La Quercia Vallonea Più vecchia d'Europa, Sec. XII D.C.

La Marina di Tricase saccheggiata da briganti nel 1837 

di S. Panareo (tratto da Rinascenza Salentina)

Sono passati cento anni dall'avvenimento e ancora, presso la gente del luogo, ne rimane un vivo ricordo. Io potetti averne qualche notizia nell'occuparmi delle ultime molestie barbaresche in Terra d'Otranto, ma chi allora me ne riferiva non sapeva dirne i particolari e affermare se gli aggressori erano stati pirati o briganti. Ora un fascio degli Atti di Polizia esistenti nell'Archivio di Stato di Lecce, il numero 47, composto di relazioni e provvedimenti riguardanti il "fattaccio", permette di ricostruirlo nella sua interezza e darne una valutazione.

Al principio del secolo scorso ed anche prima, accanto ai rifugi dei pescatori nella marina di Tricase, luogo incantevole per le bellezze naturali, erano sorti villini o casine, nelle quali andavano a passare l'estate famiglie benestanti della vicina borgata e di altri paesi. Anche allora, come oggi, con i bagni i villeggianti cercavano di conciliare quegli altri svaghi che si ritengono indispensabili ad impiegare allegramente il tempo libero; scampagnate e gite al mare di giorno, musica e ballo nelle ore della sera. Da molti anni si trascorreva una vita lieta e spensierata nella marina di Tricase, quando, improvvisa e ruinosa come un uragano, nella notte del 21 settembre 1837, avvenne l'aggressione che desolò il luogo.

La prima notizia, all'Intendente della Provincia Duca di Monteiasi, la dette la mattina del giorno seguente, affidandola a un corriere straordinario, il Sindaco del tempo, Giovan Battista Aimone.Tricase Porto: primi del '900 La comunicazione, anche se redatta in termini brevi e concitati, informava con sufficiente esattezza sulla luttuosità dell'evento.

"Questa ultima scorsa notte, scriveva Aimone, uno sbarco di gente, circa le ore sei, ha assalito i casini di questa marina, ed inveendo contro i villeggianti, con armi da fuoco, e da taglio, ha fatto un perfetto spoglio di quanto si è potuto trovare, non escluse le vesti d'addosso fino alle scarpe, e lasciando gli individui completamente ignudi. Tre soli casini sono scampati da tale flagello, quello cioè del si. Calofilippi di Galatina, del sig. Pisanelli di questo comune, e il sig. Leuzzi di Ruffano, non si sa come. Il primo assalto è stato al casino di questo sig. principe, ove avendo incontrato il giardiniere, per nome Vincenzo fracasso, lo han richiesto a farla da guida per mostrarle i casini abitati, promettendole di non toccarlo, e perché l'uomo da bene non non si volle prestare, con una fucilata, ed a colpi di sciabola fu ucciso. A vedere il cadavere fa orrore a chiunque. L'infelice ha lasciato un'immensità di figli, e nella miseria.

Il brigadiere della forza armata, perchè cercò di resistere a tanta forza, sparando una fucilata, le fu risposto allo stesso modo, ed una palla le ha spezzato il mento, che è rimasto leggermente attaccato ad una mascella. Non potrà vivere.

Non vi sono stati altri morti, ma quei che sono rimasti in vita fan la figura di cadaveri e fan pietà. Gli aggressori erano centinaia vestiti da camisciotti, con berretta rossa e mostacci: armati di fucili, boccacci, pistole, sciabole e coltellacci: parlavano al lingua italiana, ed alcuni un dialetto non molto lontano. Quando mi giunse l'avviso, non mancai di far accorrere la forza: ma troppo tardi; quando giunse colà, il legno era ancora scomparso".

Altre relazioni inviate all'Intendente del giudice Sangiorgio, dal direttore dei dazi indiretti e da altre autorità, e poi inchieste e missive di persone direttamente interessate al fatto aggiunsero altri particolari a quanto aveva deposto il sindaco: un complesso di elementi affidati alle sbiadite carte del tempo che permettono di ricostruire, come ho detto, le scene della tragica notte. Il 20 settembre fu avvistato nelle acque di Tricase un brigantino a vele quadre, e nello stesso tempo si presento nel porto un barcone o paranza, la quale si apprese essere reduce da Gallipoli, dove aveva sbarcato della merce varia. Nulla lasciava sospettare quello che sarebbe accaduto la notte.

Lo sbarco dal misterioso brigantino avvenne al punto detto Arco: non molto lontano dal posto doganale di Torresasso. Erano passate da poco le sei ore di notte. Evitando quel posto e le prime casine, fra cui quelle di Narciso Trunco, dove lasciarono a guardia tre o quattro di loro, i malandrini, divisi in squadre, si avviarono verso il porto a dare inizio alle loro criminose gesta. Erano da trenta a quaranta, secondo alcuni, non meno di sessanta, secondo altri. La speciale truccatura mal celava la loro nazionalità. Giovani i più, vestivano da "camisciotti" con "scarpitti" a guisa di calabresi o siciliani, ed erano armati delle più varie armi. Dalle frasi pronunziate, delle quali è un saggio nei documenti, appariva che intendevano o parlavano l'italiano.

Il primo colpo fu dato alla casina del Principe, e costò la vita al giardiniere Fracasso, il quale, rifiutandosi di far loro da guida, si era dato a gridare l'allarme, come poi riferì la moglie dell'infelice, piombata nella desolazione coi cinque figli. Sfondato l'ingresso della chiesetta di S. Nicola e saccheggiatala, gli aggressori passarono poi alle altre casine, quella del Duca di Scorrano, assente lui e la famiglia, di D. Pasquale Sauli e di D. Francesco Panese. Nella casina del Sauli, il quale era a Tricase, si trovavano la moglie, una figlia e il figlio Giuseppe. A quest'ultimo i briganti, mentre svaligiavano le stanze, domandarono ove si trovasse la casina del cav. Salzedo; inteso che era sulla spiaggia di Otranto, volevano condurre il giovane come scorta, ma poi rinunziarono al disegno. Gli aggressori, probabilmente irritati dalla mancanza di denaro, ferirono la moglie e il figlio con colpi di sciabola "grazie a Dio leggieri", dichiarò lo stesso Pasquale Sauli scrivendo all'Intendente Monteiasi, a cui partecipò che, dopo lo svaligiamento, i suoi erano rimasti "perfettamente ignudi". Il giudice Sangiorgio appurò anche la circostanza che i malviventi volevano condur via la moglie e la figlia del Sauli: ma, al pianto disperato delle donne, intervenuto un tale che si atteggiava a capo, furono lasciate in casa.

Il sacerdote D. Francesco Panese di Specchia non solo assistè esterefatto allo scempio della sua casina fra le grida delle donne, una delle quali veniva trascinata pei capelli, ma fu ferito alle mani mentre consegnava ai briganti la somma di circa sessanta ducati. L'ora avanzata e il sospetto che potesse sopraggiungere gente obbligavano gli aggressori a risparmiare le altre casine e ad affrettare la ritirata. Avviandosi al luogo dell'imbarco, assaltarono e saccheggiarono la casina di Giacinto Trunco e ne ferirono la moglie. Fu qui che, sorpresa la figlia e ritardando la moglie a scendere giù, s'intese la frase "Scindi o t'accidimo la figghia" che a qualcuno parve pronunziata in schietto siciliano. Le guardie di dogana o delle imposte indirette, come allora erano chiamate, non se ne erano restate inerti. Alle prime fucilate il furiere Nicola De Lauro dalla sua abitazione corse verso il posto, ma, fatti pochi passi, si vide afferrare da due persone che con stili alla mano gli dissero: "Caccia il denaro", e difatti gli tolsero otto pezzi di dodici carlini ed un pezzo di sei carlini che trovavasi addosso. Vistosi libero, il De Lauro se la dette a gambe e fu fortunato se non venne raggiunto da alcuni colpi di fucile. Frattanto accorrevano il brigadiere Suna ed alcune guardie, ma furono sopraffatti dai malandrini i quali, imponendo loro di deporre le armi, "gli scagliarono una pioggia di fucilate", cariche, come si accertò, di "quelle lettere di zinco che usano gli stampatori". Fu risposto dalla forza con più piccoli, ma, ferito al mento il brigadiere, caduto e fatto segno ancora a due puntate di baionetta, con le quali gli assalitori credettero di averlo finito, le guardie si dettero alla fuga.

La notizia portata a Tricase tre ore dopo lo sbarco e diffusa al suono a stormo delle campane, destò un pandemonio generale proprio come nella notte delle insidie alle case di Don Abbondio e Lucia, di manzoniana memoria. Molti coraggiosi si armarono e fra essi Pasquale Sauli, che era stato maggiore nell'esercito costituzionale del 1820, e accompagnati dai gendarmi corsero alla marina. Ma, quando l'improvvisato manipolo giunse sul posto, i briganti se ne erano già allontanati. Alle prime luci dell'alba potè constatarsi la ruina apportata dagli aggressori. Dei briganti si rinvennero alcuni "scarpitti", una scure e un fanale, reliquie insufficienti a fornire qualche indizio. Le informazioni sull'avvenimento, trasmesse all'Intendente della Provincia e al Sottointendente di Gallipoli e da questi inoltrate al Ministero degli Interni e quello di Polizia Generale, determinarono i primi provvedimenti per trovare le tracce degli agressori. Un "pacchetto" a vapore, il "Ferdinando II", agli ordini del Barone Raffaele De Cosa, fu presto inviato verso il luogo e il 1° ottobre era a Leuca, donde, nello stesso giorno, toccata la marina di Tricase, passò ad Otranto. Il De Cosa annunzio che il "pacchetto" sarebbe stato raggiunto da due brich di guerra.

Per timore di altri tentativi del genere, le autorità dettero pure ordine di accrescere la vigilanza sulle marine e di rafforzare la guardia alle carceri di Lecce e al Bagno penale di Brindisi. Così, scriveva il Ministero degl'Interni, "poteva mandarsi a vuoto qualunque tentativo di simil fatta che potesse esercitare qualche influenza di reazione sugli spiriti torbidi e sediziosi". Ma le indagini per rinvenire qualche traccia del brigantino riscirono vane. Anche quelle rivolte a scoprire rapporti tra la paranza baresi, che poi si trovò essere l'Anfitride di Bisceglie, e il brigantino dettero risultati negativi. L'Anfitride non era il vascello nella cui compagnia era stato visto il giorno il brigantino devastatore. Si credette pure vi fosse un rapporto fra lo sbarco di Tricase e il saccheggio che gente imbarcata su due "bovi" albanesi dette al villaggio di Striccati in Corfù il 2 ottobre successivo. Sospetti e null'altro, e po il silenzio, come era avvenuto per altri simili incidenti nei tempi passati.

Qualche settimana dopo, cioè entro la prima metà di ottobre, si abbandonarono i tentativi per far luce sul sinistro toccato alla marina di Tricase. Un'aggressione brigantesca essa era stata: niente pirati stranieri; gente nostra, tutt'al più frammista a qualche malvivente dalmata o albanese, accordatosi con gente della stessa risma per fare un colpo su una marina, dalla quale, perché frequentata da "signori", si sperava chissà quale bottino. Non mi è possibile riferire quel che ne scrisse la stampa ufficiale del tempo, la quale certamente si occupò del fatto. Esso rimane come un indice assai significativo della poca sicurezza che ancora, vale a dire in pieno secolo decimonono, nel regno di Napoli, aveva la gente stabilita sul mare. Le scarse difese del governo sulle nostre spiagge rendevano facili, com'era avvenuto a Tricase, sbarchi di delinquenti, capaci di emulare le gesta degli antichi piati barbareschi. Una nota particolare, tra la ruina e il lutto seminati dagli aggressori, fu l'imbarazzo del sindaco Aimone che non riusciva a trarre i trenta ducati delle spese eccezionali sostenute in quella occasione dalle somme assegnate alla beneficenza e chiedeva alla superiore autorità d'essere facultato a prelevarli dal fondo delle impreviste. 

 

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