I conti di Bruscoli

di Michelangelo Abatantuono

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Volgeva al termine il 1399 quando i bolognesi trascinarono sulla forca, più che ottantenne, il conte Antonio di Bruscoli. Strappato a forza dalla propria abitazione e portato sulla piazza, periva così uno degli epigoni della feudalità della montagna. Quanto erano lontani, non solo cronologicamente, i tempi in cui il bisavolo di Antonio calcava le aule della curia imperiale. Tancredi detto Nontigiova nel giugno 1133 era al seguito di Lotario di Supplimburgo, faceva parte dei fideles del novello re. Lotario era riuscito a riportare Innocenzo II sul soglio di Pietro, scalzando Anacleto II. Da poco era prevalso su Federico di Svevia, padre del Barbarossa, nella lotta di successione alla corona tedesca, tradizionale anticamera di quella imperiale.
Gli Alberti erano già forti a Prato e nella pianura circostante e forse da poco gravitavano nel partito imperiale; nel 1107, chiusi nel castello pratese, furono assediati dalla contessa Matilde di Canossa, nel marasma delle lotte che in Toscana riflettevano i contrasti tra l’imperatore Enrico IV e il figlio Enrico V, sostenuto dalla nobildonna. Dopo la morte del conte Ugolino III dei Cadolingi nel 1113, seguita due anni dopo da quella della contessa Matilde, il giovane Tancredi, rampollo di una schiatta signorile in rapida ascesa, riuscì ad inserirsi con successo nelle lotte politiche che seguirono il venir meno, in tempi oltremodo vicini, di due fulcri di potere che, seppur diversamente, risultavano centrali negli assetti giurisdizionali della regione.


Il giovane conte impalmò la contessa Cecilia, vedova del cadolingio, ormai attempata ma comunque preda ancora ambita. Fu forse la militanza nella fazione dell’impero, a cui Ugolino e i suoi avi erano legati, che gli aprì quella porta. Per ragioni sulle quali non ci dilunghiamo gli Alberti non avrebbero avuto titolo per impossessarsi dei beni dell’estinta casata cadolingia, ma un tempo, e forse anch’oggi, gli equilibri erano dettati dalla forza più che da pur autorevoli scritture. La contessa non generò figli, non ne aveva del resto procreati prima (Tancredi ne ebbe dalla successiva moglie), ma portò in dote i legami fiduciari dei vassalli del defunto marito, che permisero agli Alberti di controllare, tra l’altro, tutta la montagna pratese (Vernio, Montepiano, Vaiano) e ampio tratto di quella bolognese, in barba delle volontà testamentarie del conte Ugolino e delle norme legali.


Da qui ebbe principio il dominio albertesco sulla montagna bolognese, territorio che per ultimo la casata, ormai frantumata in un molteplice rivolo di discordi discendenze, avrebbe ceduto alle magistrature comunali quando anch’esse -siamo agli albori del Quattrocento- andavano chiudendo la loro parabola. Per tutto il Trecento durò l’agonia delle schiatte signorili: il comune di Bologna le combatteva dal secolo precedente. Pure i governi oligarchici che dalla metà del XIV secolo guidarono Bologna continuarono la lotta contro le sacche di resistenza signorile e feudale. Fu questione di tempo. Dapprima le famiglie più piccole, i signori di Monzuno tra queste, poi anche quelle più potenti dovettero capitolare: i conti di Panico e gli Alberti. Questi ultimi esponenti della nobiltà della montagna mantenevano ben poche delle prerogative avite. Il comune di Bologna, ma anche quelli di parte toscana per gli Alberti, avevano sottratto loro quei poteri che aulicamente venivano ricordati nei diplomi imperiali gelosamente conservati e all’occorrenza sbandierati.


Ancora nel corso del Duecento il conte Alberto intervenne a dirimire una causa tra gli uomini di Baragazza e Castiglione vertente su alcuni diritti di pascolo e di raccolta della legna insistenti su alcuni territori a confine fra le due comunità(1), ma si tratta di casi isolati e di contese di poca importanza. L’amministrazione della giustizia, anche nel contado, era saldamente in mano al comune cittadino e gli antichi signori riuscivano ad imporsi solo in caso di latenza dei magistrati comunali o in zone piuttosto ristrette e lontane dai centri urbani. Qui il primato dei nobili rimase saldo più a lungo: vasti erano solitamente i possedimenti patrimoniali e radicati i legami di dipendenza della popolazione locale.


Spiccata instabilità politica e alzate di testa di esponenti delle casate nobiliari del contado, essenzialmente in montagna, caratterizzarono tutta la seconda metà del XIV secolo. Bologna, dopo la fuga dei Pepoli conseguente alla cessione della città ai Visconti, era continuamente travagliata da lotte intestine. Approfittavano dell’indebolimento delle magistrature cittadine gli Ubaldini, i Panico, gli Aberti; benché privati dell’autorità e del seguito di un tempo, scorrevano il contado seminando il terrore e non perdevano occasione per destabilizzare anche le dinamiche cittadine.


Parevano quei «lupi vespertini», così venivano chiamati, che quattro secoli addietro controllavano un passaggio strategico, un valico, un territorio ristretto. Ben poco contavano sullo scacchiere politico, ma riuscivano a gettare scompiglio nell’ordine costituito e i grandi dovevano venire necessariamente a patti. Molte delle famiglie signorili avevano costruito le proprie fortune in tal modo. Adalberto Atto, capostipite dei Canossa, teneva sotto il proprio controllo un passaggio obbligato nell’Appennino reggiano senza averne ricevuto investitura dall’autorità pubblica che, per inciso, non era allora in grado di contrastare queste forze destabilizzanti(2). Il sovrano stesso tollerava questo stato di cose ed anzi doveva venire a patti con questi piccoli signori. Chi fu abile nel tessere strategie politiche e matrimoniali costruì vaste fortune.


Nella seconda metà del Trecento il quadro di riferimento era profondamente mutato, ma la nobiltà indebolita, esautorata da reiterati provvedimenti antimagnatizi, aveva tratti in comune con gli antenati di un tempo. I Panico, gli Alberti, per citare le casate maggiori e più longeve, si erano ristretti a controllare pochi castelli arroccati in zone periferiche, punti da cui compivano scorrerie nei territori circostanti. Le magistrature bolognesi, quando potevano, inviavano i vicari e truppe armate per contrastarli e catturare i responsabili di omicidi e ruberie, ma sovente erano costrette a scendere a patti con i nobili, per l’impossibilità di respingerne l’azione. Ora si bandivano come pubblici nemici e se ne intimava la confisca dei beni; ora se ne condonavano condanne e sequestri, a fronte di garanzie che, era chiaro a tutti, sarebbero state presto disattese.
Nel 1376 il popolo bolognese, esacerbato dalle continue operazioni militari e dalla carestia seguita alla pestilenza del 1374, insorse contro il legato del Papa; tra i rivoltosi, che possiamo sospettare anche fomentassero l’insurrezione, troviamo alcuni esponenti della nobiltà della montagna: Ugolino da Panico, Guglielmo di Loiano, Giovan Paolo da Vizzano e il conte Antonio di Bruscoli(3). Quest’ultimo era esponente di uno dei rami della casata albertesca di Mangona e prendeva nome dal ristretto territorio su cui ancora era in grado di esercitare una certa preminenza, il cui fulcro era il castello di Bruscoli, nell’alta valle del Setta(4). Dagli atti giudiziari bolognesi del 1372 emerge come quei conti fossero indicati ripetutamente come la causa di forza maggiore nelle inadempienze contrattuali o nel mancato pagamento delle imposte.
Un tal Ruggeri di Valle aveva ceduto due buoi a un Seghieri di Campiano per la cifra di 28 lire (a quel tempo gli animali da lavoro possedevano un valore intrinseco di tutto rilievo, tanto da sopravanzare quello di una normale abitazione). Ne poté pagare solo 20 e per il resto venne citato in giudizio presso il tribunale di Casio, centro amministrativo per quella parte della montagna. Per giustificarsi addusse la ragione che era stato derubato dai conti di Bruscoli e per provarlo produsse anche alcuni testimoni. Uno di essi asserì che non solo il Seghieri venne derubato e sequestrato ma con lui molte altre persone di Sant’Andrea Val di Sambro: vennero portate dai conti fino al Voglio e colà fortunosamente rilasciate per l’intervento di una moltitudine di persone. Di tali azioni portò testimonianza anche il conte Petruccio di Giovanni delle Bedolete (un ramo dei Panico) che asserì, reo, di aver partecipato all’impresa.


Nello stesso anno i conti di Bruscoli rubarono tutto il bestiame (ben poca cosa, ma erano tutti i suoi possessi: quattro capre) a tale Giovanni Berti di Sant’Andrea, fecero incursioni nel territorio di Sant’Andrea e minacciarono addirittura il castello di Casio. La litigiosità delle stirpi nobiliari alimentava anche un fitto scambio reciproco: alle numerose intese matrimoniali, altrettanto numerosi corrispondevano i contrasti e le rivalità. Nell’ottobre 1372 il conte Ugolino da Panico, marito di una nipote dei nobili bruscolesi, per punire gli zii che, a suo dire, avevano mal trattato la nipote nella divisione dei beni, fecero scorrerie ed omicidi nella terra di costoro, uccidendo un mugnaio ed incendiando frumento e foraggi(5). Il conte Antonio di Bruscoli uccise un contadino a Guzzano, piccola località nei pressi di Camugnano; nel corso del regolare processo che venne tenuto Alberto, fratello dell’uccisore, a difesa del congiunto opinò che la loro famiglia deteneva il «mero e misto imperio» su quello ed altri territori e quindi l’azione non poteva essere punita.


Non è un affermazione da ribaldo. Questi epigoni del feudalesimo che ci vengono rappresentati ora come assassini, ora come banditi di strada, ora come affamatori della povera gente, in realtà protestavano un’anacronistica verità: quei diritti che la civiltà borghese gli contestava erano loro appartenuti cinquanta, cento anni addietro. Avrebbero dovuto lasciarli senza colpo ferire? L’affermazione delle autonomie comunali, e il caso di Bologna ne è chiaro esempio, avvenne a discapito di un ordine precedente, che fu combattuto sia con le armi sia con la pubblicistica(6). La ferinità che connota i nobili, soprattutto nel Trecento, ci ricorda la disperazione propria di un animale in gabbia. Braccato ovunque, cerca in ogni dove possibilità di fuga o di rivincita. Va inoltre considerato che la nostra fonte d’informazione è di parte: sono i documenti comunali, le cronache ufficiali; mai sentiamo parlare i nobili, se non quando venivano citati a giudizio. Quelle scritture non potevano gettare che cattiva luce sui nemici, che –va detto- ferini lo erano per natura.


La violenza, la preda, la continua autoaffermazione facevano parte dell’etica cavalleresca con cui il nobile veniva formato. Fedeltà nei confronti della ristretta cerchia di appartenenti alla chiusa élite di potere, ampio sfoggio di ricchezza e distribuzione di denari e donativi alla masnada erano capisaldi per la continuazione del sistema. A scapito della moltitudine che faticosamente produceva.
Venendo meno i cespiti d’entrata (quanti divenivano cittadini bolognesi pagavano le tasse al comune e non più all’antico signore) e le prerogative di controllo territoriale, i nobili svilupparono un’accentuata rapacità che talvolta portava anche contrasti all’interno delle famiglie. Lo si vide quando, nel 1340, gli Alberti vendettero ai Pepoli i territori di Castiglione, Baragazza e Bruscoli con i poteri giurisdizionali connessi. Subito dopo la vendita alcuni rami della famiglia, che forse non avevano partecipato alla spartizione degli utili, negarono la validità della transazione e si riappropriarono di quei castelli. Per inciso, i Pepoli ne entrarono in possesso più di un secolo dopo, pressappoco nel 1460(7).


Tutta la zona fu preda di uno spiccato marasma giurisdizionale fino al termine del Quattrocento, quando le varie comunità trovarono una definitiva sistemazione. Antonio, Alberto e Francesco fratelli e conti di Bruscoli lottarono aspramente fra loro per tutta la seconda metà del Trecento, chi sostenuto dai Pepoli che ambivano a prender possesso di quanto avevano comprato, chi spalleggiato dai Bolognesi alla ricerca di alleati (anche se non del tutto disinteressati) per assoggettare definitivamente quelle terre. Alberto, radunate alcune milizie, scacciò dal castello avito Antonio ed uccise Francesco. I due fratelli rimasti, per mezzo di intermediari bolognesi (anch’essi -possiamo sospettare- ben poco disinteressati), si riconciliarono, ma la quiete ebbe breve durata(8). Antonio andava cercando appoggi per dar contro al fratello e rimanere unico padrone del castello di Bruscoli, ma Alberto lo precedette e, intavolate trattative con il governo bolognese, cedette la parte di propria spettanza dei castelli di Bruscoli, Baragazza e Piano con gli annessi diritti per tremila fiorini d’oro, oltre ad uno stipendio mensile di venticinque fiorini per dieci anni. Ottenne un vitalizio per certi suoi compagni d’arme che passarono al soldo del comune di Bologna ed ottenne l’indulto per tutti i delitti commessi prima del 27 maggio 1380(9).
Il castello era in mano bolognese quando poco tempo dopo si presentò il conte Antonio alla testa di milizie fiorentine, deciso a procedere contro il fratello, ma dovette far buon viso all’amara sorpresa ed accordarsi con i nuovi padroni. Venne ad abitare in città ma neppure qui si placò la sua inquieta natura, poiché più volte prese parte alle lotte tra le fazioni cittadine, fino a trovarvi la morte nel 1399.


Intanto il governo bolognese tentò di sistemare la zona montana che, seppur nominalmente già gli appartenesse(10), a fatica aveva acquistato. Nel 1384 venne istituito il vicariato di Bruscoli, da cui dipendevano Bruscoli (in quell’anno venne restaurata la rocca e ne fu costruito il tetto), Baragazza e Piano. Del vicariato non si hanno molte notizie e non viene più nominato fino al 1454(11), anche se è lecito dubitare che a quella data i bolognesi mostrassero un’ambizione piuttosto che un’effettivo possesso. Del resto le carte sovente indicano più quanto si vorrebbe avere che quanto effettivamente si ha. In tale ottica si dovrebbe quindi leggere la capitolazione della comunità di Baragazza, che nel 1391 giurò obbedienza ai Bolognesi, quando già da qualche anno gli Alberti avevano ceduto le proprie ragioni sul castello(12). Nel 1395 le comunità soggette al vicariato pagavano annualmente 25 lire di tasse e il vicario, che doveva provvedere anche all’ordinaria manutenzione dei fortilizi e alle munizioni, percepiva uno stipendio mensile di dieci lire(13). Agli inizi del XV secolo Bruscoli cadeva in mano fiorentina: nell’ottobre 1404 venne eletto «in commissarium dicti communis» Matteo Ciacchi, dopo che nell’agosto precedente la comunità da poco assoggettata era stata provveduta del proprio statuto(14).


Estromessi da ogni controllo su Bruscoli, gli Alberti avrebbero tuttavia continuato a mantenersi protagonisti, se alla metà del Quattrocento Alberto di Antonio era stato chiamato podestà a Parma, Vallestari, Pontremoli, Cremona e ancora nel XVIII secolo Carlo Filippo Alberti duca di Luines e Pari di Francia si chiamava continuatore dell’antica famiglia comitale toscana(15).


NOTE

(1) Archivio di Stato di Bologna, Archivio Pepoli. Copia del secolo XVIII. I luoghi citati sono ancora oggi riconoscibili nella microtoponomastica locale.
(2) V. Fumagalli, Le origini di una grande dinastia feudale. Adalberto Atto di Canossa, Tübingen, 1971.
(3) A. Palmieri, La montagna bolognese del medio evo, Bologna 1929, p. 201
(4) La famiglia comitale degli Alberti si era frazionata nel 1208, a seguito della spartizione del patrimonio tra i tre fratelli Maghinardo, Riccardo e Alberto. A quest’ultimo toccarono i beni sulla montagna a nord di Firenze; questa stirpe prese denominazione dal potente castello di Mangona, ma nel corso del Duecento avvennero altri frazionamenti, tanto che numerosi furono rami che si dipartirono, prendendo nome dal castello da cui si irradiava il loro potere. Sugli Alberti si veda: M. Abatantuono – L. Righetti, I conti Alberti. Secoli XI-XIV, Monzuno 2000.
(5) A. Palmieri, La montagna…, cit., pp. 206-207.
(6) Le fonti bolognesi ci narrano la storia delle continue lotte per evellere il radicamento dei signori che dominavano l’Appennino, a partire dalla metà del XII secolo. Ma anche la cultura ufficiale si mise al servizio di questa lunga guerra; insinuare in quella che noi oggi chiamiamo «opinione pubblica» la necessità di una crociata contro la nobiltà e i suoi modi di governo non è propedeutica al miglioramento delle condizioni di vita del popolo, ma piuttosto all’affermazione di un ordine nuovo, l’unicum costituito dalla città e dal suo contado .
(7) A poco valse il privilegio con cui l’imperatore Carlo IV nel luglio 1369 confermava a Mastino, Gerra e Giacomo Pepoli i diritti e le pertinenze, con mero e misto imperio, sulle terre e castelli che furono dei conti di Mangona. Cfr. A. Sieri Pepoli, Documenti storici del secolo XIV estratti dal R. Archivio di Stato fiorentino, Bologna 1976 (rist. an. ediz. 1884), pp. 116-125
(8) A. Palmieri, La montagna…, cit., p. 208.
(9) Ghirardacci, Historia di Bologna, Bologna 1973 (ripr. ed. 1596-1657) II, 382-383 e 506
(10) È del 1192 la prima cessione dei diritti da parte degli Alberti, nell’ambito di accordi stipumati con il vescovo e podestà di Bologna Gerardo Gisla. Cfr. ASB, Registro Grosso, 16 febbraio 1191 [1192], f. 114. Cfr. M. Abatantuono – L. Righetti, I conti Alberti…, cit. pp. …
(11) L. Casini, Il contado bolognese durante il periodo comunale (secoli XII-XIV), Bologna 1991, pp. 319-320.
(12) Ghirardacci, Historia di Bologna,cit., II, p. 455. Gli statuti del 1389 prevedevano per il castello di Baragazza un custode principale e cinque militi; complessivamente percepivano ogni mese venti lire. ASB, Comune, Statuti, 1389, fol. CXXXV. Baragazza e Castiglione furono travagliate negli anni Ottanta del XIV secolo dalle scorrerie del conte Guidinello degli Alberti di Mangona: condannato dai bolognesi alla pena capitale nel 1390 riuscì tuttavia ripetutamente a scampare alla condanna. Cfr. P. Guidotti, Bruscoli, Bruscoli 1989, pp. 23-25.
(13) A. Palmieri, Gli antichi vicariati dell’Appennino bolognese, «Atti e memorie della regia deputazione di storia patria per le province di Romagna» 1902, p. 403.
(14) ISIME, Fonti per la Storia d’Italia, Le consulte e pratiche della repubblica fiorentina (1404), cur. R. Ninci, Roma 1991, pp. 95-96. Lo statuto di Bruscoli del 1404 è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, Statuti delle Comunità autonome e Soggette, n. 97.
(15) Un libretto manoscritto, indicato da Paolo Guidotti nella sua citata opera su Bruscoli e conservato presso la Biblioteca dell’Archigiannasio di Bologna (ms B 458), Vita e governi avuti fuori Bologna dal conte Alberto ci informa delle fortune politiche di Alberto di Antonio di Giovanni già conte di Bruscoli.
Presumibilmente nel 1713 vedeva le stampe a Torino la Istoria Genealogica della famiglia Alberti... ad opera di Giacinto De Gubernatis, il quale assai fantasiosamente indagava le origini del già citato Carlo Filippo Alberti duca di Luines in Francia. Le conclusioni dell’autore lasciano dubbi circa l’effettiva connessione tra Carlo Filippo e gli antichi conti toscani, ma potrebbe fornire lo spunto per approfondire la ricerca sulle vicende, posteriormente al XIV secolo, della casata albertesca, che alcuni studiosi vogliono esaurirsi, nella sua linea principale, alla metà del Quattrocento. Per una breve analisi della bibliografia sulla famiglia: M. Abatantuono – L. Righetti, I conti Alberti…, cit. pp. 185-195.

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