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La poetessa calabrese Maria Teresa
Liuzzo vanta una corposa produzione poetica ed anche una messe di
giudizi critici. Molti infatti si sono interessati alla sua opera,
tra cui F. Ulivi, G. Barberi Squarotti, G. Amoroso, A. Cappi.
“Autopsia d’immagine” è l’ultima silloge, un volume di 224 pagine,
con prefazione di A. Crecchia e in appendice una sintesi dei più
significativi giudizi sull’autrice. Nella silloge «c’è una donna
che si fa centro irradiatore di una sostanza interiore da
decifrare, capire nella sua essenza profonda, ma anche nella sua
genesi ed evoluzione. Bisognerebbe anzitutto scoprire e analizzare
le radici di un atteggiamento così palesemente e volutamente
autolesionista, autodistruttivo in cui l’essere si determina e si
pone in un’antitesi permanente con il mondo» si legge nella
prefazione. In realtà è proprio l’analisi esistenziale ad avere la
prevalenza nella poesia della Liuzzo, che scava nell’intimo con
delicatezza e sensibilità d’animo. E pur avendo una visione
fondamentalmente pessimista della vita, ti fa desiderare ciò che è
bello ed affascinante e ti fa ammortizzare la negatività
dell’esistere. Ma la sua, più che una poesia esistenziale, è una
poesia ‘daimoniaca’, come dire interiorizzata: «Giungono voci
dalle stanze / in rebus che il cuore non decifra, / immagini di un
lontano esistere / battuto a ritmi di pioggia». Nella lirica “In
un tempo che ci annulla” emerge la paura del nulla, quasi in una
preghiera laica dell’esistenza, nella quale gli elementi naturali
sono in rapporto tra di loro, perché creati dalla stessa
evoluzione cosmica. Il tempo diventa misura di ogni cosa. Il tempo
e il ricordo scandiscono le emozioni, benché prevalga l’attimo
presente in un continuo e perpetuo sogno inconscio che quasi guida
l’esistenza umana: «Amare un sogno, / vibrare / della tua gioia /
che ignora la colpa / e libera l’attesa / delle nebbie». Da qui
“Autopsia d’immagine”, quasi un sezionare e un analizzare pensiero
e azione. E la donna-poetessa, con la sua universalità di sentire,
si mostra portatrice di un equilibrio universale e intimo, quasi
utopia, attraverso un percorso di dolore e di morte che debbono
essere ipnotizzati per evitare trasposizioni metastatiche. Tale
processo è evidenziato da concetti in contrapposizione:
amore-morte, luce-tenebra, negatività della vita-bellezza della
vita. Fine ultimo è la salvezza e l’immortalità, non quella
dell’anima, ma dello spirito, immortalità che si identifica con
l’eternità, in quanto la luce ha il sopravvento sulla morte e sul
deserto. Tale concetto è espresso dalla Liuzzo attraverso termini
in costante antitesi, e per di più nello stesso verso. Faccio
qualche esempio: profumo di un fuoco, catene di fiori, crudeltà
di pensieri, lucida follia, astro d’oscurità, bufere di luce,
colore e ombra, le perle si disperdono, alba di sangue. Ma
l’espressione è sempre delicata, intrisa com’è di una presenza
irruente e impellente di immagini naturali, quasi elementi di
apotropaizzazione del male e della negatività, come arcobaleno,
lampo di sole, crepitio di foglie, sentiero di luna, elementi
che evidenziano l’astralità e la liricità della poesia della
Liuzzo, ma nel contempo il concetto di infinito e di indefinito,
che attraverso il silenzio cosmico spingono alla ricerca di se
stessi e di quell’umanità perduta. Prevale allora una pittoricità
di immagini e un intreccio di metafore che convincono sempre il
lettore e lo stimolano ad un abbandono lirico. In effetti, secondo
l’espressione del poeta greco Simonide, nella poetessa calabrese
«la poesia è pittura che parla, e la pittura si trasforma in
poesia silenziosa», mentre la sua musicalità «ha un fascino che
basta ad addolcire il cuore più selvatico» per dirla con il
commediografo inglese Congreve.