- La salvezza
degli infedeli nel pensiero di
Dante Alighieri
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- Nel
cielo di Giove
(cap. IV, parte II)
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L’ipotesi
della salvezza di Traiano si innesta con ciò che «apparet in
omnibus illis qui fuerunt miraculose a mortuis suscitatis quorum
plures constat idolatras et dannatos fiusse»(69); ed allora «orantes
omnibus peccatoribus exaudiuntur cum pro praedestinatis non pro
praescitis ad mortem»(70).
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Si può anche ragionevolmente pensare che Dante abbia
conosciuto l’altra leggenda di Dinocrate salvato
dall’inferno per le preghiere della sorella Perpetua e
ricordata da Sant’Agostino(71). Mentre Dante predestina i due
gentili «al regno santo»(72), anticipa la riproduzione dei
malvagi reggitori d’Europa sullo sfondo apocalittico
dell’ultimo giorno. Essi «sono morti e i buoni sono rari»(73)
testimonia S. Tommaso per prepararlo a più dura prova. Forse in
quei “rari” rimpiange in una sottintesa sfumatura di
nostalgica malinconia il buon governo dell’“alto Arrigo”
con le «faville della virtute»(74) e rievoca nella commossa
limpidezza di ammirazione colui che ebbe «già in fronte la
corona / di quella terra che ‘l Danubio riga»(75). Non manca
l’invettiva dove sdegno e sarcasmo ritmano l’artificio
dell’acrostico. Si scaglia contro Alberto d’Austria per il
quale «il regno di Praga fia deserto»(76), e Filippo il Bello
che ha falseggiato “la moneta” (77) contro il re
d’Inghilterra e di Scozia «che non può soffrir dentro a sua
meta»(78); è stigmatizzata «la lussuria e ‘l viver male /
di quel di Spagna e di quel di Boemia»(79), la malvagità del
«Ciotto di Ierusalem-me»(80), l’avarizia e la virtù di quei
che guarda l’isola del “foco”(81), non resteranno impunite
le «opere sozze»(82) di Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re
di quel «Portogallo e di Novergia / e quel di Rosia»(83), e
chiude la rassegna con marchio brutale però giustificato
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E creder de’ ciascun che già, per arra
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di questo, Nicosia Famagosta
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per la lor bestia si lamenti e garra
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che dal fianco de l’altra non si scosta(84),
- ma
l’umiliazione non è finita,
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che potranno li Perse a’ vostri regi
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come vedranno quel volume aperto
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nel qual si scrivono tutti suoi dispregi?(85)
- e
finalmente la condanna che, prestabilita ab aeterno, anticipata
nel tempo, si abbatte in una decisa inesorabile necessità. «E
tai cristiani dannerà l’Etiope»(86), quasi «causaliter,
spiega l’Angelico, ut dicatur illud iudicare unde apparet
aliquis iudicandas. Et secundum hoc, aliqui dicuntur iudicare
conparatione; in quantum ex conparatione aliorum aliqui
iudicandi ostenduntur»(87).
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A chi deve attribuirsi la responsabilità della loro
perdita eterna? Iddio ha dato «lume ... a bene e malizia / e
libero arbitrio»(88) e li muove in una maniera non contraria
alla loro inclinazione senza nessuna costruzione.
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Se così fosse, in voi fora distrutto
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libero arbitrio e non fora giustizia
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per ben letizia, e
per male aver lutto(89);
- riguardo
ai cattivi, Iddio non li induce “per sé” al male ma solo
indirettamente (90) e si può applicare secondo quanto dice lo
stesso poeta degli angeli: «Iddio tutte le cose vivifica in
bontate e se alcuna ne è rea non è della divina intenzione, ma
conviene quello o per accidente essere ne lo processo dello
inteso effetto che se Dio fece gli angeli buoni e li rei, non
fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni.
Seguitò poi fuor d’intenzione la malizia dei rei, ma non sì
fuor d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire
la loro malizia, ma tanta fu l’affezione a producere la
creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo
fine dovevano venire non dovea né potea Iddio da quella
produzione rimuovere»(91).
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- Ma
perché salva alcun e danna altri? Per glorificare la sua
misericordia e la sua giustizia affinché a tutti sia concreta
la sua potenza e maestà che
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per l’universo penetra e risplende
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in una parte più a meno altrove (92).
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- L’Aquila
ha terminato il suo discorso sulla predestinazione. Le idee
squisitamente teologiche del «benedetto rostro»(93) che al De
Sanctis sembrano esteticamente un «accozzamento meccanico
mostruoso»(94) vivono invece in una nitida monodia poetica dal
linguaggio liricamente musicale. I misteri ora pausati da larghe
figurazioni in una gioiosa realtà d’immediatezza, ora
riaffermati nella solenne densità apocalittica si presentano
alla ragione invece nello sfavillio di una purissima
trascendenza.
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- Ciononostante
il poeta ha seguito «il mormorar dell’aguglia»(95) «che uscì
per lo suo becco in forme di parole»(96) con mordente
psicologico così intenso da astrarsi quasi dalla fatica del suo
pellegrinaggio per continuare poi su un’onda assortamente
contemplativa.
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- Qui
finalmente Dante ritrova quella soluzione che da tempo «aspettava
il core»(97). Lo spirito del poeta svincolato ormai dalla
drammatica angoscia del dubbio si placa in una pregnante
ricchezza di intima spiritualità.