Alessandro d'Onofrio

Intervista a Peter Eisenman[1]

 

 

Alessandro d'Onofrio: Lei è stato accusato dai critici e dagli architetti europei, da sempre culturalmente e ideologicamente sensibili alle problematiche sociali, di non interessarsi ai temi nevralgici della collettività. Le sue ricerche legate alle "cardboard houses" venivano definite come architettura di élite. Tuttavia riteniamo che lei abbia a riguardo un suo punto di vista originale; le sue risposte architettoniche in tal senso non passano attraverso analisi scientifiche o tipologiche, non riguardano la massa e la società che dovrebbe rappresentarla. Ci sembra che le sue soluzioni mirino piuttosto a definire il ruolo ed i limiti della società (identificata dai modelli spaziali proposti) nei confronti dell'individuo.

 

Peter Eisenman: L'architettura si è sempre occupata di questioni sociali e politiche, ha costantemente costituito la trasposizione simbolica di una posizione ideologica, in particolare di quell'ideologia che si occupa dei rapporti delle masse con il sistema politico di una determinata epoca. In realtà, prima della Rivoluzione Francese, prima di Piranesi, l'architettura era al servizio dell'autorità dominante, che questa fosse la Chiesa, il Doge a Venezia o il Conte a Mantova: non esisteva un'ideologia. Piranesi è il primo ad opporsi, nel XVIII secolo, all'uso gerarchico dell'architettura: da quel momento l'architettura diventa ideologia. La Rivoluzione Francese introdusse un altro tipo d'ideologia, quella delle masse, del proletariato; con essa nacque il concetto di stato politico moderno, non burocratico, non autoritario, ma scelto dal basso. Dalla fine del XVIII secolo tutte le architetture sono state influenzate da questo stravolgimento (Schinkel in Germania come Ledoux in Francia), da ciò che definirei "dottrina occidentale". L'ideologia europea era permeata da questo tipo d'interesse politico e sociale. Il concetto di ospedale, di prigione, di fabbrica, d'edilizia pubblica, di università, sono tutte risposte a cambiamenti sociopolitici. Negli Stati Uniti abbiamo avuto una simile evoluzione nel XIX secolo, una sorta di rivoluzione; Washington era basata sui principi dell'architettura neoclassica che dovevano simboleggiare la tradizione greca, la classicità. Durante questo periodo storico, negli Stati Uniti, i municipi, le biblioteche, persino gli edifici privati, facevano riferimento a tale simbolismo, per cui direi che nel XIX secolo gli Stati Uniti si trovavano in una condizione molto simile all'Europa. Le forme magari erano diverse, ma non vi era differenza di espressione, o dell'uso che dell'architettura si faceva; questa serviva a rappresentare i concetti di nazione, di sovranità, etc. Naturalmente, nel XX secolo, l'architettura americana prende le distanze da quella europea: la cosiddetta architettura d'avanguardia da noi approdò molto tardi, né ci fu quel che voi chiamate Modernismo. Anche in Italia il Modernismo o l'avanguardia, compaiono molto tardi, se si esclude il Futurismo che può essere considerato a carattere prevalentemente pittorico. Il Modernismo si diffuse in Italia solo verso il 1930, quindi molto più tardi rispetto alla Francia o all'Olanda.

Negli Stati Uniti non si verificarono gli stessi rivolgimenti sociali che invece travolsero il vecchio continente. Così si è verificata una demarcazione, sia culturale sia sociale, prima e dopo le guerre mondiali.

Nel 1933, in Europa, finiscono l'architettura moderna e il Modernismo, contemporanea­mente all'avanzata della destra in Italia e in Germania. L'utopia di un nuovo stato sociale, di una nuova città, di una nuova ideologia viene distrutta. 

Dopo la guerra, la situazione cambia. Ad esempio, in Italia troviamo il Neoliberty che non è un costrutto ideologico, bensì stilistico. L'architettura si sviluppa in condizioni diverse, "non ideologiche" e se tralasciamo il libro di Rossi "L'architettura della città" e il libro di Gregotti sul territorio e i vari testi di Tafuri, c'era ben poco di ideologico nel nuovo rapporto dell'architettura con la situazione politica e sociale. Quello che era un movimento di sinistra dell'architettura moderna – cioè quella che chiamerei la parte buona della società – penetrò negli Stati Uniti sotto forma di una moda effimera, come il nuovo quartiere generale del potere del capitale occidentale contrapposto al fascismo e al comunismo, per cui l'architettura riacquistò una pulsione ideologica, ma molto diversa da quella che aveva avuto in Europa. Diventò importantissimo il concetto di difesa dell'occidente attraverso l'architettura, specialmente negli Stati Uniti che rappresentavano in un certo senso il bastione del capitale.

Mi sembra che, dopo il crollo dell'eurocomunismo, oggi nel mondo, ci troviamo in una situazione di totale mancanza di ideologia politica, l'assenza di contrapposizione tra i due sistemi ha fatto si che anche le basi comuni per una teoria dell'architettura siano venute meno. Abbiamo di fronte una sorta di "capitalizzazione" mondiale.

Italia e America fanno parte dello stesso tipo di condizione complessiva del capitale, non c'è lotta tra sistemi di idee differenti; possono scoppiare conflitti politici tra gruppi etnici in Burundi, Bosnia, Croazia, nel Medio Oriente, ma nel complesso viviamo in un periodo non ideologico.

Quindi direi che dobbiamo capire cosa può fare l'architettura in quest'epoca perché questo è la prima volta, dopo 200 anni, in cui ci ritroviamo senza motivazioni politiche. Può esserci un aumento di terrore e di violenza, ma ciò non ha ripercussioni sull'architettura. Secondo me il vecchio modo di definire concetti quali: Europa, America, politico, sociale, sinistra, destra, ideologia, va interamente ripensato.

Cosa si deve fare? La mia risposta è duplice. Innanzi tutto (e questo non c'entra nulla con il fatto di essere americano o europeo o giapponese, ormai ci esprimiamo tutti con un linguaggio mondiale), esistono due poli che sembrano definire l'architettura oggi: uno è quello espresso dalla convinzione che la forma possa ancora risolvere problemi sociali. Le Corbusier nella sua Oeuvre complète è perfettamente convinto fino a tutti gli anni '50 e '60 che la forma sia un modo per risolvere, o comunque mediare i problemi sociali, che questa abbia ancora un significato. Altri (come Rem Koolhaas, Jean Nouvel, Jacques Herzog) affermano che la forma è irrilevante, che non ha più alcun significato e che ormai si debba parlare di "infrastrutture".

Io rispondo che questo è un modo sbagliato di porsi il problema; parlare di infrastrutture significa lavorare per adeguarsi al capitale. La sola posizione veramente critica che si può prendere è contro l'adeguamento infrastrutturale, cioè contrapporsi al tentativo di omologazione generale. L'unico modo per farlo, che conosco, è attraverso la forma. La forma ha sempre avuto un contenuto ideologico e critico, in America come in Europa. Il problema è: quale contenuto ideologico può avere una forma critica?

Non si può al contempo adeguarsi ed essere critici. L'architettura critica poteva e può porsi il problema di cosa è "corretto" e cosa no. Questo è il punto in cui l'architettura si scinde, oggi, tra Europa e America, tra coloro che credono che la via maestra della nostra disciplina sia "l'adeguamento" e quelli che invece ritengono che sia l'approccio critico. Credo che esista ancora un'eredità, se vogliamo un valore, che chiamerei del "significato incarnato nella forma". 

La gente pensa ancora che l'architettura debba esprimere significati, che lo scopo delle forma sia mostrare a qualcuno il progetto critico e sociale sotteso, che le forme debbano parlare, che l'architettura sia "parlante". Tuttavia ci sono troppi significati nel mondo, troppe informazioni, troppe parole, i media si esprimono meglio e più velocemente dell'architettura. 

Pertanto ritengo che sia finita anche l'epoca dell'architettura come incarnazione di significati. Dobbiamo pensare all'architettura e quindi alle forme architettoniche come potenzialmente capaci di generare nuovi significati (esiste differenza tra incarnare e generare). La nuova condizione dell'essere critici rimane, allora, l'apertura e la capacità di trovare i valori reali del nostro essere contemporanei. Il progetto per la chiesa che ho realizzato per il Vaticano non incarna significati come facevano le chiese nel passato, ma genera la possibilità di un altro modo di intendere la chiesa.

 

d'Onofrio: Quindi generare nuovi significati attraverso una nuova forma. Che relazione dovrebbe esserci tra questa e lo spazio?

 

Eisenman: Nella grande tradizione dell'architettura del XX secolo e nella maggior parte della storia dell'architettura occidentale, l'architettura si manifestava nelle forme; ossia attraverso la costruzione di muri, facciate, colonne etc. Lo spazio scavava se stesso. 

Il piano libero di Le Corbusier non era altro che una serie di colonne–pilastri inclusi in un reticolato, all'interno del quale lo spazio poteva fluire a piacimento. Questo era l'orientamento di Le Corbusier, di James Stirling, di Aldo Rossi ed è quello di Frank Gehry, e anche il mio. Tutti gli architetti del XX secolo ritenevano che bastasse teorizzare la forma. Attualmente penso che ciò non sia più sufficiente perché siamo ad un punto in cui questa non corrisponde più allo spazio. La forma non ha correlazioni con il significato, è discordante rispetto al vuoto.

L'unico architetto, del nostro secolo, che ha teorizzato il vuoto è Adolf Loos. Egli ha avuto l'idea del Raumplan una sorta di piano spaziale. Ha scritto anche un articolo intitolato "Parole nel vuoto". Penso che sarebbe bene tornare indietro e guardare di nuovo all'architettura con l'idea di teorizzare il vuoto. Oggi non esiste alcuna teoria del vuoto perché tutte le architetture (Decostruttivismo, Infrastruttura, ecc.) interagiscono con la superficie, con la forma fisica stessa piuttosto che con il contenuto della forma. 

 

d'Onofrio: Nella mostra tenutasi al MoMA nel 1988 la sua architettura è stata paragonata all'avanguardia russa e per quanto riguarda le arti figurative al cubismo, tenendo conto della nuova interpretazione formale che questo dava della realtà contemporanea. Forse più che fare confronti con movimenti a carattere collettivo sarebbe stato più idoneo accostare il suo operato a personaggi scevri da precisi stilemi formali. Ci viene in mente il grande artista demiurgo Marcel Duchamp che faceva dei concetti e della reinterpretazione i suoi punti di forza. Prendendo ad esempio la "Marieé mise a nu par ses celibataires, méme" si possono riscontrare delle affinità con il suo metodo di lavoro; innanzi tutto la complessità, la ripetuta decontestualizzazione di oggetti significanti, la profondità dei significati, le infinite interpretazioni che se ne possono dare, l'esotericità dell'insieme. 

 

Eisenman: Decostruttivismo è stata una "città" costruita da Philip Johnson e Mark Wigley. Credo sia molto diverso dalla decostruzione di cui parla Jacques Derrida.

Sono concetti diversi perché la decostruzione non si manifesta con uno stile, è invece un modo di interagire con il mondo e con il pensiero. Essa afferma che non esistono verità, origini, idee a priori, che dobbiamo sempre porci domande, che tutto ciò che riteniamo vero contiene la repressione di un'altra verità e ci spinge sempre ad analizzare anche quest'altra realtà. Non è la forma della de–costruzione (letteralmente "fare in pezzi"), costruire oggetti con strani angoli, fare in modo che le cose appaiano decostruite perché contengono in sé una repressione dello stile stesso; tutto questo è già conformarsi ad un codice.

Perciò la mostra sulla Decostruzione per me ha sempre costituito un problema perché non ho mai pensato che la mia architettura avesse a che fare con lo stile. Convengo invece con voi nel dire che il mio lavoro è molto più affine a quello di Duchamp che svelava l'aspetto "repressivo" dell'arte. Non si tratta semplicemente di rifiutare il fatto, ma di vedere che quello contiene altri aspetti repressi. 

Ritengo che voler spingere l'opera d'arte al di là della sua pretesa, del suo valore, della sua origine, della sua storia sia il significato di questo continuo ciclo di coercizioni negate. Questo intendeva Duchamp con le sue opere e mi piace pensare che, in un certo senso, anche il mio lavoro sia così; non è decostruttivismo o frammentazione, ma rivelazione della repressione del represso.

Un'opera non è un esercizio di stile, non si può copiare. Gli studenti non imitano il mio lavoro. Io posso solo insegnare un modo di pensare, poi loro fanno il resto. Nulla di quanto ho detto nella mia lezione a Roma è riportato in un testo. Siete voi che dovete scrivere il vostro libro. Sono profondamente contrario, (quindi non l'ho mai applicato), al termine decostruttivismo, soprattutto riferito ai mie progetti; sono i critici ad usarlo, ne hanno tutti i diritti, se credono, ma per quanto mi riguarda non mi curo delle classificazioni che tendono a creare solchi, sono interessato maggiormente all'apertura.

Qui ritroviamo differenze e analogie. La mia battaglia è sempre stata improntata verso una tensione dell'apertura: a Terragni, a Peter Eisenman, ai miei studenti, ad altre interpretazioni della storia, ad altri significati e possibilità. Questo è il mio lavoro.

Quindi concordo con il concetto di decontestualizzazione. Per decontestualizzare si è costretti a operare una repressione; il processo di decontestualizzazione è costante e bisogna continuamente cercare le complessità imprigionate dai tentativi di codificare, semplificare, spiegare. Penso che dovremmo tendere a rendere le cose meno comprensibili, ecco ciò che conta per me.

 

d'Onofrio: Le sue ricerche teoriche sono partite dall'enfatizzazione dell'oggetto capace di definire lo spazio e sono approdate al tentativo di definire un tempo (anche percettivo) in grado di identificare l'oggetto. Il suo pensiero sembra essere passato da un processo di astrazione ad uno a carattere informale.

 

Eisenman: È esattamente quello che dicevo prima riguardo al fatto che tradizionalmente per l'architettura moderna, di qualsiasi stile, l'oggetto ha la capacità di definire lo spazio. Questa tesi per me non è più valida oggi, dobbiamo reinventare il rapporto oggetto e soggetto nello spazio (ne ho parlato nella mia lezione su Terragni). La relazione del soggetto con l'oggetto può definire lo spazio in modo nuovo, forse in un rapporto triplice (soggetto–oggetto–spazio) piuttosto che dialettico. Anche perché ci troviamo di fronte ad un nuovo soggetto, o a molti soggetti diversi.

Penso che sia cambiata anche l'idea del tempo narrativo, diciamo del tempo della promenade (eravamo soliti pensare al tempo come sequenza spazio–temporale). Anche questo credo si debba riconcettualizzarlo per poi trasporlo in termini architettonici. Sono questioni per le quali non ho risposte.

L'aspetto interessante è come porsi le domande in modo che in futuro sia anche possibile darvi risposta. Non so dirvi quale sia la nuova idea di spazio o di tempo. Forse questa inedita concezione è nata –non proprio recentemente– nell'ambiente artistico ed in particolare in quella che chiamano “arte povera”.

Nel mondo capitalistico la nozione di uso e quella di significato hanno finito col simboleggiare e corrispondere alla cognizione di valore. In altre parole, qualcosa ha valore se è utilizzabile. L'avanguardia modernista e funzionalista è stata sopraffatta dal capitale e assorbita nel ciclo produzione–consumo; ha perso così il valore più autentico e la sua vera utilità. Secondo l' “arte povera”, invece, dobbiamo ripensare i binomi utilizzo–valore e significato–valore; forse ciò che non è utile ha ugualmente un senso così come può essere rilevante l'insignificante, l'inutile. Questo aspetto dell'arte corrisponde alla teoria di George Bataille e delle esposizioni al Centre Pompidou.

Il problema è: che senso ha un'architettura priva della possibilità di poter essere utilizzata, senza significato, a cui manca la rappresentatività simbolica dell'utilizzo del significato?

L'architettura non può voler dire spreco o assenza di forma, proprio in quanto depositaria di una funzione. L'arte può essere "robaccia", l'architettura no perché deve costituire un riparo, altrimenti non lo è. Realizzare una "architettura povera" sarebbe interessante, ma che senso avrebbe?

In questo momento siamo in una condizione post–critica, post–ideologica, post–formale; come possiamo noi architetti creare oggetti che siano ad un tempo utili e inutili, pregni di significato e insignificanti, con una forma e informi?

Tutto quel che possiamo fare è porre domande. In ciò consiste il mio lavoro, nel porre questi interrogativi, non nel dare risposte.

Trovo affascinante che la vostra generazione si trovi di fronte ad una situazione del tutto diversa, nei confronti dell'architettura, rispetto alla mia. Vi trovate ad un bivio: l'architettura o è destinata a scomparire e quindi a diventare infrastruttura e capitale, oppure per sopravvivere dovrà opporre resistenza con modi completamente diversi rispetto al passato e al presente. Non può resistere a lungo con l'astrazione, o con l'avanguardismo. La "grande" architettura è sempre stata in grado di trovare un momento di trasgressione e resistenza, lo hanno fatto Michelangelo, Palladio, Piranesi, Ledoux, Schinkel, Le Corbusier. L'architettura che è passata alla storia ha incarnato la resistenza contro lo status quo e l'omologazione nella norma. Si troverà sempre un modo per ottenere questo tipo di resistenza, anche se assume di volta in volta forme diverse. È stata diversa per Palladio, per Piranesi, per Le Corbusier, per Schinkel. Non è questione di stile, ma di metodo e di capacità nel cogliere in ogni preciso momento la giusta via per opporsi all'omologazione e al consumo. L'architettura ha sempre agito così e credo che possa farlo ancora. Come ci riesce? Che cos'è che permette il cambiamento dal Barocco a qualcos'altro, dal moderno a qualcos'altro, dal post–moderno a qualcos'altro? Non lo so. Non penso che si riesca a scoprirlo leggendo la storia dell'architettura; piuttosto può esserci d'aiuto la letteratura dell'epoca. Leggendola si arriva a capire come il ruolo di alcune persone penetra, attraverso la letteratura, quella stessa cultura che le ha formate. Gli artisti e gli scrittori intraprendono per primi la nuova via che li porterà al "significato", ma ritengo altresì possibile che anche gli architetti oggi possano farlo. Non dobbiamo solo leggere e osservare, ma anche guardare dentro di noi e ripensare la nostra cultura per intero.

 

d'Onofrio: Il Max Rheinardt House è un'operazione di "piegatura" la cui frammentazione riflette le varie parti delle città di Berlino nella loro complessità secondo un processo di presenza ed assenza storica, ed evidenzia il rapporto che queste hanno con i suoi abitanti, la stessa presenza ed assenza che crediamo di cogliere, in forme più articolate, nell'uomo contemporaneo.

Anche Peter Cook con una serie di riflessioni progettuali, in particolare modo con i disegni delle "Trickling Towers Metamorphosis", ha affrontato il tema del grattacielo come emergenza significativa; qui la torre contiene la possibilità di essere modificata morfologicamente dai suoi abitanti fino a giungere al paradosso di riconfigurarsi nella sua forma originaria. Mentre Cook nega alla forma e quindi all'oggetto una sua precisa connotazione Lei opera attraverso continui cambiamenti progettuali che tuttavia giungono ad una forma definita ed immutabile.

 

Eisenman: Innanzi tutto io non penso che il mio lavoro, quindi la mia Rheinardt House abbia nulla a che vedere con l'opera di Peter Cook. Lui si occupa dell'immagine e del suo rapporto con la città. Credo che i suoi primi lavori della Plug–in City e quelli degli Archigram siano state le prime opere di "infrastruttura". Cook operava con le possibilità offerte dalle nuove infrastrutture, anche i suoi lavori più recenti lo dimostrano. Questo significa che gli abitanti stessi possono cambiare e spostare delle singole parti in quanto esiste una struttura che dà forma a quella materia.

Credo che ci si debba opporre strenuamente a questo atteggiamento ed essere capaci di produrre e preservare l'unicità dell'oggetto; è importante resistere al consumo dell'immagine. La Rheinardt House non è un'infrastruttura, ma un singolo oggetto che tenta di determinare una condizione entro l'unicità di un'utopia portante. Una nuova idea di monumento, di figura verticale, realizzata attraverso un'occupazione particolare dell'edificio. Ma per me l'unicità dell'oggetto sta nella nozione dell'informe, dell'eccesso, dell'inutile. La vostra è un'ottima domanda perché si pone in maniera critica per comprendere la mia posizione.

 

 

d'Onofrio: Recentemente lei sembra molto interessato al cinema ; soprattutto per le capacità che questo ha di esprimere il tema del "Between". Molti registi contemporanei riescono a rappresentare il tempo e lo spazio come più realtà simultanee contraddicendo l'idea che questi fossero concetti unitari e lineari. Compresenza quindi di più "tempi" e diversi "spazi" anche se a volte creati dalla soggettività emozionale del protagonista o dalla necessaria interpretazione dello spettatore. Ci viene in mente per esempio   di Kieslowski.

 

Eisenman: Penso che architettura e cinema – quello vero, non di puro intrattenimento – si occupino di due nozioni molto diverse di spazio e tempo. Prendiamo ad esempio L'anno scorso a Marienbad [Alain Resnais, 1962]: non c'è una trama vera e propria, la storia è data solo dall'identificazione in assenza di una continuità spazio–temporale; il film vi può spostare, arbitrariamente ed in ogni momento, al di fuori del tempo e dello spazio. Dunque si può prendere una sequenza di un film, tagliarla e cambiare il tempo reale. L'aspetto più interessante è il concetto del montaggio di tempo e di spazio nei film.

Nei film di Godard (ad esempio in Fino all'ultimo respiro), troviamo la nozione di jam cut, l'idea di una sequenza di tempo continuato, ma contemporaneamente fermo nel suo dilatarsi. Passano le ore e voi ve ne accorgete dal numero di mozziconi nel posacenere della stanza in cui si trovano i protagonisti: quattro ore, otto ore... si vede solo da minuscoli dettagli che il tempo è trascorso.

Un altro regista, l'austriaco Peter Kubelka, inframmezza schermate nere con fotogrammi a colori finché non si comincia a vedere tremolare la pellicola e ad accorgersi fino a che punto l'occhio, in quanto limite fisico, riesce a cogliere questo sfarfallìo; occorrono alcuni fotogrammi prima che si possa effettivamente percepirlo.

Ho realizzato un film per la Triennale di Milano del '75 nel quale comparivano dei disegni. La vista vuole una sequenza, ha bisogno di una continuità. Quando si passa un disegno in pellicola la percezione visiva non funziona allo stesso modo, improvvisamente l'occhio non ha il tempo sufficiente per coglierne l'unitarietà.

Da allora abbiamo cominciato ad individuare un rapporto tra come imparare da un film a vedere l'architettura e come inserire nell'architettura la discontinuità temporale, la frammentazione cinematografica; questo è ancora quello che stiamo cercando di fare. L'aspetto stimolante è che oggi, con il computer, siamo in grado di realizzare cose impossibili anche solo pochi anni fa. Da questo strumento deriva l'opportunità di utilizzare il concetto di “vettore” in maniera inusuale.

Il vettore ha un'intensità, una direzione e un verso, proprietà contenute solo in parte in un asse. In altre parole, se prendo una palla che ha un vettore e la lancio verso un blocco di argilla, questa deformerà l'argilla in un certo modo, mentre un asse semplicemente la perforerebbe. Si possono ottenere effetti molto diversi lanciando una palla di grosse dimensioni nell'argilla invece di una pallina e l'impatto cambia ancora se la si lancia più da lontano o più da vicino.

L'idea del vettore, opposto all'asse, equivale all'invenzione della prospettiva. Prima di questa esisteva una visione diversa del rapporto tra individuo e spazio, così come, adesso rispetto all'asse, abbiamo una visione differente del soggetto; oltre al puro spazio assiale, possiamo concettualizzare lo spazio vettoriale. Oggi pensiamo in termini di sequenze temporali, contrariamente all'architettura del passato, ragioniamo con modalità simili a quelle adottate nel cinema o nei computers. Siamo in grado di relazionarci ed identificarci con tipi di rapporti spaziotemporali diversi da quelli del "Io mi trovo qui e per capire mi serve un punto laggiù". In architettura, anche con Le Corbusier, questo tipo di cose non si era modificato poi tanto. Analizziamo, ad esempio, il mio progetto per la Triennale di Milano. Se ci camminate attraverso, ad una velocità normale, non riuscirete a restare in piedi perché è l'opera stessa che vi fa cadere, ma se correte, potete passare senza cascare. Per cui vi accorgete che modificando la quantità di energia nel vostro corpo ottenete un diverso rapporto con lo spazio e questo avviene in modo progressivo. Ciò fa capire come anche noi siamo vettori e non assi; pertanto abbiamo la possibilità di pensare allo spazio che abitiamo come qualcosa che a volte ci richiede di muoverci come vettori, di spostare il nostro corpo in un modo piuttosto che in un altro, in altre parole ricostituire l'effettiva condizione corporea nello spazio invece del suo semplice aspetto mentale e visivo. 

La maggior parte dell'architettura ormai è diventata cinetica. Eppure si disegnano edifici avendo in mente la foto da copertina, non si sente l'esigenza di entrarci con il proprio corpo perché basta vederlo in fotografia. Viviamo in una società in cui non importa più "stare dentro" gli edifici, ma fare collezione di immagini da "cartolina", possiamo catturare l'architettura in un fotogramma. Credo che ora l'architettura abbia bisogno di sfidare la sua consuetudine cinematica, è necessario capire che esiste una compresenza di diversi fotogrammi, non uno solo. Per comprendere l'architettura bisogna averne una che non sia identificabile con il solo punto di vista della prospettiva: il corpo si muove attraverso lo spazio percependolo proprio come nei film. A questo proposito uno dei film più significativi è Passenger di Antonioni dove troviamo un uomo che si muove attraverso lo spazio di un treno anch'esso in movimento o anche la passeggiata dell'individuo ne L'Avventura.

Molti registi sono interessati allo spazio. Penso che Kieslowski si occupi proprio di questa idea di passaggio:[2] nel tempo e nello spazio, sequenze di differenze simultanee. Come dicevo, possiamo imparare dall'arte, dalla letteratura, dal cinema e secondo me anche dall'architettura, se non intendiamo per architettura qualcosa di naturale; se non consideriamo che l'asse sia ovvio; che il rapporto con la prospettiva sia congenito; che la relazione del nostro corpo con lo spazio sia innata. In realtà l'architettura è semplicemente una convenzione. I grandi registi e gli artisti hanno sempre compreso che le loro arti sono una convenzione. Non esiste una condizione naturale dello scrivere o del fare cinema, ma l'esplorazione dell'opporsi al naturale e alle convenzioni precedenti. È proprio ciò di cui parlano Kieslowski, Godard, Antonioni e anche l'architettura.

 

d'Onofrio: A volte nelle sue architetture si avvertono significati mistici od esoterici.

 

Eisenman: Renato Rizzi ha scritto un libro sul rapporto tra la cabala e le mie opere.[3] È molto difficile da spiegare. Quando parlo della cabala o del misticismo o del significato esoterico, non sono sicuro che questo rapporto esista come invece lo è Rizzi. Non si deve mai chiedere a qualcuno cosa sta facendo perché in quel momento costui non ne ha la piena consapevolezza. Se tengo una lezione sul mio lavoro posso solo pensare “Questo è ciò che faccio”, ma il suo significato non ha nulla a che vedere con i processi che lo generano. Nel momento in cui progetto la chiesa per il Vaticano, penso di fare “x”, ma in realtà una volta finito è “y”. Quando vedete la chiesa realizzata voi sapete meglio di me quello che ho fatto. Io faccio il lavoro, quindi la chiesa, voi ne date l'interpretazione. Voi dite: “Peter, dovresti leggere questo libro di Rizzi”. Io lo leggo e mi chiedo: “Io farei questo? Non mi risulta!”. Perciò se pensate che il mio modo di operare sia affine a Kieslowski, per me va bene.

Mi interessa la vostra opinione, ma quando lavoro non sono consapevole di star pensando come Kieslowski o Godard o Antonioni, altrimenti starei copiando o imitando. Noi tutti siamo la somma delle nostre componenti, non possiamo fuggire da ciò che facciamo e da ciò che siamo. Ma non so se sia lecito per me dire “Peter Eisenman è questo o quest'altro”. Non posso rispondere meglio a questa domanda.

 

d'Onofrio: Lei è un architetto di fama internazionale che ha lavorato in ogni parte del mondo. I suoi progetti in Asia, Europa o America sembrano adattarsi a culture differenti solo in parte. La sua maniera di fare architettura è permeata da una sorta di internazionalismo soggettivo oppure dalla sindrome dell'apolidismo?

Inoltre, crede che questa atteggiamento progettuale possa essere connesso con la cultura architettonica americana?

 

Eisenman: Cosa significa essere un architetto americano? Innanzi tutto io sono americano, ma vivo a New York. Per il resto degli Stati Uniti, New York, è un bel paese senza radici; per la gente di New York, il resto dell'America è un paese strano.

Io non capisco gli Stati Uniti; per me New York è una specie di isola che fluttua nell'Atlantico, in qualche punto tra Milano, Los Angeles e Tokyo, ma non appartiene davvero a nessun paese.

Milano è Milano, Roma è Roma, sono due cose completamente distinte. Ad esempio, è impossibile per la squadra di calcio della Roma essere la nazionale. Esistono delle squadre come la Juventus o il Milan, che possono rappresentare l'Italia grazie ai loro presidenti: Agnelli e Berlusconi. Ma essi non sono il paese. Dite che sono americano e che simboleggio l'America? No. Io posso essere americano, ma non rappresento l'essere americano.

Inoltre il mio lavoro non è americano perché la gente in America non lo ama, proprio in quanto forma di resistenza all'essere americano. Ma anche se fossi italiano contrasterei l' “essere italiano”. Un'opera di opposizione si pone al di fuori dello stato politico, intellettuale, sociale. Quando Palladio ha costruito Il Redentore, non gli fu consentito di farlo a Venezia, ma alla Giudecca ed egli fece una chiesa che si opponeva alle forme tradizionali. Le persone di un certo tipo resistono contro la classificazione. Io non identifico i miei progetti con la mia nazione. Se devo realizzare un'opera in India e il cliente mi ha detto “Lei deve capire, noi abbiamo una consuetudine detta Vashnu Shastri” e cioè un modo di collocare gli spazi secondo la tradizione indù, cercherò di inserire questa indicazione nel mio lavoro. Tuttavia proverò anche a contrappormi alla tradizione, a cambiarla confrontandomi con essa. Ma confrontarsi con la cultura indiana è diverso dal farlo con quella cristiana a Roma.

Ogni singola opera ha sempre una sua identità in quanto resistente a tipi diversi di repressione. L'atto del resistere ha, comunque, una caratteristica costante: cerca l'atteggiamento accomodante, la normalità e rifiuta questo adeguamento. Analogamente, ciò che sembra adeguamento e normalità in un'epoca, diventa resistenza in un'altra. Quel che cerchiamo di fare quando scopriamo un nuovo virus è di integrarlo in quello che ci appare come un corpo sano. L'effetto del virus nel XVI secolo introdotto da Palladio a Venezia è diverso da quello di Piranesi a Roma nel XVIII secolo e da come risponderà Peter Eisenman in India alla fine del XX. Le risposte e le reazioni alle imposizioni culturali variano a seconda del tempo, dei luoghi e del tipo di progetti. Prendiamo Le Corbusier che all'inizio del '900 si è opposto alla cultura accademica; oggi in India questa resistenza sarebbe vana; infatti non si tratterebbe più di resistenza, perché quel tipo di atteggiamento è già stato inglobato dalla tradizione indiana.

In sostanza, cerchiamo costantemente di agire come un nuovo virus. Ecco cosa fa ogni architetto: tenta di opporsi all'assorbimento da parte della cultura dominante, qualunque essa sia: comunismo, capitalismo, religione indù... L'architettura è proprio questo segno di resistenza allo spirito dell'epoca e del luogo.

 

d'Onofrio: Nella sua ricerca la razionalità, l'iter logico, raggiunge una complessità capace di rappresentare l'irrazionale. In questo modo di esprimersi Jencks, nel libro "The Architecture of the Jumping Universe", scorge un nuovo modo di vedere la natura e la tecnologia; parla di un approccio cibernetico–ecologico. In particolare modo si riferisce ai suoi lavori definendoli "morfogenetici".

 

Eisenman: Trovo molto interessante il libro di Charles Jencks anche se non concordo con nessuna delle sue tesi. Non approvo il fenomeno dell'architettura ecologica. In realtà sta creando una nuova categoria. Charles è un mio caro amico, che stimo... quando gioca a baseball! Per me quello che dice non significa nulla, lo posso leggere, lo capisco, ma non mi interessa. Sono in totale disaccordo con le posizioni di Rowe, ma le rispetto. Rispetto le tesi di Tafuri, l'ho ascoltato e ho imparato da lui. Da Jencks invece non traggo nulla perché egli non raggiunge in alcun modo la mia consapevolezza. Tafuri, Jencks e Rowe sono persone diverse.

Sono favorevole alla critica costruttiva. Trovo che non ci sia nulla da imparare dal particolarismo critico di Kenneth Frampton, mentre vale il contrario per quanto riguarda Cole Foster, Tony Villar e molti altri. Di molte persone si può dire che esprimono opinioni prive d'interesse, ma ciò non toglie che altri possano trovarle istruttive.

 

d'Onofrio: In Europa ma soprattutto in America le immagini, e conseguentemente le architetture, sono soggette ad un rapido "degrado" e consumo. Qual è la sua opinione a riguardo e la sua posizione sul restauro degli edifici storici e moderni? 

 

Eisenman: Non sono sicuro che Europa ed America abbiano atteggiamenti molto diversi rispetto alla definizione dei concetti legati alle immagini. Recentemente abbiamo assistito all'incendio di due importanti teatri lirici, a Barcellona e a Venezia. In entrambe le città le amministrazioni di sinistra e gli architetti simpatizzanti di quest'area politica hanno affermato: "Vogliamo rifare il teatro esattamente com'era, vogliamo restaurarlo". Secondo me si tratta di una risposta molto debole rispetto all'architettura come forma di opposizione e come spirito di rappresentazione. Che senso ha rifare La Fenice com'era? Innanzi tutto, essa non fu terminata fino al 1930. Poiché aveva già subìto altri due incendi nel XVIII e nel XIX secolo, quale sarebbe La Fenice che si vuole ripristinare?

Dal mio punto di vista il lavoro di restauro è una vera tragedia perché richiederebbe degli archeologi, non degli architetti, non uno spirito di resistenza, ma uno nostalgico. Il peggiore tipo di nostalgia è l'idea di restauro. Preferisco l'atteggiamento di Gottfried Semper che costruì l'Opera di Dresda nel 1838 e ne fece un teatro adatto a quell'epoca. In seguito ad un incendio il Teatro dell'Opera venne distrutto; il governo gli affidò il compito di ricostruirlo com'era. Semper rispose: "No, grazie! Sono un architetto e non ricostruirò il mio teatro lirico, ne edificherò uno nuovo!" Questo è l'atteggiamento di un grande architetto.

Un altro esempio. Nella cittadina di San Benedetto Po, fuori Mantova, c'era un bel battistero con affreschi di Giulio Romano, della metà del XVI secolo. I restauratori riportarono l'edificio a quello che consideravano il suo aspetto originario e per farlo distrussero gli affreschi di Giulio Romano.

Questa è la problematica del restauro: i nostalgici, l'incapacità di vedere dove c'è arte e dove non ce n'è, la presunzione di distinguere tra bello e brutto e dare giudizi di valore in merito! Se fosse stato per me, io non avrei restaurato La Fenice, ne avrei costruita una ex novo, avrei bandito una gara internazionale sia per La Fenice sia per il teatro di Barcellona. Questo atteggiamento nostalgico della sinistra per il passato è incredibile. Cacciari sindaco di Venezia non trova corrispondenza con Cacciari filosofo, per questo motivo preferisco i suoi scritti. Non mi fido dei politici e dei filosofi che adottano queste decisioni terribili. È meglio credere ad una persona nella finzione letteraria, almeno si sa che non ha nulla a che vedere con la realtà.

 

d'Onofrio: Ritornando alla prima parte della domanda precedente, potremmo affermare che le architetture contemporanee sono destinate a scomparire e a essere rimpiazzate molto più velocemente di quanto non avvenisse in passato. Per quale dei suoi lavori le piacerebbe essere ricordato?

 

Eisenman: L'aspetto principale del lavoro dell'architetto in quanto tale è costruire, ma anche scrivere. Se come architetti vi limitate a scrivere, non sarete mai ricordati; se vi limitate a costruire, non passerete mai alla storia. Quelli tra noi che costruiscono devono anche scrivere un libro. Ricordiamo meglio i "Dieci libri" dell'Alberti che Sant'Andrea, ma senza Sant'Andrea non ricorderemmo i "Dieci libri", senza loro non capiremmo a pieno quel manifesto che è Sant'Andrea. Ogni grande architetto lo capisce. Le Corbusier scrisse "Vers une architecture", Aldo Rossi ha scritto "L'architettura della città", Robert Venturi ha scritto "Complexity and contradiction", Rem Koolhaas ha scritto "S.M.L.XL." Quest'ultimo probabilmente non realizzerà mai un edificio che abbia un valore pari a questo testo. Per me quel libro è un monumento.

Credo che ogni architetto nella sua vita possa riuscire a realizzare due, o al massimo tre "opere canoniche". Prendiamo Aldo Rossi, ha realizzato il Cimitero di Modena e il Quartiere Gallaratese di Milano e basta. Per quanto riguarda me, posso essere ricordato per una o due opere su venti, ma devo ancora scrivere il libro che conta e per il quale vorrei essere ricordato.

 

 



[1] Pubblicata in Rassegna di Architettura e Urbanistica, anno XXXIII, n. 97, aprile 1999, monografico su Peter Eisenman. Traduzione di Cristina Gaggiani, scaricata dal sito di Arch'it, www.architettura.supereva.it/files [NdR].

[2] Eisenman usa il termine "between" (NdT).

[3] Renato Rizzi, Mistico Nulla, Editoriale Motta, Milano 1996.