Savina Caminiti: La fenice
(I Parte)
 
Ritengo che in ciascun essere umano ci sia sempre (a monte) un vago sentore di Eden perduto, da dove si viene catapultati sulla terra al momento della nascita. Tale sentore perdura in ciascun infante per un periodo variabile a seconda dell’impatto, più o meno precoce o lento, più o meno brusco o morbido, che ogni creatura umana realizza con la realtà terragna.
Il grande poeta espressionista Hugo von Hoffmanstal nella sua “Ballata della vita esteriore” ha scritto: «E i bimbi crescono / con gli occhi fondi che tutto ignorano. / Crescono e si spengono / e ogni uomo segue il suo cammino». C’è indubbiamente qualcosa di fatale in questi versi così pregnanti di vita e di morte. Se facciamo un attimo mente locale alla espressione: «I bimbi crescono / con gli occhi tondi che tutto ignorano» avvertiamo subito, inquietante, la sensazione di «quegli occhi fondi che tutto ignorano», poiché sottintendono un enigma la cui spiegazione potrebbe essere la seguente: ignorano tutto di questo mondo ma la loro profondità allude, viceversa, alla visione, per noi irraggiungibile, per essi ancora reale e presente, di una luminosa realtà paradisiaca: da qui la profondità di quello sguardo, distante anni-luce dalla realtà degli adulti, che ‘quel’ medesimo paradiso hanno smarrito nei meandri dell’infanzia.
Tutto questo preambolo per spiegare l’incipit di questa raccolta poetica di Savina Caminiti (Ed. Letteraria Internazionale, Ragusa 2000) che inizia con la bellissima poesia “Perché temete”, una sorta di dialogo fra l’umano e il divino che ci offre subito la possibilità di inoltrarci in questo originale mondo poetico, fatto appunto di sofferte situazioni esistenziali e di vaporose levità extrasensoriali. Tale dualismo si fa sentire abbastanza vivacemente già nella prima poesia di questo volume (come si è già accennato) attraverso l’antagonismo fra i due mondi che si pongono come duellanti a contrastare l’uno le realtà dell’altro, quasi a sottolinearne la diversità e, di conseguenza, le anomalie della coesistenza. «I sorrisi di Dio», nel chiedere scusa per il disturbo che si accingono a togliere, sono in stridente antitesi con chi non li attende. Si scatena, immediato, un conflitto che sottintende anche lo stupore dell’una e dell’altra parte. Se i «sorrisi di Dio» si sentono infatti estranei o circondati da estraneità su questo pianeta, anche «chi non li attende» si sente, a sua volta, estraneo e non avvezzo a ‘risonanze’ così remote, né ad ‘echi lontani’. È come lo squadrarsi e il misurarsi di due avversari, posti l’uno di fronte all’altro, reciprocamente incapaci di riconoscersi e solo in preda ad imbarazzante disagio, come in presenza di un alieno piombato per sbaglio su pianeta sconosciuto.
Da questo preambolo è facile immaginare quali saranno gli sviluppi di questo contrasto cielo-terra, spirito-materia, tempo-eternità, finito-infinito. Si mettono in moto interrogativi inquietanti che scaturiscono da ricerche di identità e di significato, antiche quanto l’uomo, ma che si ripropongono, prepotentemente nuove, in ogni epoca e in ogni generazione. In questa nostra epoca, che si suole definire post-moderna, forse il conflitto fra mistero e realtà ha perduto quello smalto di interessi e di attenzioni con cui in passato si affrontavano gli argomenti in oggetto. E questa perdita ha dato luogo a un certo senso di apatia o, quanto meno, nei casi più positivi, a un certo tipo di ansietà. Come dice l’autrice, che parla di «sorrisi di Dio» estranei al nostro pianeta, in questa drammatica era post-moderna si può dire spento o, quanto meno, del tutto differente il contatto diretto con Dio e la prese di coscienza della preghiera umana quale mezzo insostituibile e infallibile della comunione con Dio. Il risultato comunque è sempre un contrasto tenebra-luce che si impadronisce della vita soggiogandola con ritmi alterni.
A questo punto è chiaro che il dramma non può non essere  vistosamente trafitto da punte acerbe, anche nel bel mezzo di situazioni che normalmente dovrebbero essere gratificanti, come, ad esempio, «il casto bacio sulla fronte» per siglare un congedo amico. Attenzione però a «non toccare l’anima» (pag. 26). Avviene lo stesso allorché, giovinetta, in compagnia di un’amica, «le serate levitavano senza peso… in un lungo dilettevole indugiare». Ma anche allora come ora la Verità incombeva duramente, inter-ferendo nella dolcezza dell’incontro e dell’indugio e corrodendone il sapore.
Ovviamente il primo dissidio è quello del Tempo. Essere catapultati da una dimensione atemporale (cioè eterna) ad una dimensione temporale (cioè finita o, quanto meno, destinata a finire) non è certo condizione esaltante. In questo ‘discrimen’ c’è però quasi un punto di contatto fra tempo e atempo, allorché si considera con sgomento il fluire di questo tempo, apparentemente così tipico dell’avventura esistenziale, prettamente pertinente alla brevità della vita umana sulla terra, ma in realtà anch’esso non poco problematico se lo si considera nei limiti sfuggenti di un principio e di una fine. C’è infatti certezza, storicamente matematica, sulla data esatta della apparizione del primo uomo sulla terra? E c’è una data, altrettanto storicamente esatta, sulla fine dell’avventura umana su questo pianeta? Sono due date assolutamente ignote, incerte, non scientifiche né scientificamente controllabili, cosicché, nel fluttuare di simili oscurità, il tempo diventa quasi atempo, anche se non eternità. Perciò l’autrice di questi versi ha ben ragione di affermare che «il tempo affonda le sue radici / in un’alba immortale» e ha movenze di «fluire eterno».
A questo punto (è scontato) tutto ridiventa mistero ‘arcano’, impossibilità cioè di decifrare non solo l’essenza bensì anche i metri dell’esistenza terrena, ovviamente in riferimento all’umanità, non all’individuo. E l’individuo? Forse non a caso, a questo punto, riemerge dall’ombra la figura carismatica di un grande letterato italiano (pag. 27) che, oltre a rappresentare il simbolo della continuità delle generazioni non solo attraverso le ascendenze ataviche ma anche attraverso le ascendenze generazionali fra docenti e discenti, si pone soprattutto come interprete di ben altre e più ataviche ascendenze e cioè quelle letterarie: Dante, ad esempio; lo Stilnovismo. A questo punto non è più la distanza fra una o due generazioni che viene ad essere annullata, bensì quella di ben sette secoli. Ed ecco dunque come la dimensione-tempo diventa paurosamente elastica e quasi priva di consistenza.
Del resto gli scienziati nucleari non continuano ad insegnarci che la materia è vuota, che è solo un agglomerato di particelle microscopiche che esistono in quanto girano vorticosamente per tenersi in vita? E anche nel nostro piccolo “quotidiano” quante volte non diciamo a noi stessi: quest’ora è trascorsa in un attimo? O, viceversa,  a seconda delle circostanze: quest’ora mi è sembrata un’eternità? Forse non sarebbe inopportuno citare a questo punto il famoso paradosso di Denis Amiel nell’opera “La sorridente madame Beudet” che recita: «I minuti sono lunghi e gli anni sono brevi» dove ancor più stridente si evince il concetto di elasticità e relatività del tempo.
Lo avverte ancora l’autrice di questo libro, la quale a pagina 27 osserva: «Chi avverte il respiro dell’ora / che lenta si disfa?». Insomma del tempo che scorre raramente abbiamo percezioni precise e questo significa che i nostri rapporti con il tempo sono piuttosto strani: noi cioè consideriamo il tempo da un punto di vista esclusivamente soggettivo, cosicché se un’ora è felice ci sembra che passi in fretta; viceversa se è noiosa ci sembra che non finisca mai. Purtroppo però il soggettivismo non genera teorie valide per la collettività; di conseguenza è poco affidabile.