di Angelo Manitta

Astralità e liricità in Autopsia d’immagine di Maria Teresa Liuzzo (A.G.A.R. Editrice – Reggio Calabria 2002)

 

La poetessa calabrese Maria Teresa Liuzzo vanta una corposa produzione poetica ed anche una messe di giudizi critici. Molti infatti si sono interessati alla sua opera, tra cui F. Ulivi, G. Barberi Squarotti, G. Amoroso, A. Cappi. “Autopsia d’immagine” è l’ultima silloge, un volume di 224 pagine, con prefazione di A. Crecchia e in appendice una sintesi dei più significativi giudizi sull’autrice. Nella silloge «c’è una donna che si fa centro irradiatore di una sostanza interiore da decifrare, capire nella sua essenza profonda, ma anche nella sua genesi ed evoluzione. Bisognerebbe anzitutto scoprire e analizzare le radici di un atteggiamento così palesemente e volutamente autolesionista, autodistruttivo in cui l’essere si determina e si pone in un’antitesi permanente con il mondo» si legge nella prefazione. In realtà è proprio l’analisi esistenziale ad avere la prevalenza nella poesia della Liuzzo, che scava nell’intimo con delicatezza e sensibilità d’animo. E pur avendo una visione fondamentalmente pessimista della vita, ti fa desiderare ciò che è bello ed affascinante e ti fa ammortizzare la negatività dell’esistere. Ma la sua, più che una poesia esistenziale, è una poesia ‘daimoniaca’, come dire interiorizzata: «Giungono voci dalle stanze / in rebus che il cuore non decifra, / immagini di un lontano esistere / battuto a ritmi di pioggia». Nella lirica “In un tempo che ci annulla” emerge la paura del nulla, quasi in una preghiera laica dell’esistenza, nella quale gli elementi naturali sono in rapporto tra di loro, perché creati dalla stessa evoluzione cosmica. Il tempo diventa misura di ogni cosa. Il tempo e il ricordo scandiscono le emozioni, benché prevalga l’attimo presente in un continuo e perpetuo sogno inconscio che quasi guida l’esistenza umana: «Amare un sogno, / vibrare / della tua gioia / che ignora la colpa / e libera l’attesa / delle nebbie». Da qui “Autopsia d’immagine”, quasi un sezionare e un analizzare pensiero e azione. E la donna-poetessa, con la sua universalità di sentire, si mostra portatrice di un equilibrio universale e intimo, quasi utopia, attraverso un percorso di dolore e di morte che debbono essere ipnotizzati per evitare trasposizioni metastatiche. Tale processo è evidenziato da concetti in contrapposizione: amore-morte, luce-tenebra, negatività della vita-bellezza della vita. Fine ultimo è la salvezza e l’immortalità, non quella dell’anima, ma dello spirito, immortalità che si identifica con l’eternità, in quanto la luce ha il sopravvento sulla morte e sul deserto. Tale concetto è espresso dalla Liuzzo attraverso termini in costante antitesi, e per di più nello stesso verso. Faccio qualche esempio: profumo di un fuoco, catene di fiori, crudeltà di pensieri, lucida follia, astro d’oscurità, bufere di luce, colore e ombra, le perle si disperdono, alba di sangue. Ma l’espressione è sempre delicata, intrisa com’è di una presenza irruente e impellente di immagini naturali, quasi elementi di apotropaizzazione del male e della negatività, come arcobaleno, lampo di sole, crepitio di foglie, sentiero di luna, elementi che evidenziano l’astralità e la liricità della poesia della Liuzzo, ma nel contempo il concetto di infinito e di indefinito, che attraverso il silenzio cosmico spingono alla ricerca di se stessi e di quell’umanità perduta. Prevale allora una pittoricità di immagini e un intreccio di metafore che convincono sempre il lettore e lo stimolano ad un abbandono lirico. In effetti, secondo l’espressione del poeta greco Simonide, nella poetessa calabrese «la poesia è pittura che parla, e la pittura si trasforma in poesia silenziosa», mentre la sua musicalità «ha un fascino che basta ad addolcire il cuore più selvatico» per dirla con il commediografo inglese Congreve.