Incontro
e intervista con l’illuttore Gavino Ledda, autore di Padre
padrone e Lingua di falce:
verso una visione “pluridimensionale” della parola e della lingua
La
Sardegna, una regione solare in cui l’uomo e la natura si
fondono quasi in una primordiale simbiosi, era una delle pochissime regioni italiane in
cui non mi ero mai recato. Ed è stato proprio Gavino Ledda, il figlio più
indigeno dei figli della Sardegna, a spingermi in quella terra piena di
fascino e di mistero. Per me essere suo ospite per due giorni è stato
motivo d’orgoglio. La stima e la simpatia di un uomo, che, come confessa
lui stesso, nell’arco di una vita ha vissuto tutte le età umane dalla
civiltà nuragica al relativismo contemporaneo, mi ha certo onorato. Il 20
giugno mattina, appena giunto al porto di Olbia, prendemmo la strada per
Siligo, un piccolo paese del Logoduro dove, appunto, Gavino Ledda è nato
nel 1938. Durante il tragitto lo scambio di battute sembrava da parte mia
distratto e disattento, ma in effetti ero interessato, oltre che alle sue
parole, al paesaggio che assolutamente nuovo si presentava ai miei occhi e
che più di una volta ho paragonato alla Sicilia. Siligo è un paesino di
circa mille abitanti, adagiato alle falde di un monte di 834 metri sul
livello del mare, dove tutto è a misura d’uomo: le case di pochi piani,
le strade misurate, il traffico quanto basta per muoversi, gli abitanti
cordiali e ospitali: una situazione davvero lontana dalle caotiche città
in cui siamo abituati a vivere.
L’incontro
con Gavino non è stato dettato da spirito giornalistico o vacanziero, ma
si è trattato di un incontro di lavoro, in cui, lui, di espressione e di
linguistica maestro a tutti ed io allievo, ho cercato di capire i principi
essenziali della sua nuova modalità espressiva, cui egli ha dedicato
quasi vent’anni. «Ora qui affermiamo - Gavino dice - che la lingua
dell’uomo, linguisticamente, ancora aristotelico, è morta e con ciò
diciamo che tutte le lingue e tutte le scritture della specie umana sono
morte contemporaneamente nei confronti della complessità espressiva della
scienza moderna…” L’obiettivo è la creazione di una linguìllia -
così la chiama pure l’autore e della quale poi ci parlerà a lungo
sulla nostra rivista - di una modalità espressiva, più intima al flusso
della natura, finalmente materìssia, acquìssia, amorìssia per guarire
di scienza e di natura». Si tratta di una concezione pluridimensionale
della lingua che ormai può essere presentata compiutamente al mondo degli
studiosi e dei lettori, anche se il suo ‘Inventore-Illuttore’ ha
coscienza che per il momento non potrà essere popolare. Domani chissà!
Infatti sta tenendo dei corsi su tale teoria e modalità in alcuni
istituti scolastici ed ha intenzione di fondare una scuola a Sìlighes così
come chiama lui stesso in veste originaria il suo paese.
Durante
quei due giorni di lavoro, emozionante è stato vedere i luoghi, cari
all’autore e al lettore, in cui si sviluppa la narrazione di “Padre
padrone”: Baddevrùstana.
Dopo aver percorso una strada sterrata per alcune centinaia di metri,
proprio quasi quando il sole si adagiava sulle colline per offrire agli
uomini e agli animali quella pace e quella quiete che ridà forza per il
giorno successivo, ci trovammo davanti ad un ampio campo pianeggiante, che
volge verso un piccolo monte ancora di 834 metri incavato
ai suoi piedi e quasi
spaccato in due dalla Valle vallata valliva di Baddevrustana. Ai lati,
dove il pendio si faceva più dolce, emergevano due rocce, in una
incavatura delle quali un tempo gli uccelli Avvoltoi, mai rapaci, solevano
fare il nido: “Il nido dell’avvoltòio”.
«Proprio
qui ho vissuto fino all’età di vent’anni - diceva Gavino Ledda -
andando dietro il cane e il nostro gregge nei giorni assolati o piovosi e
cupi. Ma allora c’erano molti più alberi, che ora il fuoco e gli uomini
hanno distrutto. Qui da bambino sono diventato subito adulto». Era
davvero emozionante scrutare quei luoghi, sia per chi li aveva solo
immaginati attraverso il romanzo, sia per l’autore che vi aveva vissuto
buona parte della sua vita.
«Questi
alberi, queste colline, quest’odore di fieno sono pieni di fascino e
somigliano alla mia terra e alla mia campagna» dissi profondamente
commosso. Ci addentrammo così in quel campo che, seminato a grano, non
appartiene più alla famiglia Ledda, in quanto quel “padre padrone” «in
un momento di follia - dice lo scrittore quasi con rammarico - l’ha
venduto, ed avrebbe fatto bene a non venderlo perché era proprietà di
mio nonno, e avrebbe dovuto passare ai nipoti».
Il
sole rossiccio si nascondeva dietro il sughereto, quand’ecco Gavino alzò
gli occhi in alto e una luna quasi piena pendeva dal cielo. La
contemplammo per una attimo e lo scrittore pieno di commozione si ritrovò
bambino dicendo: «Mi ricordo che una volta, avrò avuto sette anni, mi
trovavo qui a pascolare il gregge, una luna simile a quella si innalzava
nel cielo. Era estate. Non so come, mi addormentai allo scampanio delle
pecore e, quando mi svegliai, al posto della luna vi ritrovai il sole:
avevo dormito un’intera nottata e non me ne ero neppure accorto. Di
questo però non faccio cenno nel romanzo. Ovviamente non potevo scrivere
tutto».
«In
“Padre padrone” accenni ad un uliveto che una forte gelata nel 1956
bruciò completamente e sconvolse tuo padre, vedendo andare in fumo anni
di sacrifici. Ancora esiste quest’uliveto?» chiesi.
«Sì,
vieni - mi disse - si trova dietro la casa» e ci volgemmo verso una
casupola dietro la quale vegetavano alcuni ulivi. «Tra un ulivo e
l’altro c’erano allora delle viti» commentò lo scrittore.
La
casa era semplice e abbandonata: una stanzetta, una cucina con un vecchio
forno cadente, un porcile, un recinto per mungere le pecore. Eppure quei rùderi
riuscivano ad emozionare profondamente chi vi aveva passato gran parte
della propria vita. «Ma guarda! - esclamò ad un tratto Gavino - questa
porta è ancora proprio quella che fece mio padre con le sue mani!». E i
suoi occhi si riempirono di commozione.
Si
rivide lì, in quella casupola, insieme ai suoi fratelli, alle sue
sorelle, a sua madre come tanti anni prima, insieme a quel ‘padre
padrone’ che credeva di avere diritto “di vita e di morte”, quasi
come un patriarca antico, su tutto e su tutti i propri familiari. Intanto,
a sviarci dall’emozione che riempiva entrambi, si udiva tra gli alberi
il canto del cùculo, mentre più in là i corvidi gracchiavano alla
ricerca di un nido dove trascorrere la notte. Quei luoghi mi sembravano
familiari. A sud il monte di Baddevrùstana, che nella mia immaginazione
paragonavo all’Etna, a nord, invece, una serie di colline che mi
somigliavano tanto ai Peloritani e ai Nebrodi. Anche il sole che stava
tramontando mi era familiare. Sentivo di trovarmi a casa mia, anche se lì
era tutto più umano e a misura d’uomo.
Ci
avviammo quindi verso la macchina e Gavino mi spiegò come si fa ad
estrarre il sughero dal fusto degli alberi: un’operazione delicata che
richiede attenzione per non fare soffrire e morire la pianta. L’amore
dello scrittore per la natura è totale e l’ha portato perfino ad
acquisire un terreno di circa cinque ettari da adibire a giardino
ortobotanico. «Io qui voglio metterci tutte le piante indigene della
Sardegna, creare quasi un museo naturale» mi diceva.
Giungemmo
a Siligo che ormai era buio. Erano trascorsi due giorni dall’inizio
della mia permanenza. L’indomani mattina avrei dovuto ritornare in
Sicilia e volli andare a salutare i suoi genitori: sua madre, una donna
quasi- novantenne, dalla cordialità e affettuosità sincera, e suo padre,
quel padre padrone, personaggio mitico che con i suoi novantacinque anni
segnava un tempo ormai sperduto, eppure il suo orgoglio e la sua curiosità
di conoscere non è stata vinta dagli anni. In quei personaggi vedevo due
mondi che erano stati in conflitto, ma ora si leggeva nei loro volti
antichi il rispetto di un figlio e anche l’orgoglio di un padre nuragico
che vede il proprio figlio dedito allo studio sapere.
Ma
il motivo essenziale che mi ha spinto ad incontrare Gavino Ledda è stato
voler conoscere la sua sconvolgente innovativa modalità
linguistico-espressiva.
«Il
ragionamento principale che io faccio - dice lo scrittore cominciando a
parlare della sua teoria - è che come nella pittura si è passati dalla
bidimensionalità alla tridimensionalità, e cioè alla prospettiva, e
quindi nella fisica moderna - nella fisica almeno con Einstein - anche
alla scoperta dello spazio-tempo e quindi alla quarta dimensione e dunque
alla pluridimensionalità, così anche nella lingua, specchio stravecchio
dell’acqua e quindi anche della mente, si deve e si può passare, ormai
e poi ormai e finalmente, dalla monodimensionalità, se non addirittura
dalla adimensionalità della convenzione aristotèlica, alla
rappresentazione della pluridimensionalità del flusso della natura.
E certo a fare ciò non bastò il ‘panta rei’ eracliteo che era
ed è stato solo un’intuizione mentale nuova e sconvolgente, ma pur
sempre un’intuizione filosofica solo sul pensiero che per allora non
poteva influire sulla lingua. E certo, successivamente, non bastarono
nemmeno la fisica galileiana, newtoniana e, ultimamente, nemmeno quella
einsteiniana a dare alla parola e alla lingua umana, sempre e ancora
aristotelica in tutte le gole umane, a dare, appunto, degna espressività
e sublime rappresentazione al flusso della natura! E allora chi fu mai e
chi a far esplodere e a far nascere questa parola pluridimensionale
finalmente esprimente il flusso della natura di cui si parla sin dagli
albori della civiltà e soprattutto grazie ai filosofi greci? Fu
sicuramente il respiro e il pàlpito mentale di un uomo, pastore e
contadino insieme che, fortunatamente, coinvolto in condizioni matèriche
particolari, grazie alla sua esperienza narrata, poi, in “Padre
padrone” a dare dignità alla gola umana nell’atto di parola e
nell’atto di ascrittura. Fu sicuramente il pàlpito e l’andatura
mentale di un uomo, antico e futuro insieme, che entrò in risonanza e
risuonò nel cuore dei regni di natura, nel flusso dei minerali delle lave
pietre Nuràghi, nelle linfe
lusso dei vegetali, nei respiri vagiti
degli animali, nei mufloni, ovini selvatici della Sardegna e nei
cani gioia di vìvere delle terre della terra.
Eccoci qua allora, il flusso di natura è spazio-tempo
pluridimensionale e questo criterio è una metamorfosi senza trègua che
spinge noi a diventare finalmente uomini del tempo nostro di natura e
persino del tempo nostro colostro, cioè sospinge noi a quattràscere e a
quattràghere: a divenire in quattro per quattro e in più dimensioni
sempre e soprattutto quando ragioniamo e parliamo esprimendoci sulle cose
quattràghi. Il che significa, appunto, riessere finalmente consapevoli di
rinascere così come già in realtà bevemmo e nascemmo nel luogo sfogo di natura: rinascere e
riscoprire finalmente la quarta dimensione - quindi la pluridimensionalità
mai acquisita nell’arte perché mai abitatrice della mente coscienza -
finalmente e soprattutto nella sfera vera del linguaggio e anche sotto
l’aspetto linguistico e quindi parlare e scrivere, agitare e
rappresentare lo spazio-tempo sempre per come è persino intorno e
soprattutto dentro le parole che produciamo. La lingua così, così ormai
linguìllia, finalmente così acquisirebbe e acquisirà
vitalità e personalità propria e quattràghica, cioè
quadridimensionale come base essenziale della pluridimensionalità!
Quadridimensionalità e personalità basica e pluridimensionalità fluìdica,
già espressa almeno ironicamente nel titolo di una recente opera mia,
“E così quattracque natura”, dove il passato remoto “quatràcque”
vi deriva dal verbo quattràscere, inventato appositamente da me, ormai Gaínu
de sos àghes, per esprimere il flusso lusso di natura, da quattràscere,
proprio da quattro + il suffisso verbale incoativo àscere. Gaínu de sos
àghes con la parola plurivèrsica - finalmente làvica e più che
eraclitea ed empedoclea e aristotelica e sicuramente ormai più che
gallileiana e newtoniana e sicuramente einsteiniana e gaìnica insieme -
cerca dunque di raggiungere i primordi della cosmologia tuttivèrsica (mai
acquisita in mente), fisicamente basata sull’alito selvàtico del
muflone e sullo spazio-tempo einsteiniano, cioè di creare una lingua
linguìllia finalmente oltre la convenzione aristotelica che come più
volte ho detto - in vari seminari delle Scuole superiori, per esempio, al
Liceo Azuni di Sassari e nell’Istituto tecnico di Atri - sarebbe dovuta
morire già con Gallileo Gallilei! E certo ricreare ex novo e
ristrutturare anche un sardo - e certo anche un italiano e certo un
tedesco e un inglese e così anche tutte le altre lingue che solo
spudoratamente vengono usate ancora come vive -
purificato di tutte quelle “bòrie scorie” che si sono
sovrapposte diacronicamente alle lingue in generale senza tenere conto mai
della scienza e dello scibile affidato, ormai, solo all’espressione
cibernetico-matematica! E certamente -aghe per il sardo è il suffisso
mobile produttivo essenziale
e nello stesso tempo cèllula essenziale - ciascun pòpolo, ciascun poeta
glottologo, pòpolo per popolo e lingua per lingua, individuerà il
proprio suffisso e la propria cèllula essenziale - che gli permetterà di
eliminare quei termini che io almeno per il sardo definisco ‘vàcui
pisanischi’, cioè apporti vuoti apportati dai pisani, i quali per
diversi secoli hanno dominato ed influenzato negativamente la cultura
isolana soffocandola sempre e uccidendola sempre!».
E il romanzo
“Padre padrone”?
«E
se “Padre padrone” è scritto ancora in una lingua tradizionale e
comunque aristotèlica (lontana e aliena ancora dalla dimensionalità
delle cose referenti e soprattutto lontana e aliena dalla dimensionalità
tridimensionalità prospèttica che appartenne solo alla pittura a partire
da Brunelleschi e anni luce e
anni luce e bùio aliena dalla pluridimensionalità: conquista espressiva
gaìnica solo di Gavi-no Ledda e solo recentissima!!!), tuttavia sta
comunque alla base di una scalata conoscitiva e culturale della mia
scrittura. Epperò se io avessi scritto “Padre padrone”
in sardo adimensionale in vacuo pisanìsco - nel sardo mnemònico,
quello cioè già strapisanìsco e per giunta persino poco aristotelico -
avrei insultato tale lingua, perché allora in effetti, pur parlandola,
non la conoscevo se non oralmente, nel senso che non sarebbe mai diventata
certamente la prima lingua pluridimensionale del mondo e che, ora, come
tale e sale pluridimensionale, abita e si agita
nella mia mente e di cui ho già dato un saggio, in “Padre
padrone e Recanto”».
Ma
in cosa consiste questa nuova espressività linguistica pluridimensionale?
«Ogni
parola, appunto, è formata da radice, suffisso essenziale ed infissi
magnetici. La radice in qualunque parola e lingua non può e deve essere
mai eliminata, altrimenti si perderebbe la storia e il significato
originario e primordiale
della parola e della lingua stessa. Tutto il resto, opportunamente
ìndica la parte morfologica e morfematica e pragmatica della
parola nuova essenziale fluìdica, rappresentante ed esprimente, appunto,
finalmente la pluridimensionalità delle cose, corpi oggetti referenti
pluridimensionali».
Ma
quale morfematica utilizzi, Gavino Ledda degli àghes? Facciamo un esempio
ai nostri lettori.
«Se
noi diciamo scrittore o scrittrice, utilizziamo non solo un termine
vecchio e stravecchio, ma ormai diremmo quasi un insulto banale alla
scrittura».
E allora?
«Allora
bisogna usare un essenziale espressivo perché finalmente si differenzi
l’arte di Leonardo da Vinci dal comune agitatore delle azioni pure
evocabili nei verbi di competenza leonardesca, scolpire, scrivere,
inventare. E chi è
l’agitatore non comune, lo scrittore fuori dalla norma? Sicuramente,
Dante, Leonardo, Leopardi. In altre parole, Leonardo da Vinci non è stato
mai uno scrittore comune, ma sicuramente è stato un ‘illuttore’, cioè
un illuc-tore, che ha esercitato una mansione attraversando saltando
spazio nuovo dei vari verbi che hanno storicamente manifestato tutta la
sua sfera conoscitiva completamente nuova: l’illut-tore è colui che da
uno stato primordiale giunge ad uno stato di profonda penetrazione e
conoscenza, è colui che ha avuto una grande intuizione nuova per esempio
come Ar-chimede e ha saltato da uno spazio acquisito a uno ancora da
acquisire. Quindi il vero scrittore saltatore autentico è lo ‘scrittilluttore’,
il vero musicista ultra è un musilluttore, il vero inventore è un
inventilluttore. Da questo punto di vista molti termini ‘aristotelici’
non hanno più senso e sono chiaramente superati concettualmente. Il
linguaggio comune diventa banale e un insulto in bocca di chi lo parla e
nelle orecchie di chi lo ascolta. Per
esempio la parola ‘Universo’, che cosa èvoca e che vuol dire?
Nulla - mi sono sempre chiesto io, Gavino Ledda, Illuttore, verbilluttore
e scrittilluttore - nulla perché come tale, tale enormità non è mai
esistita, in quanto da sempre enormità pluridimensionale. Non ha più
senso rievocarla così, in quanto quest’enorme struttura è il frutto di
un Big Bang iniziale ed essenziale anche lui che si espande verso nuovi
spazi illimitati per chissà quanti miliardi di anni luce ancora,
autosviluppandosi ‘Versitutto’
dal sempre pure suo. E semmai preparandosi a ritornare ai mini termini per
riessere ‘Tuttiverso’. Questi due termini - Versitutto e Tuttiverso -
sì che hanno referente reale e significati essenziali e scandiscono un
procedimento più realistico e matèrico. E così procedendo per tale
verso, lo stesso è per la parola atomo. ‘Atomo’ significava ‘non
divisibile’ (vedi Leucippo, Democrito) e finché per la mente umana era
così era anche giusto. Oggi però, che senso ha dire ‘non divisibile’
per atomo in un mondo in cui l’atomo è stato scomposto in nucleo,
neutroni, elettroni, protoni? Sarebbe meglio definire quindi la più
piccola struttura elementare della materia epperò ‘il divisibile per
eccellenza’. Solo così ci si può
orientare verso l’espressione e la rappresentazione della
pluridimensionalità dello spazio-tempo. E quattracque natura, come già
in “aurum Tellus” e nel mio film “Ybris” sono anèliti verso il
Tuttiverso e il Versitutto insieme ».
Illuminante
e coinvolgente tutto ciò, molto interessante. Ma il raccordo tra le varie
parti dell’e-spressione come avviene?
«A
questo punto e in questo modo praticamente la convenzione linguistica
aristotèlica tradizionale viene supe-rata e un esempio per tanti altri è
nella parola amissività, composta,
visibilmente appunto, da am- -ipse -ivo -ità.
E amissività quindi non è altro che un amore profondo del
soggetto che nello stesso tempo è espressivo, identico ed autentico:
issivo e issività. Ecco la quadridimensionalità della lingua che così
assume anche un suo valore, in senso lato, fisico-matematico, oltre che
concettuale e con tutto il suo valore scrittorio che ci interessava
moltissimo. Se vogliamo, assurdamente, ma molto assurdamente, potrem-mo
costruire la seguente proporzione:
Freud
: Pirandello + sicilia = Einstein : Ledda + natura + Baddhevrústana Sardèna,
nel senso che come Pirandello per la profondità psicologica dei suoi
personaggi ha tenuto presenti gli studi di Freud, così Ledda ha tratto lo
spunto per la pluridimensionalità mentale e linguistica della sua lingua
da Einstein, ma soprattutto dalla natura e dalla sua esperienza con la
natura fluente e musilluttrice. La parola modificata diventa quasi una
rappresentazione visibile dello spazio-tempo, diventa ‘quattràghe’ (e
in sardo battarághe). Nascono allora parole come essèscere, con una
suffissazione incoativa e forte, col significato di crescere nel tempo,
divenire diacronicamente e inesorabilmente come le reazioni nucleari
naturali presso le stelle. In questo senso si possono formare delle
equazioni:
Essere : essèscere = nuovo : novissivo
Essere : essèscere = corpo : corpìssia
Essere : essèscere = amante : amantìssia
Essere :
essèscere = uomo : ominìssia
Essere : essèscere = patente : patentìssia».
Tale teoria viene
già presentata artisticamente nel “Recanto”, un’opera
lirico-poetica posta in appendice all’ultima edizione di “Padre
padrone” Rizzoli, Milano 1998 e ancora 2001. In quest’opera l’illuttore
Gavino Ledda diventa ississivamente issivo, cioè in maniera davvero
appropriata, profondamente se stesso. Infatti ississivo è colui che è se
stesso in maniera costante e profonda. È nato, dunque, un nuovo modo di
concepire la lingua?
«Probabilmente
l’eureca del tremila è arrivata, sì» - risponde Gavino Ledda e sarà
lo stesso scrittilluttore a dircelo nei prossimi numeri del Convivio.
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