di Franco Dino Lalli
Silvano Messina, Cosa mi resta della vita (poesie 1984/86) (Ed. Collettivo Vivamacondo)
 
La chiave di lettura della silloge di Silvano Messina, Cosa mi resta della vita, sta proprio nel suo titolo, nel suo intrinseco e struggente interrogativo. Esso diventa la sintesi di una ricerca poetica volta all’appropriazione del senso più intimo dell’esistenza e dei suoi aspetti. La poesia di Silvano Messina oscilla così tra due estremi: da un lato un non confortante inventario dei fini e dei comportamenti dell’uomo e dall’altro quello più rassicurante dell’amore inteso nell’accezione più ampia e più estesa. In questi alternanti segni dell’esistenza è racchiuso il difficile equilibrio del poeta, di «colui la cui rivolta vive nel cuore» che convive con l’amore che è l’«unico scopo della mia folle vita». Emblematica a questo proposito è la poesia iniziale della silloge e soprattutto la sua immagine, quella di un vagabondo con il quale il poeta si identifica, quasi facendo assurgere la sua figura alla personificazione della sua essenza. E la poesia diventa il canto del vento, di un vento del Sud, quel vento che soffia sulle foglie cadute degli anni giovanili mentre al poeta rimane soltanto l’interrogarsi sul senso della vita, scavare il suo solco e seminare «erba inutile», poi chiedere al vento stesso di trascinare via anche il suo canto. «Bacio i miei semi d’amore / e li lascio cadere nel vento»: ancora una volta il suo pesante ed impalpabile fardello di pensieri, la sua inconsistente capacità fisica lasciata trasportare dal vento, alla ricerca di una verità sottile, un’inconsistente certezza affidata alla voce della poesia, che cerca di rincorrere le verità nascoste. Nella ricerca della bellezza, l’ideale coronamento per chiunque vaga nello smarrimento e nella desolazione, il poeta incontra il divino, «il fondamento delle nostre esistenze», la forma essenziale di bellezza nell’amore eternamente donato. Con questo dono egli rivolge il suo appello agli uomini affinché smettano «di lottare per la materia», esortandoli a cercare, al contrario, forme sincere di vita, «il silenzio di un posto di pace», il rispetto e l’amore verso gli aspetti più semplici e radiosi della natura, e così «la voce dell’universo, / il suo infinito silenzio è dentro di te / ascolta la sua pace infinita, / il suo palpito leggero, lento, immenso». Questo messaggio così semplice eppure tanto difficile da acquisire è il messaggio di Silvano Messina condensato in questa sua opera dallo stile colloquiale ed immediato, dalle immagini avvolte di una semplicità luminosa, come luminose e semplici sono le verità più misconosciute, tutte quelle verità che l’uomo dovrebbe far sue per avere un’esistenza motivata e quindi con un fine ben definito.
 

Silvano Messina, socio del Convivio, ha partecipato con successo al primo Raduno Poeti Siciliani, indetto dal centro Promozione Culturale Mario Gori, dove ha recitato due sue poesie inedite: “Nuccia” e “le mie sigarette”. Uguale affermazione ha riscosso a Vittoria (RG) durante un recital in omaggio alla memoria di Gianni Ferraro. Il 23 giugno 2002 gli è stata assegnata medaglia d’argento e diploma di merito al premio letterario nazionale “Cesare Pavese–Mario Gori”, a Chiusa Pesio (Cuneo), classificatosi  al 10° posto con il suo volume di poesie “Cosa mi resta della vita”.