opera di Angelo e Francesco Solimena ubicata nel Duomo di Sarno, i quali risultano gravitanti nell’orbita del Card. Orsini.