Edgar Allan Poe

Filosofia della composizione[1]

 

 

Charles Dickens, in una nota che ora mi tengo dinnanzi, alludendo ad un csame ch'io una volta feci del meccanismo di Barnaby Rudge, dice: "Tra parentesi, vi è noto che Godwin scrisse a ritroso il suo Caleb Williams? Egli dapprima imbrogliò il suo eroe in un groviglio di difficoltà, formando il secondo volume, e poi, nel primo, si sforzò di trovare qualche modo di giustificare quanto aveva fatto".

Non posso credere che questo sia stato l'esatto modo di procedere di Godwin, e infatti ciò che egli stesso ammette non s'accorda interamente con l'idea del Dickens; ma l'autore di Caleb Williams era artista troppo valente per non capire il vantaggio che può derivare da un procedimento almeno alquanto simile. Niente è più evidente del fatto che ogni intreccio degno del nome deve essere elaborato fino al suo dénouement prima che si tenti la stesura di qualche parte. Solo tenendo sempre presente il dénouement si può dare a un intreccio il suo necessario aspetto di coerenza, o connessione causale, facendo in modo che, in ogni punto, gli avvenimenti e soprattutto il tono seguano lo sviluppo del disegno.

C'è, io credo, un errore fondamentale nel modo usuale di costruire un racconto. O il racconto offre una tesi, o ce n'è una suggerita da un avvenimento del giorno, o alla meglio l'autore si mette a lavorare per coordinare degli avvenimenti singolari, al fine di formare semplicemente la base del suo racconto, proponendosi, in genere, di riempire poi con la descrizione, il dialogo o il commento ogni lacuna nei fatti o nell'azione che può appalesarsi da pagina a pagina.

Preferisco iniziare con la considerazione d'un effetto. Tenendo sempre presente l'originalità – poiché inganna se stesso chi s'arrischia a rinunciare a una sorgente d'interesse così ovvia e facilmente attingibile –, io anzitutto mi chiedo: "Fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il cuore, l'intelletto, o (più generalmente l'anima è suscettibile, quale devo scegliere nel caso presente?" Avendone scelto uno che sia soprattutto nuovo e, inoltre, intenso, passo a considerare se può essere meglio raggiunto con gli eventi dell'azione o col tono – se per mezzo di eventi ordinari e di un tono speciale, o, viceversa, con la singolarità degli eventi e, insieme, del tono – cercando poi attorno a me (o piuttosto in me) quelle combinazioni di eventi, o di tono, che più mi saranno d'aiuto nella costruzione dell'effetto.

Ho spesso pensato quale interessante articolo potrebbe essere scritto da qualche autore che volesse – cioè, potesse – specificare, passo passo, i procedimenti con cui una qualsiasi delle sue composizioni ha raggiunto il perfetto compimento. Non so spiegarmi perché un tale articolo non sia mai stato scritto, tuttavia, forse, la ragione è da ricercarsi soprattutto nella vanità degli autori. I più degli scrittori – in modo particolare i poeti – preferiscono far credere ch'essi compongono con una specie di sottile frenesia – con un'estatica intuizione – e certamente rabbrividirebbero di permettere al pubblico di vedere dietro la scena le elaborate e vacillanti crudezze del pensiero – il vero fine colto solo all'ultimo momento – gli innumerevoli balenii di un'idea che non ha raggiunto la maturità dell'espressione, le fantasie pienamente perfezionate che per disperazione furono lasciate cadere come intrattabili, le caute scelte e i cauti rifiuti, le penose cancellature e le interpolazioni, in una parola le ruote e i rocchetti, i paranchi per i cambiamenti di scena, le scale e le trappole del diavolo, le penne di gallo, il belletto rosso e i nei neri, che, novantanove volte su cento, costituiscono la prassi comune dell'histrio letterario.

So, d'altra parte, che è assai poco comune che un autore sia del tutto in grado di ricostruire il procedimento con cui ha raggiunto le stie conclusioni. In genere, le suggestioni, essendo nate confusamente, sono seguite e dimenticate nello stesso modo. Per mio conto, non condivido la ripugnanza di cui si è parlato, né ho mai la minima difficoltà a richiamare alla mente il progressivo svolgimento di una mia composizione; e poiché l'interesse di un'analisi, o ricostruzione, nei termini che ho indicato come un desideratum, è assolutamente indipendente da ogni interesse reale o fantastico per la cosa analizzata, non si considererà come un'offesa al decoro da parte mia mostrare il modus operandi con cui fu composta una delle mie poesie. Scelgo Il Corvo come la più generalmente nota. E mia intenzione dimostrare che nessuna parte di essa fu dovuta al caso o all'intuizione, che l'opera procedette, passo passo, al suo compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico.

Permettetemi di tralasciare come irrilevante alla poesia per sé, la circostanza – o, piuttosto, necessità – che mi fece nascere anzitutto l'intenzione di comporre una poesia capace di soddisfare ad un tempo il gusto popolare e quello critico.

Cominciamo, dunque, da questa intenzione.

Le prime considerazioni furono sull'estensione. Se un'opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, noi dobbiamo rinunciare all'effetto, immensamente importante, che è dato dall'unità d'impressione, perché interferiscono nella lettura le faccende del mondo e, così, ogni cosa in quanto totalità è subito distrutta. Ma poiché, ceteris paribus, nessun poeta può permettersi di fare a meno di qualsiasi cosa che possa giovare al suo fine, resta solo da vedere se nell'estensione ci sia qualche vantaggio per controbilanciare la perdita di unità ch'essa comporta. Dico subito di no. Ciò che chiamiamo una poesia lunga è, in realtà, una semplice sequenza di poesie brevi, cioè, di brevi effetti poetici. Non c'è bisogno di dimostrare che una poesia è tale solo in quanto eccita intensamente l'anima, elevandola; e tutti gli eccitamenti intensi sono, per necessità fisica, brevi. Per questa ragione almeno metà del Paradiso perduto è essenzialmente prosa, una successione di eccitamenti poetici in cui interferiscono, inevitabilmente, altrettante depressioni: poiché il tutto è privo, per la sua estrema lunghezza, di quell'importantissimo elemento artistico che è la totalità, o unità, d'effetto.

Appare dunque evidente che c'è un limite preciso – il limite di un'unica seduta – per la lunghezza di un'opera letteraria, e, ancora, che l'oltrepassare questo limite, che pure può essere vantaggioso in certi tipi di componimenti in prosa (che non richiedono unità), come il Robinson Crusoe, nella poesia è sempre un danno. Dentro questo limite, l'estensione di una poesia può essere portata ad avere un rapporto matematico col suo valore – in altri termini, con l'eccitamento o elevazione –, in altri termini ancora, con il grado di vero effetto poetico che è capace di produrre; poiché è evidente che la brevità deve essere in ragione diretta dell'intensità dell'effetto che s'intende produrre: questo, ad una condizione, che una certa durata è assolutamente necessaria per produrre un qualche effetto.

Tenendo presenti queste considerazioni, come pure quel grado di eccitazione che ritenevo non fosse troppo elevato per il gusto popolare e, insieme, non al di sotto del gusto critico, trovai subito quella che io concepii come la lunghezza adatta per la poesia che intendevo comporre: la lunghezza di circa cento versi. Essa ne conta infatti cento e otto.

Mi preoccupai subito dopo della scelta dell'impressione, o effetto, che dovevo produrre; e qui posso osservare che, in tutta la costruzione, tenni fermamente presente il proposito di rendere l'opera universalmente apprezzabile. Sarei portato troppo lontano dal mio presente argomento se mi mettessi a dimostrare un punto sul quale ho ripetutamente insistito e che, come la questione di ciò che è poetico, non ha il minimo bisogno di dimostrazione: alludo all'affermazione che la Bellezza è l'unico spazio legittimo della poesia. Tuttavia, poiché alcuni miei amici hanno mostrato la tendenza a darne una falsa rappresentazione, dirò poche parole per dilucidare il mio vero pensiero. Quel piacere che è, ad un tempo, il più intenso, il più elevante e il più puro si ha, credo, nella contemplazione del bello. Infatti, quando gli uomini parlano di Bellezza non intendono precisamente una qualità, come si suppone, ma un effetto – in breve, si riferiscono appunto a quella intensa e pura elevazione dell'anima – non dell'intelletto o del cuore, di cui ho detto e che si prova nella contemplazione "del bello". Ora, io dichiaro la Bellezza l'unico spazio della poesia semplicemente perché è un'ovvia regola dell'Arte che gli effetti siano fatti derivare da cause dirette, che gli obiettivi siano raggiunti con i mezzi più adatti, nessuno ancora essendo stato così stolto da negare che la particolare elevazione cui si allude è più prontamente raggiunta nella poesia. Ora, la Verità, o la soddisfazione dell'intelletto, e la Passione, o l'eccitamento del cuore, benché fino a un certo punto raggiungibili nella poesia, sono molta più rapidamente raggiunti nella prosa. La Verità, infatti, richiede una precisione, e la Passione una "familiarità" (i veramente appassionati mi comprenderanno), che sono assolutamente opposte a quella Bellezza ch'io sostengo essere eccitamento, o piacevole elevazione, dell'anima. Da quanto si è detto non consegue però, in nessun modo, che la passione e persino la verità non possano essere introdotte, e anche con vantaggio. In una poesia esse possono infatti servire a mettere in evidenza e ad aiutare per contrasto, come le dissonanze nella musica, l'effetto generale; ma il vero artista cercherà sempre, in primo luogo, di porle nella giusta subordinazione al fine principale e, in secondo luogo, di velarle, per quanto è possibile, con quella Bellezza che è l'atmosfera e l'essenza della poesia.

Considerando dunque come mio fine la Bellezza, mi proposi subito di determinare il tono della sua più alta manifestazione: e ogni esperienza ha dimostrato che questo tono è quella della tristezza. La Bellezza di ogni specie, nelle sue più alte manifestazioni, invariabilmente muove alle lacrime l'anima sensibile. La Malinconia è dunque il più proprio di tutti i toni poetici.

Avendo determinata la lunghezza, il fine e il tono, ricorsi al comune metodo induttivo allo scopo di trovare qualcosa di artisticamente piccante che potesse servirmi come nota fondamentale nella costruzione della poesia qualche perno su cui potesse girare l'intera struttura. Pensando accuratamente a tutti gli usuali effetti artistici – o più propriamente trovate, in senso teatrale – non mancai di scorgere immediatamente che nessuno era stato così universalmente usato come il refrain. L'universalità dell'uso fu sufficiente ad assicurarmi del suo valore intrinseco, e mi risparmiò la necessità di sottometterlo all'analisi. Ne esaminai, tuttavia, le possibilità di perfezionamento, e vidi subito che era alla stato primitivo. Nel suo uso comune, il refrain, o ritornello, non solo è limitato alla poesia lirica, ma dipende anche per il suo effetto dalla forza della monotonia, sia riguardo al suono che al pensiero. Il piacere è derivato soltanto dal senso di identità, di ripetizione. Io decisi di variare, e così accrescere, l'effetto, mantenendo, in generale, la monotonia del suono e variando continuamente il pensiero: vale a dire, decisi di produrre continuamente nuovi effetti variando l'applicazione del refrain; il refrain stesso restando, per la più, invariato.

Fissati questi punti, meditai quindi sulla natura del mio refrain. Poiché la sua applicazione doveva essere ripetutamente variata, era evidente che il refrain stesso doveva essere breve, dato che qualsiasi frase lunga avrebbe presentato insormontabili difficoltà nelle frequenti variazioni di applicazione. La facilità della variazione sarebbe stata naturalmente proporzionata alla brevità della frase. Queste considerazioni mi indussero subito a prendere un'unica parola come il miglior refrain.

A questo punto sorse il problema del carattere della parola. Essendo deciso ad adattare un refrain, la divisione della poesia in stanze fu, naturalmente, un corollario: il refrain dovendo appunto formare la chiusa di ogni stanza. Non c'era dubbio che una tale chiusa, per avere efficacia, doveva essere sonora e capace di un'intensità prolungata; furono queste considerazioni che m'indussero inevitabilmente ad adottare l' o lunga, come la vocale più sonora, in unione alla r, come la consonante più prolungabile.

Essendo stato così determinato il suono del refrain, fu necessario scegliere una parola che avesse questo suono e nello stesso tempo si adattasse il più pienamente possibile a quella malinconia che avevo già deciso dovesse essere il tono della poesia. In questa ricerca sarebbe stato assolutamente impossibile trascurare la parola Nevermore [Mai più]. Essa fu infatti proprio la prima che mi si presentò alla mente.

Il successivo desideratum fu un pretesto per il continuo uso della sola parola Nevermore. Considerando la difficoltà che subito trovai nell'inventare una ragione sufficientemente plausibile per la sua continua ripetizione, non mancai di accorgermi ch'essa nasceva unicamente dal preconcetto che la parola dovesse essere così continuamente o monotonamente ripetuta da un essere umano, non mancai di accorgermi, in breve, che la difficoltà consisteva nel conciliare questa monotonia con l'uso della ragione da parte della creatura che ripeteva la parola. A questo punto, mi nacque immediatamente l'idea di una creatura non razionale e tuttavia capace di parlare; e dapprima, molto naturalmente, pensai a un pappagallo; ma subito lo sostituii con un Corvo, come ugualmente capace di parlare e infinitamente più adatto per mantenere il tono stabilito.

Ero così arrivato al punto di concepire un Corvo – l'uccello di cattivo presagio – che ripete monotonamente una sola parola, Nevermore, alla conclusione di ogni stanza di una poesia di tono malinconico e della lunghezza di circa cento versi. Ora, senza mai perdere di vista l'eccellenza, o perfezione, in ogni punto, mi chiesi: "Fra tutti gli argomenti malinconici, qual'è, secondo il concetto universale dell'umanità, il più malinconico?" La Morte, fu l'ovvia risposta. "E quando" mi dissi "è più poetico questo argomento, fra tutti il più malinconico?" Dopo quanto ho già abbastanza ampiamente spiegato, la risposta, anche qui, è ovvia: "Quando è più strettamente congiunto alla Bellezza: dunque la morte di una bella donna è, indiscutibilmente, l'argomento più poetico del mondo, ed è ugualmente fuor di dubbio che le labbra più adatte a tale argomento sono quelle di un amante privato dell'amata".

Dovevo ora unire le due idee di un amante che piange la sua donna morta e di un Corvo che continuamente ripete la parola Nevermore. E dovendo unirle senza mai dimenticare l'idea di variare, ogni volta, l'applicazione della parola ripetuta, pensai che l'unico modo intelligibile per una tale unione fosse quella di immaginare che il Corvo usi la parola come risposta alle domande dell'amante. E fu qui che vidi subito l'opportunità che m'era offerta di ottenere l'effetto su cui avevo contato; cioè, l'effetto della variazione di applicazione. Compresi che potevo far proporre la prima domanda dall'amante – la prima domanda alla quale il Corvo avrebbe risposto Nevermore – che essa avrebbe potuto essere una domanda banale; la seconda meno, la terza ancora meno, e così via, finché alla fine l'amante, atterrito e scosso dalla sua primitiva nonchalance, dal carattere malinconico della parola stessa – dalla sua frequente ripetizione, e dalla considerazione della sinistra fama dell'uccello che la dice, è preso da superstizione e fa tutto agitato domande assai diverse, domande la cui risposta gli sta profondamente a cuore. Le fa parte per superstizione e parte per quella specie di disperazione in cui si gode nel tormentare se stessi. Non le fa interamente perché crede alla natura profetica o demoniaca dell'uccello (che, come la ragione lo assicura, non fa che ripetere una lezione meccanicamente imparata), ma perché prova un piacere frenetico nel formulare le sue domande in modo da avere dall'attesa Nevermore quel dolore che è il più delizioso perché il più intollerabile. Vedendo l'opportunità che così mi era offerta – o, più esattamente, che così mi si imponeva nella sviluppo della costruzione – stabilii anzitutto nella mente il climax, o la domanda finale – quella domanda alla quale per l'ultima volta sarebbe stato risposto Nevermore – quella domanda in risposta alla quale questa parola Nevermore avrebbe comportato il massimo immaginabile di dolore e disperazione.

Si può dire che la poesia abbia avuto il suo inizio a questo punto – cioè alla fine, dove ogni opera d'arte dovrebbe cominciare – poiché fu a questo punto delle mie considerazioni preliminari che cominciai a scrivere componendo la stanza:

 

"Profeta," dissi "creatura del male! Profeta tuttavia, sii tu uccello o demonio!

Per il cielo che s'incurva sa di noi, per il Dio che entrambi adoriamo,

Dì a quest'anima oppressa dal dolore se nel lontano Eden

Abbraccerà una santa fanciulla che gli angeli chiamano Leonora,

Abbraccerà una santa fanciulla che gli angeli chiamano Leonora."

                                       Disse il corvo: "Mai più".

 

Composi a questo punto tale stanza, anzitutto perché, avendo stabilito il climax, potessi meglio variare e graduare, secondo la loro serietà ed importanza, le precedenti domande dell'amante. E, in secondo luogo, perché potessi stabilirne definitivamente il ritmo, il metro, la lunghezza e la disposizione generale, come pure graduare le stanze che dovevano precederla, in modo che nessuna di esse la superasse nell'effetto ritmico. Se nel comporre il resto fossi riuscito a costruire stanze di maggiore efficacia, le avrei, senza scrupoli, indebolite di proposito, così da non perdere l'effetto della stanza culminante.

E ora posso parlare brevemente della versificazione. Come al solito, cercai anzitutto l'originalità. È una delle cose più inesplicabili del mondo che nella versificazione essa sia stata tanto profondamente trascurata. Ammesso che ci siano poche probabilità di varietà nel semplice ritmo, è per altro evidente che le varietà possibili del metro e della stanza sono assolutamente infinite – e tuttavia, per secoli e secoli, nessuno ha mai fatto, né mai è sembrato che pensasse di fare, cosa originale nella versificazione. Il fatto è che l'originalità (fatta eccezione per gli ingegni di forza veramente non comune) non è per nulla una questione d'istinto o di intuizione, come alcuni credono. In genere, per raggiungerla bisogna laboriosamente cercarla, e, benché valore positivo della più alta specie, a conseguirla si richiede meno l'invenzione che la sua negazione.

Naturalmente non pretendo nessuna originalità né per il ritmo né per il metro del Corvo. Il primo è trocaico, il secondo è l'ottametro acatalettico, alternato con l'ettametro catalettico ripetuto nel refrain del quinto verso, e terminante con un tetrametro catalettico. Meno pedantescamente, i piedi usati in tutta la poesia (trochei) consistono di una sillaba lunga seguita da una breve: il primo verso della stanza è formato di otto di questi piedi, il secondo di sette e mezzo (in effetti, due terzi), il terzo di otto, il quarto di sette e mezzo, il quinto di sette e mezzo, il sesto di tre e mezzo. Ora, ciascuno di questi versi, singolarmente preso, è già stato usato, e tutta l'originalità del Corvo consiste nella loro combinazione nella stanza; infatti, non è mai stato tentato nulla che si avvicini neanche lontanamente a questa combinazione. L'effetto di tale originalità di combinazione è aiutato da altri effetti insoliti, talvolta del tutto nuovi, derivanti da un'estensione dell'applicazione dei principi della rima e dell'allitterazione.

Il punto che dovette essere esaminato subito dopo fu il modo di mettere insieme l'amante e il Corvo: e la prima parte di questo studio fu l'ambiente. L'idea più naturale per questo potrebbe sembrare una foresta, o dei campi; ma mi è sempre sembrato che una precisa circoscrizione dello spazio sia assolutamente necessaria all'effetto di un avvenimento isolato: essa ha l'efficacia di una cornice per un quadro. Essa possiede un indiscutibile potere morale nel mantenere concentrata l'attenzione, e, naturalmente, non deve essere confusa con la semplice unità di luogo.

Decisi quindi di porre l'amante nella sua stanza, una stanza resagli sacra dai ricordi di colei che l'aveva frequentata. La stanza è descritta come riccamente arredata: e ciò semplicemente per realizzare quelle idee che ho già spiegato parlando della Bellezza come dell'unico argomento veramente poetico.

L'ambiente essendo così determinato, dovevo quindi introdurre l'uccello: e il pensiero di farlo entrare dalla finestra era inevitabile. L'idea di far sì che in un primo momento l'amante supponga che lo sbattere delle ali dell'uccello contro l'imposta sia un bussare alla porta, nacque dal desiderio di accrescere la curiosità del lettore col prolungarla e dal desiderio di sfruttare l'effetto incidentale che si ha quando l'amante spalanca la porta, trova tutto buio e allora fantastica che sia stato lo spirito dell'amata a battere alla porta. Feci la notte tempestosa, anzitutto per giustificare il fatto che il corvo cerca d'entrare, e, in secondo luogo, per ottenere un effetto di contrasto con la serenità (materiale) che c'è dentro la stanza.

Feci che il corvo si posasse sul busto di Pallade, pure per l'effetto di contrasto fra il marmo e le penne. Essendo sottinteso che l'idea del busto fu assolutamente suggerita dall'uccello, basterà aggiungere che fu scelto il busto di Pallade anzitutto come il più adatto all'erudizione dell'amante, e, in secondo luogo, per la sonorità del nome Pallade.

Anche verso la metà della poesia mi valsi della forza di contrasto, con l'intenzione di approfondire l'effetto finale. Per esempio, diedi all'entrata del Corvo un'aria fantastica che si avvicinasse al ridicolo quanto era ammissibile. Egli entra "con un gran sbattere d'ali":

 

Non fece nessun inchino, non si fermò o esitò un istante,

Ma con modi di dama o gentiluomo si posò sulla porta della mia stanza.

 

Nelle due stanze che seguono il disegno è realizzato in modo più ovvio:

 

Presto quest'uccello d'ebano alleviò i miei tristi pensieri

Con il grave e severo decora del contegno che si dava.

"Benché la tua cresta sia tagliata e rasa," dissi "tu non sei certo un vile,

Orrido, antico e tetro corvo qui giunto dalle rive della Notte;

Dimmi quale nobile nome porti sulle plutonie rive della Notte."

                                       Disse il corvo: "Mai più".

 

Molto mi stupii a udir parlare così chiaramente il goffo uccello,

Benché poco senso poca attinenza avesse la sua risposta;

Poiché certo ognuno converrà che mai creatura vivente

Ebbe il dono di vedere un uccello sopra la porta della sua stanza,

Un uccello su un busto scolpito sopra la porta della sua stanza,

                                       Con un nome come "Mai più".

 

Avendo così trovato l'effetto del dénouement, subito abbandonai il tono fantastico per un altro della più profonda serietà: questo tono comincia nella stanza che segue immediatamente all'ultima citata, con il verso:

 

Altro non disse il corvo, posato solitario sul placido busto, ecc.

 

A partire da questo punto l'amante non scherza più: non vede più nulla di fantastico nel contegno del Corvo. Parla di lui come di un "torvo, goffo, orrido, infausto, antico uccello", e sente i suoi "occhi di fiamma" bruciargli "il cuore". Questo cambiamento di pensiero, o di fantasia, da parte dell'amante, è inteso a produrne uno simile nel lettore: a creare uno stato d'animo adatto per il dénouement, che è ora realizzato il più rapidamente e direttamente possibile.

Con il dénouement propriamente detto – con la risposta del Corvo, "Mai più", alla domanda finale dell'amante se incontrerà l'amata in un altro mondo –, la poesia nella sua ovvia fase di semplice narrazione può dirsi compiuta. Fin qui ogni cosa è nei limiti dell'intelligibile, del reale. Un corvo che ha imparato meccanicamente le parole "Mai più", sfuggito alla custodia del suo padrone, dalla violenza di una tempesta è spinto a cercare d'entrare, a mezzanotte, da una finestra dalla quale brilla ancora un lume, la finestra della stanza di uno studioso, occupato in parte a meditare su un libro e in parte a sognare di un'amata defunta. La finestra è spalancata dallo sbattere delle ali dell'uccello; poi questo va ad appollaiarsi nel luogo più conveniente fuori dell'immediata portata dello studioso, che, divertito dall'incidente e dalla stranezza del contegno del visitatore, gli chiede, così per scherzo e senza attendere risposta, il suo nome. Il Corvo, interrogato, risponde con le sue parole usuali, "Mai più", parole che trovano immediata eco nel cuore malinconico dello studioso, che, esprimendo ad alta voce certi pensieri suggeritigli dall'occasione, è di nuovo sorpreso dalla ripetizione delle parole dell'uccello. Lo studioso capisce la situazione, ma, come prima ho spiegato, la sete che l'uomo ha di tormentare se stesso e, in parte, la superstizione lo spingono a fare all'uccello altre domande, che, grazie alla risposta già prevista: "Mai più", gli potranno dare il massimo della voluttà del dolore. Qui, con la esasperazione di questa auto-tortura, la narrazione, in quella che ho chiamata la sua prima e ovvia fase, trova una naturale conclusione, senza che siano mai stati oltrepassati i limiti del reale.

Ma in soggetti così trattati, per quanto abilmente, o anche con il più vivido corredo di particolari, c'è sempre una certa durezza o nudità che ripugna all'occhio dell'artista. Due cose sono invariabilmente richieste: una certa complessità o, più propriamente, un certo adattamento; e una certa suggestività, una corrente sotterranea di significati, per quanto indefiniti. È quest'ultima, specialmente, che dà a un'opera d'arte tanta di quella ricchezza (per usare un termine efficace preso dal linguaggio corrente) che noi amiamo troppo confondere con l'ideale. È invece l'eccesso del significato suggerito – è il renderla una soverchiante corrente di superficie anziché una corrente sotterranea rispetto al tema – che trasforma in prosa (e della specie più pedestre) la cosiddetta poesia dei così detti trascendentalisti.

In base a queste idee, aggiunsi le due stanze conclusive, dando ad esse una suggestività tale da pervadere tutta la narrazione che le precede. La corrente sotterranea di significato è resa per la prima volta manifesta nei versi:

 

"Togli il tuo becco dal mio cuore, e togli la tua forma dalla mia porta!"

                                       Disse il corvo: "Mai più".

 

Si osserverà che le parole "dal mio cuore" costituiscono la prima espressione metaforica nella poesia. Esse, con la risposta "Mai più", dispongono la mente a cercare una morale in tutto quanto è stato prima narrata. Il lettore ora comincia a riguardare il Corvo come una creatura emblematica, ma è solo all'ultimo verso dell'ultima stanza che si scorge chiaramente l'intenzione di farne l'emblema di un Triste e Immortale Ricordo:

 

E il corvo, immobile, posa ancora, posa ancora

Sul bianco busto di Pallade sopra la porta della mia stanza;

E i suoi occhi sembrano quelli di un demone che sogna,

E la luce della lampada ne riflette l'ombra sul pavimento,

E la mia anima da quell'ombra che fluttua sul pavimento

                                       Non si solleverà mai più, mai più!

 



[1] Titolo originale The Philosophy of Composition, in "Graham's Magazine", XXVIII, aprile 1846. La presente traduzione è quella di Elio Chinol in E. A. Poe, Opere scelte, a cura di Giorgio Manganelli, Mondadori, Milano 1971, pp. 1307–1322. Nello stesso volume si può trovare alle pp. 1214–1227 la poesia Il Corvo [The Raven], con testo inglese a fronte. Se avete una descrizione altrettanto lucida e circostanziata della genesi di un edificio, fatta dal suo progettista, mandatemela! J. L. Borges sospetta che Poe abbia volutamente esagerato nel razionalizzare il suo modo di procedere nella composizione della poesia: L'esercizio delle lettere è misterioso; ciò che pensiamo è effimero e conveniente più alla tesi platonica della Musa che non a quella di poe, il quale argomentò, o finse di argomentare, che la stesura di una poesia è un'operazione dell'intelligenza. Non cessa di stupirmi il fatto che i classici abbiano professato una tesi romantica, e un poeta romantico una tesi classica (Il manoscritto di Brodie, Biblioteca di Repubblica, Roma 2002, p. 6) [NdR].