di Aldo Cervo

Saffo, la decima musa di Antonia Izzi Rufo: un percorso tra classico e moderno (ed. Eva, Venafro 2002)

 
I poeti, a dispetto dei secoli che li separano, spesso si cercano. E sanno sempre parlarsi. Essi s’intendono fra di loro molto meglio di quanto non riescano a fare coi critici di professione, tavolta obnubilati nello spirito (e anche nell’intellingenza) da troppo rigidi schematismi mentali, o da effetti collaterali da sovraddosaggio filologico.
Si stabilisce fra poeti, specie se affini per genere letterario, un rapporto empatico, di interazione, per cui nel novello rivive l’antico. Accade allora il miracolo di un Callimaco che riascolti in Catullo, di Catullo che ritrovi in Foscolo, di Lucrezio che risorge in Leopardi, e via di tal passo fino agli ultimi esempi di fedelissimi evocatori di passate, e pur sempre fascinose sinfonie. Così esempli-ficando, nell’eterno avvicendarsi delle stagioni culturali, oggi tocca a Saffo di Mitilene riemergere dalle onde ionie - ammesso che vi sia mai annegata – per rivivere fra le guglie dolomitiche delle molisane Mainardi, richiamata dal fraterno “affettuoso grido” di Antonia Izzi Rufo. La scrittrice isernina, di Castelnuovo al Volturno, i cui noti soggiorni estivi sul “selvaggio” Adriatico d’Abruzzo le permettono, evidentemente, di scrutare – fantasticando – il non lontano orizzonte ellenico; che già da qualche anno – a quel che si legge – ama veleggiare a sud di Otranto per i mari che un tempo solcò, depresso, un Ovidio immalinconito dal presagio di un esilio senza ritorno (e forse anche dalla nostalgia di deliziosi confetti peligni irrimediabilmente perduti), riporta all’attenzione della cultura contemporanea la controversa figura della poetessa di Lesbo, rivendicandole, in una appassionata apologia, la femminilità completa, non inficiata da presunte devianze omosessuali, e una sostanziale verecondia nella celebrazione in versi del sentimento dell’amore, che connotò la sua vita. Secondo la poetessa molisana, invece, sono la bellezza interiore e la sensibilità dell’animo a imprimer di sé le umane forme, e siccome la poesia di Saffo di tale bellezza e sensibilità è incomparabilmente pregna, è il caso di non prender per buona la favola del noto modello plautino, il commediografo Menandro, che vorrebbe, di Saffo, accreditare una immagine sgraziata e infelice.
Sorprende, nel libro della Izzi Rufo, la vivacità del tono linguistico, il sentimento – forte – di una contiguità psicologica, e l’implicita, benché taciuta, confessione di una parentela poetica, che contribuiscono positivamente a riaccendere l’interesse del nostro tempo sulla passionale compatriota e coetanea di Alceo, la mitica decima musa che – ci perdoni la Izzi Rufo – vogliamo continuare a iden-tificare, in omaggio al Foscolo, con la fanciulla di Faone, le cui note malinconiche dai flutti ionici vengono oggi a sibilare – per merito di un agevole libretto – fra boschi e rocce dell’Alto Volturno molisano che per la genialità  della sua gente non finisce mai di stupire.