di Tito Cauchi
Iole Chessa Olivares, nella silloge di poesie Oltre il sipario (Schegge d’oro – Club degli autori 1999)
 
“Oltre il sipario” è una plaquette pubblicata nella collana “Le schegge d’oro” da parte del Club degli Autori. Autrice è Iole Chessa Olivares nativa di Cagliari, ma residente a Roma, la quale ha alle spalle una lunga esperienza segnata da premi e antologie. Si tratta di 20 brevi poesie a rima sciolta, dalla lettura generalmente immediata, ma dal senso un po’ nascosto. L’impressione è che i segni impressi nella propria esperienza affiorano entro solchi, ovattati dalla sensibilità e dalla cultura dell’Autrice, senza esplosione; si tratta di pensieri e sentimenti tante volte meditati. La lettura mi è sembrata scorrevole, senza forzature, ma con tante metafore, sino ad apparire, in qualche caso, ermetica: risultato di un forte riserbo. Mi sono immaginato il sipario come il limite nella vita, tra quella interiore e quella relazionale. Una patina, un velo o forse una coltre o chissà forse una cancellata: qualcosa che copre o qualcosa di insormontabile? L’Autrice va oltre il sipario? Mi sono chiesto cosa c’è di qua e cosa c’è di là da esso e poi mi sono trovato con quanto ci sta in mezzo: la persona. Alla fine mi è sembrato che Lei rimanesse sulla soglia, sul limite, dibattuta, come ogni anima che irrequieta trova solo ‘entro’ se stessa la sua pace interiore… La mia impressione è che l’Autrice non lancia messaggi (volutamente), le sue parole si articolano senza forzature, ubbidendo solo a quanto suggeriscono i sentimenti che hanno sedimentato la loro zavorra.
La raccolta di Iole Chessa Olivares apre, senza infingimenti, la sua percezione del mondo oltre il sipario, ed io, forse con qualche suggestione nella lettura, mi sono lasciato irretire dalla musicalità dei suoi versi, come i seguenti: «all’orecchio dell’aurora / ...solo la reliquia di un sogno». Si concretizza un profilo umano netto e pare voglia significare, come suol dirsi, che come una rondine non fa primavera così una pietra non fa casa e, aggiungo, una casa non fa sempre famiglia. Questa è una riflessione che nei tempi di oggi è quanto mai attuale e le riflessioni, si sa, vengono fatte in momenti di bilanci e questi a loro volta sono il sintomo del peso che gli anni fanno sentire, anche in un cuore pure giovane. La Poetessa si immerge nelle aurore, negli spazi infiniti, nel sapore di un ‘corpo a corpo’ da cui vuole proteggere la donna che è in lei, riparandola ‘dallo schianto’. In questi ampi spazi «si apre il mare alla voce», voce inascoltata in quanto «nessuno vede il suo infinito». Il cuore si allarga, e sia pure per un solo attimo, una ‘ruga d’allarme’, le ricorda il trascorrere degli anni, vorrebbe preservare una certa situazione (se stessa, ma anche chi le sta accanto, che poi è, invece, assente). Perfino il suo Io è quasi assente, per rispetto del lettore, ma forse anche per controbilanciare il Tu inesistente: solo gli altri parlano per noi, sono gli elementi della natura o i crocicchi di tutti i giorni: in questo mi sembra di scorgere un tentativo di andare “oltre il sipario”. Uscendo allo scoperto fa un ultimo tentativo invocando «soltanto una parola ti prego» e subito dopo osserva «sfugge il passo... / all’andare indifeso del cuore» posando lo sguardo sul paesaggio rappresentato di un arazzo scoprendovi che «un filo rosso delle reliquie contrastava il volo» (il dolore o una ferita mai sopita). Una ferita richiama un ricordo africano «il profilo del cacciatore / che sgualcisce un canto / all’agonia del falò».
Ho cercato una lacrima, senza trovarla; ho cercato una donna e invece ho trovato un essere umano che si eleva al di sopra dei sessi, tuttavia senza spogliarsi della delicatezza propria della sua natura. C’è molto riserbo nei suoi versi in linea con la sua origine isolana: non urla, ma invia un richiamo agli affetti nella «labile presa di un’ora», il bisogno di un abbraccio prima che si rinsecchi lo spirito. E, come succede a molti artisti, specialmente ai poeti, Iole Chessa Olivares lenisce da sé il proprio dolore conferendo armonia ai suoi versi degni di essere accompagnati dal suono di una cetra. È il canto dei poeti inascoltati, condannati alla solitudine, di cui la Società preferisce non accorgersi.