Hermann Hesse

La città[1]

 

 

"Si va avanti!" gridò l'ingegnere mentre sull'ultimo tratto di binari, posati appena ieri, stava avanzando già il secondo treno carico di gente, di carbone, di attrezzi da lavoro e di viveri. La prateria cuoceva sommessamente, immersa nella gialla luce del sole, e sulla linea dell'orizzonte si levava l'alta catena di montagne ammantate di boschi e schermate da una foschia azzurra. Cani selvatici e attoniti bufali liberi s'eran fermati a guardare il lavoro e il trambusto che lievitavano in quella terra dianzi incontaminata, le chiazze di carbone e di cenere, di carta e di lamiera che intervallavano il verde incontrastato della piana. La prima pialla stridette ferendo la terra sgomenta, rintronò la prima fucilata andando a spegnersi contro i monti e, sotto i rapidi colpi del martello, il primo incudine inviò i suoi suoni squillanti. Sorse una baracca di lamiera, l'indomani una seconda, in legno, e altre ne sorsero, ogni giorno; e presto anche case di pietra. I cani selvatici e i bufali si tennero distanti e la regione si fece docile e feconda; in primavera già ampie distese ondeggiavano con il loro carico di messi verdeggianti, sovrastate qua e là da case coloniche, stalle e granai. Strade solcarono la prateria.

La stazione ferroviaria fu finita e inaugurata, e così la prefettura e la banca. Nelle vicinanze sorsero città sorelle, solo di pochi mesi più giovani. Vennero lavoratori da tutto il mondo, contadini e gente di città, vennero commercianti e avvocati, predicatori e maestri. Fu fondata una scuola, nacquero tre comunità religiose e due giornali. A ovest si trovarono dei pozzi di petrolio e nella giovane città arrivò un grande benessere. Non passò un anno e già c'erano borsaioli, ruffiani e scassinatori, un emporio, una lega per la lotta all'alcolismo, un sarto parigino e una birreria bavarese. La concorrenza delle città vicine accelerò il ritmo della vita, ma dal discorso elettorale allo sciopero, dal cinematografo al club di spiritisti non mancava ormai più nulla. In città si potevano trovare i vini francesi come le aringhe norvegesi, i salami italiani come le stoffe inglesi e il caviale russo. Nelle loro tournées facevano sosta anche qui cantanti, ballerini e musicanti di second'ordine.

Lentamente arrivò anche la cultura. La città, che all'inizio era solo una colonia, cominciò a trasformarsi in una patria. C'era qui un modo di salutarsi, ossia un modo di accennare col capo incontrando un conoscente, che si differenziava impercettibilmente ma chiaramente dalle consuetudini in uso in altri agglomerati urbani. Gli uomini che avevano preso parte alla fondazione della città godevano di stima e popolarità; anzi emanavano una sorta di prestigio nobiliare. Si presentò alla ribalta la nuova generazione e a questi giovani la città pareva un luogo antico sorto in un passato memorabile: il tempo in cui si era udito il primo colpo di martello, era avvenuto il primo delitto, fu officiata la prima messa e stampato il primo giornale apparteneva ad un passato lontano, era già storia.

La città si era acquistata un ruolo preminente fra le città limitrofe ed era divenuta capitale di un vasto distretto. Ai margini delle sue strade, ampie e serene, dove un tempo c'erano le prime baracche di legno e lamiera ondulata vicino ai mucchi di cenere e alle pozzanghere, serie e dignitose sorgevano ora le sedi delle amministrazioni pubbliche, le banche, le chiese e i teatri. Gli studenti si recavano flemmaticamente all'Università e in biblioteca, le autoambulanze raggiungevano senza far rumore le cliniche, la vettura di un deputato, appena notata, diveniva oggetto di saluto e nei venti enormi edifici scolastici in pietra e ferro si celebrava ogni anno l'anniversario della fondazione della famosa città con canti e discorsi. Quella che una volta era la prateria aveva ceduto il posto ai campi coltivati, alle fabbriche e ai villaggi ed era percorsa da venti linee ferroviarie. Le montagne si erano avvicinate di molto perché una ferrovia portava fin nel cuore delle loro gole. Là, oppure più lontano sulla riva del mare, i ricchi avevano le loro residenze estive.

A cent'anni dalla sua fondazione un terremoto rase al suolo la città. Ma la città risorse, e la semplice struttura lignea fu sostituita da quella in pietra e ciò che era piccolo si fece grande, l'angustia lasciò il campo all'ampiezza. La nuova stazione della ferrovia fu la più grande del Paese e la borsa la più prestigiosa dell'intero continente. Architetti e artisti abbellirono la città ringiovanita dotandola di edifici pubblici, di impianti d'uso collettivo, di fontane e di monumenti. Nel corso del nuovo secolo questa città si conquistò la fama di essere la più bella e ricca del territorio nazionale, una meta ambita dai turisti. Vennero a visitarla uomini politici e architetti, tecnici e sindaci di città forestiere per studiarne le strutture edilizie, l'acquedotto, l'amministrazione pubblica e gli altri impianti. Proprio a quel tempo ebbe inizio la costruzione del nuovo municipio, uno degli edifici più grandiosi e stupefacenti del mondo, e giacché era l'età dell'emergente ricchezza e dell'orgoglio civico, felicemente combinati con la diffusione del buon gusto e con il progresso dell'architettura e della scultura, ecco che la città, cresciuta tanto alla svelta diventò un'attrazione impertinente e compiaciuta. L'area interna, dove gli edifici, senza eccezione, erano in pietra nobile d'un grigio tenue, era compresa entro una cintura verde di parchi pubblici stupendi, mentre al di là di questo anello le strade e i filari di case si protraevano per un lungo tratto ma, a poco a poco, si perdevano nello spazio libero della campagna. Molto frequentato e ammirato era il colossale museo dove in centinaia di sale, cortili e atrii era testimoniata la storia della città, dalla sua nascita fino alle ultime fasi del suo sviluppo. Il primo enorme cortile antistante l'intero complesso riproduceva l'antica prateria: c'erano alberi e animali ben tenuti e plastici perfetti delle misere casupole dei pionieri, le prime viuzze e i primi impianti. Lì, durante le ore libere, i giovani della città passeggiavano osservando il cammino della loro storia, dalla tenda o dalla semplice tettoia di assi e dal primo tracciato disuguale della linea ferroviaria fino allo splendore delle attuali strade metropolitane e, guidati dai loro insegnanti, imparavano a capire le stupende leggi dell'evoluzione e del progresso, ossia a comprendere come il primitivo nucleo ancora grezzo si trasformi nella forma elegante, l'animale nell'uomo, la barbarie in educazione e come la miseria si tramuti in sovrabbondanza, la natura in cultura.

 

Nel secolo successivo la città raggiunse l'apice del proprio splendore, che si manifestò in una ricchezza opulenta e aumentò ad un ritmo precipitoso, ma un giorno una sanguinosa rivoluzione dei ceti bassi pose improvvisamente fine a questo processo. La plebaglia cominciò a dar fuoco a molti dei grandi pozzi di petrolio, distanti alcune miglia dalla città; una parte cospicua del Paese con fabbriche, fattorie e villaggi fu incenerita o devastata. Pure la città conobbe massacri e orrori d'ogni sorta, ma sopravvisse a se stessa e dopo decenni di grande sobrietà riuscì a riprendersi a poco a poco, senza però dimostrarsi più capace dell'antica spensieratezza e dell'antico fervore edilizio. Durante il periodo della sua malasorte era inaspettatamente prosperato un Paese lontano al di là dell'oceano, una terra che forniva grano, ferro, argento e altri tesori con lo slancio di una sorgente inesauribile e prodiga. Il nuovo Paese attrasse irresistibilmente a sé le forze oziose dell'antico mondo, le sue speranze e i suoi desideri: dal giorno alla notte colà spuntarono nuove città, le foreste scomparvero e le cascate furono domate.

La bella città prese a mano a mano a immiserire. Non era più il cuore e il cervello d'un mondo, né il mercato e la borsa di molti Paesi. Doveva accontentarsi d'essere rimasta in vita, cercando semmai di non impallidire del tutto nel frastuono dei tempi nuovi. Le forze condannate all'inoperosità, che non scomparvero risucchiate dal lontano nuovo mondo, non avevano qui più nulla da costruire né da conquistare e tanto più di che commerciare e con cui guadagnare. Ma nell'antico terreno culturale germinò la vita dello spirito, anzi dalla città vieppiù silenziosa uscirono studiosi e artisti, pittori e poeti. I discendenti di coloro che avevano costruito le prime case, in quella terra vergine, lasciavano sorridendo che i giorni fluissero nella placida, tardiva maturazione di piaceri e fatiche intellettuali: dipinsero il malinconico splendore di vetusti giardini sopraffatti dal muschio con statue erose e acque verdi e cantarono, in versi delicati, l'eco remota degli antichi tempi eroici o il calmo sognare di uomini stanchi in vecchi palazzi.

Così tornarono ad echeggiare nel mondo il nome e la fama di questa città. E mentre, all'esterno, le guerre sconvolgevano i popoli o grandi opere li impegnavano, qui, in una solitudine ammutolita, si lasciava che la pace celebrasse il suo trionfo e che i tempi lontani mandassero gli ultimi tenui bagliori del loro tramonto: strade silenziose ombreggiate dai rami fioriti, facciate esangui di possenti architetture che sognavano al di sopra di piazze quiete, conche muschiose di fontane sorprese dal gioco dell'acqua e dalla sua dolce musica.

L'antica città sognante fu per parecchi secoli un luogo venerabile, prediletto dal mondo più giovane, un sito cantato dai poeti e frequentato dagli amanti. Ma l'umanità, desiderando la vita, cercava con prepotenza sempre maggiore altri continenti della terra. Nella città i discendenti delle antiche famiglie locali si estinsero l'uno dopo l'altro o si depravarono perché qui anche l'ultima stagione dello spirito era arrivata oramai al traguardo e a sopravvivere era solo il suo manto putrescente. Le città vicine, più piccole, erano scomparse in tempi assai lontani: divenute ora ammassi di silenti rovine, erano meta di pittori stranieri o di zingari ed erano abitate da malfattori sfuggiti alla giustizia.

Un terremoto, pur risparmiando la città, deviò il corso d'un fiume, sicché una parte della campagna inselvatichita si fece paludosa, un'altra si inaridì. E allora, dai monti, dove i resti dei venerandi ponti di pietra e case coloniche si sbriciolavano, scese lentamente il bosco, l'antico bosco. Vide sotto di sé la vasta piana desolata e lentamente l'attrasse, pezzo dopo pezzo, entro il suo anello verde: qui ammantò di verdura frusciante un acquitrino, là evocò dal sasseto una giovane e tenace abetaia.

Nella città, alla fine, non viveva un solo abitante, ma la canaglia, gente ostile e violenta, che aveva trovato asilo negli sghembi palazzi in rovina e pascolava le sue magre capre nelle vie e nei giardini d'allora. Ma anche questi ultimi abitatori perirono, uccisi a poco a poco dalle malattie e dalla demenza; tutta la regione, divenuta palude, era difatti infestata dalla febbre e in balia dell'abbandono.

I ruderi dell'antico municipio, che era stato l'orgoglio del suo tempo, si levavano ancora alti e imponenti per sopravvivere nelle canzoni di ogni lingua e alimentare le tante leggende dei popoli vicini, le cui città si erano pure corrotte e la cui cultura si era imbastardita. Nelle terrificanti storie per l'infanzia o nei malinconici canti dei pastori i nomi, alterati e travisati, della città e delle epoche della sua passata magnificenza riapparivano evocando visioni spettrali. Ma, affatto intimoriti dai viaggi fortunosi, arrivarono a studiare quell'unica distesa di rovine e i suoi misteri, su cui s'intrattenevano curiosi i ragazzi delle scuole, molti eruditi dei popoli lontani, allora all'apice della propria cultura. Pensavano di trovarvi porte d'oro zecchino e tombe piene di pietre preziose e sapevano anche che le stirpi nomadi che popolavano la regione custodivano da tempi antichissimi le memorie di testimonianze scomparse di una millenaria arte magica.

Il bosco continuò a scendere: lasciò le montagne e giunse al piano. Si formarono fiumi, laghi scomparvero ma il bosco avanzò. A poco a poco ghermì e avvolse sotto il suo mantello tutta la contrada coi resti degli antichi confini stradali in muratura, i palazzi, i templi, i musei. La volpe e la martora, il lupo e l'orso vennero ad abitarvi.

Sopra uno dei palazzi, che però non esponeva alla luce del sole nemmeno una sola sua pietra, era cresciuto un giovane pino. L'anno innanzi era ancora il messaggero e pioniere del bosco, ora, invece, guardava anch'egli all'avanzata della giovane discendenza.

"Si va avanti!", gridò un picchio intento a martellare un tronco e ammirò soddisfatto il bosco che cresceva e lo stupendo verdeggiante progresso che si compiva sulla terra.



[1] Scritto nel 1910. La traduzione è quella che si trova in Francesco Dal Co, Abitare nel moderno, Laterza, Bari 1982, pp. 190–194 [NdR].