UDC GIOVANI RIBERA (AG)
Il
discorso pronunciato da Marco Follini nell’ultima giornata
del congresso
nazionale dell’Udc
Noi siamo qui. Qui dove ci hanno portato la nostra lealtà e il nostro spirito
critico, la nostra coerenza e la nostra inquietudine. Poiché voglio dirlo
subito, a dispetto di rappresentazioni tanto comode quanto fasulle: noi siamo
tutti, e tutti insieme, dentro lo stesso progetto politico. Non ci dividiamo e
non ci divideremo tra pericolosi avventurieri che giocano a destabilizzare e
zelanti cancellieri ansiosi di trascrivere decisioni altrui. Siamo parte di
questa maggioranza che anche noi abbiamo costruito e non c’è bisogno di
ricordare che non ne stiamo fabbricando un’altra. Ma dentro questa maggioranza
ci stiamo con la forza e con l’orgoglio delle nostre idee. E non potremmo
accettare, neppure per un attimo, che queste idee venissero guardate con
sospetto, considerate con fastidio o relegate sdegnosamente ai margini. Le idee
che ci hanno portato fin qui appartengono a un’Italia antica, che si rinnova e
si ripensa ma non rinuncia ad essere quello che è. Un’Italia cattolica senza
essere bigotta, moderata senza fare a meno delle sue passioni, liberale senza
freddezze nordiche, europea ma anche mediterranea. Un’Italia che la Democrazia
Cristiana ha saputo interpretare e guidare con mano sobria e animo mite. Anche
per questo a chi pensa che siamo di troppo rispondiamo che in questa Italia i
democratici cristiani sono di casa. Abbiamo applaudito Giulio Andreotti,
abbiamo ascoltato Lillo Mannino. Nessun processo, nessuna sentenza -lo
ripetiamo una volta di più- può riscrivere la storia del nostro Paese. Nessun
processo, nessuna sentenza può capovolgere gli eventi politici e i valori
civili del nostro dopoguerra. Nessun processo, nessuna sentenza potrà mai
convincerci, né convincere gli italiani che noi discendiamo da una storia
malfamata. Al contrario, la nostra è stata una storia meritevole e onorata. La
rivendichiamo con convinzione come un valore. Per arrivare qui abbiamo
attraversato un mare in tempesta. La crisi della prima repubblica, la fine
della Dc, la gioiosa macchina da guerra della sinistra, l’ulivo piantato da
Prodi e poi potato da D’Alema e da Cossiga. Non sono stati anni facili, questi
ultimi. E credo che dobbiamo tutti e io più di tutti una gratitudine
particolare a chi questa nostra zattera l’ha costruita e pilotata lungo la
rotta giusta. A Pierferdinando Casini. Diceva Enrico De Nicola che la
gratitudine è il sentimento della vigilia. Vorrei dire a Casini che per me, per
noi, è il sentimento del futuro. In quel mare, in quella tempesta ci siamo
imbattuti negli scogli di molte sinistre. La caduta del muro ha travolto l’idea
che la storia si potesse divinizzare e che il potere degli stati sulle
coscienze, sulle persone, sulle associazioni e sui mercati non avesse limite.
Ma anche senza voler appendere la sinistra all’albero delle sue ideologie
sbagliate, noi abbiamo passato questi anni a contrastare una visione del mondo
che vedeva nel progressismo di sinistra il sole dell’avvenire e nei suoi
avversari le tenebre del passato. Abbiamo contrastato un’egemonia culturale e
moralistica di cui ancora non si è spenta l’eco. Abbiamo contrastato l’idea che
quella parte del nostro paese che spaziava dalla tolda di comando di molte case
editrici alla amministrazione delle cooperative emiliane, e che da ultimo si
era insediata in qualche procura della repubblica, avesse dalla sua una sorta
di primato civile da far valere. Per molti anni le cose che oggi sembrano ovvie
suonavano eretiche. E noi quelle eresie le abbiamo condivise tutte, una per
una. Ci sembrava che avesse ragione Camus contro Sartre nella disputa sulla
libertà e l’impegno degli intellettuali francesi. Ci sembrava che fosse più
originale il teatro di Ionesco rispetto a quello di Brecht, la scrittura di
Borges rispetto a quella di Garcia Marquez. Ci sembrava che meritassero più
attenzione Popper o Aron di tanti nipotini di Marx che in quegli anni venivano
letti, lodati e celebrati. Ci siamo battuti contro il politically correct che
ha dominato a lungo tanta parte dell’intellettualità del nostro paese. E lo
abbiamo fatto quando la moda era un’altra. Anche per questo quando ci accusano
di avere la tentazione del ribaltone mi chiedo sempre se è più giusto urlare di
rabbia o metterci a sorridere. E dico che forse è più giusto sorridere e
guardare oltre. Noi abbiamo avuto il 13 maggio scorso il mandato di governare
il paese. Governare l’Italia di questi tempi, mentre tutto il mondo è
sottosopra, vuole dire cambiarla. E vuole dire, allo stesso modo e per le
stesse ragioni, rispettarla. In un bel libro sull’Odissea Pietro Citati
paragona Ulisse e Agamennone, e di Agamennone dice: non aveva quel dono rarissimo
che è la serenità del potere. Ecco, noi crediamo che il potere debba avere
questa virtù: di venire esercitato con serenità. Non ci appartiene e non ci
convince un’idea barricadiera, che si esprime per forzature, che procede per
spallate, che trasforma gli avversari in nemici, che mette al bando le opinioni
più critiche, che si chiude nel fortilizio asserragliato delle fedeltà più
acquiescenti. La moderazione è la nostra identità, la nostra vocazione, il
nostro compito. Vogliamo stare sulla piazza della democrazia greca, non nel
castello della feudalità medievale. Abbiamo davanti a noi tempi difficili. Il
mondo è squassato dalla pericolosità di un terrorismo che non ha patria e non
ha bandiera ma che cerca di sollevare a suo favore l’onda del fanatismo e della
disperazione. L’economia risente della crisi di fiducia che l’11 settembre ha
portato con sé. Su un altro piano la protesta dei no global ci ricorda che in
tutto il pianeta un intero modello di sviluppo è sotto accusa e deve ritrovare
le sue ragioni e i suoi equilibri. Sono in gioco valori fondamentali: la pace,
la sicurezza, la giustizia. Valori che siamo abituati a dare per scontati per
quello che sono e per come abbiamo cercato di promuoverli fino ad oggi. E che
oggi chiedono invece di essere pensati all’interno di un contesto che non è più
quello di una volta. C’è poi qualcosa di più specifico che riguarda l’Italia,
le sue fragilità, il rischio di quello che viene chiamato il suo declino. Negli
ultimi anni il nostro paese ha perso molte posizioni. Settori strategici del
nostro sistema industriale -la Fiat, ma non solo la Fiat- sono in crisi. La
scuola è indietro. Arranchiamo nelle classifiche internazionali della ricerca e
dell’innovazione tecnologica. Il rischio di diventare una immensa Montecarlo, un
paese dove la gente viene a visitare monumenti, mangiare spaghetti e fare
shopping è un rischio che non va sottovalutato. E che chiede di essere
contrastato. E’ curioso come la sinistra, che in questo Paese è stata governo e
potere forte per molti anni, sfugga al tema dei suoi errori e delle sue
responsabilità. Ma le difficoltà di oggi, e quelle di ieri e di ieri l’altro,
richiedono alla politica, a tutta la politica, uno sforzo di originalità. Non
c’è infatti una formula magica che ci porti fuori dal guado. Dobbiamo ripensare
l’Italia da capo, ragionare su quello che siamo e su quello che vogliamo
essere. Serve una visione complessiva, uno sguardo d’insieme al paese. Un
partito nasce in ragione di un’idea del paese a cui si rivolge. Di questa idea,
molto più che di noi stessi, sta discutendo questo congresso a partire dalla
bella relazione con cui Rocco Buttiglione ha introdotto i nostri lavori. Io
riprendo qui il filo della riflessione che ha cominciato Rocco venerdì scorso.
Noi crediamo in un’Italia più europea. Un’Italia che non viva i vincoli sul
rigore dei conti pubblici e quelli contro gli aiuti di Stato come una camicia
di forza ma come un compito che abbiamo liberamente e convintamente fatto
nostro. Un’Italia che affida alla nuova architettura istituzionale dell’Europa
riunificata la possibilità di giocare un ruolo da protagonisti nello scacchiere
internazionale. Un’Italia dalla quale noi, per la nostra parte, guardiamo con
fiducia a quel Partito popolare europeo che sta sempre più diventando la casa
comune dei moderati europei. Noi crediamo in un’Italia più solidale, dove chi è
più debole abbia più tutela e chi è più forte rinunci a qualche tutela in più a
vantaggio di chi ne ha più bisogno. Perché la politica è questo: dare voce a
chi è più debole. E’ questo oppure non è niente. Un’Italia in cui non ci siano
pensioni da fame e pensionati troppo giovani. Un’Italia che offra al
mezzogiorno opportunità di sviluppo e non continui a drenare risorse dal sud al
nord come è accaduto negli ultimi anni. Lo dico a Totò Cuffaro, a Raffaele
Lombardo, a tanti amici di quella Sicilia dove ci avviamo a diventare il primo
partito. Un’Italia che aggredisca con decisione l’area della povertà che si va
estendendo. Un’Italia che ripensi il suo welfare a partire dalle famiglie che
sono state la risorsa trascurata del nostro patto sociale. Solidarietà vuol
dire, tra l’altro, scommettere sul valore e sulla forza dell’associazionismo,
civile e religioso, che è stato ed è tanta parte della storia del nostro paese.
Vuol dire -come ci ricorda D’Antoni- intraprendere il cammino della democrazia
economica, di un sistema di relazioni sociali più articolato e meno
massificato. Vuol dire essere capaci di vedere le grandi questioni del paese
dal lato delle persone prima che da quello dei sistemi organizzativi. Vuol dire
insomma dare più peso e più voce agli elettori rispetto agli apparati politici,
ai lavoratori rispetto ai circuiti produttivi, ai consumatori rispetto al
mercato, ai cittadini rispetto alla pubblica amministrazione. Crediamo in
un’Italia più libera e più capace di competere con gli altri e con sé stessa.
Un’Italia dove le dinastie industriali e professionali non si tramandino di
padre in figlio e dove i nuovi venuti dell’imprenditoria abbiano le loro
opportunità di crescere e di far crescere. Un’Italia dove le banche non
finanzino solo in ragione del patrimonio ma anche e soprattutto in ragione
delle idee e dei progetti, come ci ricorda spesso il nostro capogruppo Luca
Volontè. Un’Italia che scommetta sull’apertura e sulla conquista dei mercati e
non sul protezionismo del vecchio Colbert. Un’Italia che non rinunci a
privatizzare e liberalizzare dove è possibile e dove c’è vantaggio per i
consumatori. E quando parlo di privatizzare e liberalizzare non ho bisogno di
aggiungere che dopo aver fatto a meno del panettone di stato non è il caso di
andarci a infilare nell’auto di stato. Ma soprattutto crediamo in un’Italia più
unita. Un’Italia fatta di tante persone, tante associazioni, tante comunità,
tanti territori, tante differenze. Un paese pluralistico, certo. Un paese
governato in nome del principio di sussidiarietà, che sposta il potere il più
vicino possibile ai cittadini. Ma un paese solo. Uno e uno solo. Che non si
frattura sulla linea di faglia delle generazioni, delle classi sociali, delle
parti politiche. Che non si divide tra nord, centro e sud perché questa
divisione non sta nella storia del paese e non sta nella coscienza delle
persone né al nord, né al centro, né al sud. Siamo dentro un grande vortice di
incertezze, e anche questo condiziona il futuro del nostro paese. Tanto più io
credo che sia doveroso interrogarci su quello che siamo e su quello che
vogliamo diventare. E su come si costruisce il ponte che lega la nostra
identità alla nostra prospettiva, i nostri problemi alle soluzioni che andiamo
cercando. Il nostro paese ha bisogno di molte “cose”. Ha bisogno di trovare le
risorse per rimettere il mezzogiorno sulla rampa di lancio dello sviluppo. Ha
bisogno di trovare le risorse per sviluppare conoscenze e competenze senza di
cui le prossime generazioni andrebbero perdute. Ha bisogno di trovare le
risorse per fronteggiare la crisi di interi settori imprenditoriali. Ma ha
bisogno più ancora di ritrovare una “visione”, un’idea di sé e della propria
vocazione. Non ci sono pozioni miracolose, lo sa bene e lo dice spesso Bruno
Tabacci che possano propiziare la ripresa della nostra economia. La ripresa è
legata più alle idee che ai numeri, più alla cultura che alla prassi, più alla
politica che all’economia. E’ legata al recupero di una condizione di fiducia,
che è cosa diversa dall’ottimismo. La ripresa verrà, se ne saremo capaci, da un
progetto. Organizzare in una chiave più moderna lo Stato, rafforzare i legami
di coesione della società civile, valorizzare le mille forme del nostro
associazionismo, questo è il compito che la politica ha davanti a sé. Ed è
questa la sfida su cui anche noi saremo misurati. In questi giorni tra noi e
con i nostri alleati abbiamo discusso. Niente paura, continueremo a discutere.
Lo faremo con la tenace pazienza di Mario Tassone e con la grinta appassionata
e intelligente di Mario Baccini. Noi vogliamo confrontare, conciliare, rendere
armoniche idee diverse ma non stridenti sul futuro del nostro sistema-paese. E
si tratta qualche volta di scegliere tra idee diverse su punti specifici, e
magari su punti simbolici, dell’agenda politica e di governo. Sulla Rai, per
esempio, eterna metafora della politica, abbiamo idee diverse. Quando
arriveremo alla privatizzazione -e io dico che dobbiamo arrivarci presto- ci
ricorderemo del maestro Manzi e ripeteremo con lui: non è mai troppo tardi. Nel
frattempo però c’è da gestire un servizio pubblico, che è anche la più grande
impresa culturale del paese. E c’è da gestirlo con equità e con equilibrio,
tagliando le punte estreme della reciproca faziosità. Noi siamo stati vittime,
tutti noi e i telespettatori prima di noi, della insopportabile faziosità della
Rai di Zaccaria. Non possiamo prendere quella faziosità a modello della nostra
convenienza. Non vogliamo uno Zaccaria di centrodestra, ci basta e ci avanza
quello che ci ha regalato il centrosinistra. Non li dobbiamo, non li vogliamo,
non li possiamo ricambiare con la stessa moneta. Non ci piace -e io aggiungo:
non ci conviene- una Rai di parte, fosse anche la nostra parte. Non ci piace e
non ci conviene una Rai che fa programmi mediocri, ascolti calanti e che è
priva di progetto culturale. Non ci piace e non ci conviene, e soprattutto non
conviene al paese, una Rai ridotta a una giungla nella quale due o tre giapponesi
continuano a combattere perché non hanno riconosciuto alla radio la voce
dell’imperatore Hiroito che annuncia la fine della guerra. E non ci piace
affatto una Rai dove la paranoia arriva al punto di scambiare un gentiluomo e
un elettore del centrodestra come Marco Staderini per un pericoloso bolscevico
sul punto di accompagnare i cavalli cosacchi ad abbeverarsi a San Pietro. Ai
dirigenti della Rai ci permettiamo di ricordare una frase pronunciata da
Napoleone Bonaparte, che pure non doveva essere tenero nell’esercizio del
potere: “Ricadremmo in una ben strana situazione se un semplice impiegato si
arrogasse il diritto di impedire la pubblicazione di un libro o di forzare
l’autore a togliere o aggiungere qualcosa. La libertà di pensiero è la prima conquista
del secolo. L’imperatore vuole che sia conservata”. E se lo diceva così
Napoleone Bonaparte può andare bene anche il Presidente Baldassarre. E per
finire, non ci si venga a dire che ci sono trame dietro questa vicenda. Ci sono
doveri istituzionali, a cui il presidente della Camera adempie con scrupolo. E
ci sono obblighi politici di garanzia e di libertà che tanto più deve sentire
una coalizione garantista e liberale come la nostra. L’altra grande questione
su cui è aperto un confronto è quella della devolution. Io debbo ringraziare
Francesco D’Onofrio per la sua fatica, nobile come sempre, e per l’impegno che
ha messo per collocare questo disegno all’interno di una cornice nazionale,
solidale e istituzionale. Disegno e cornice, per noi, stanno insieme e non ho
bisogno di ricordare che nessun disegno sarebbe possibile fuori da quella
cornice. Noi abbiamo preso un impegno, assieme a tutta l’alleanza, per
trasferire l’organizzazione della sanità e della scuola alle regioni. E’ un
impegno che ribadiamo, ovviamente. Ma un impegno, sia chiaro, non è un ukase di
zarista memoria. E una legge costituzionale non si fa sulla punta delle
baionette, neppure delle baionette padane. Una legge costituzionale non a caso
ha dalla sua tempi lunghi di elaborazione e diversi passaggi tra i due rami del
Parlamento. Noi dobbiamo mettere a frutto questo tempo per armonizzare la
riforma che abbiamo ereditato dal centrosinistra con le nuove proposte che il
governo mette in campo. La riforma del centrosinistra è nata all’insegna di una
rincorsa politica ed elettorale che quella parte ha fatto a suo tempo verso la
Lega. Una rincorsa affannosa e disordinata, che ha portato a moltiplicare a
dismisura le competenze concorrenti e ha finito per trasferire presso la Corte
costituzionale, sotto forma di ricorsi, la controversia politica sul
federalismo. Ci sarebbe piaciuto sentire da quella parte, da dove piovono alti
lamenti sulle sorti dell’unità italiana, un minimo di autocritica sulla
confusione che la loro riforma ha ingenerato. Ma è noto che l’autocritica non è
il pezzo forte del repertorio politico del centrosinistra. Tocca a noi, allora,
correggere questa distorsione. E tocca a noi evitarne altre. C’è una domanda di
autogoverno delle comunità locali che va ascoltata e tenuta presente. C’è un
trasferimento di competenze, di responsabilità e di risorse che merita di
essere promosso e gestito con fiducia ma anche con misura e con un’attenzione
particolare alle aree più deboli del paese. C’è insomma da cucire un nuovo
vestito istituzionale che va adattato alla conformazione di un paese dove 8
mila e più comuni non possono certo contare meno di 20 regioni. E c’è infine da
valutare con la diligenza del buon padre di famiglia, come si usa dire, i costi
che si profilano e che vanno resi compatibili con la penuria delle risorse
pubbliche. Se la devolution sta dentro questi confini vorrà dire che siamo
riusciti a trovare il punto di equilibrio. Ma al di là di questi confini
abbiamo il dovere di non andare. E per parte nostra non andremo. Ci impegneremo
a garantire in questo passaggio l’unità e l’uguaglianza degli italiani. E lo
faremo prendendo a modello l’articolo 72 della Costituzione di uno stato
federale, la Germania. Quell’articolo recita: “il Bund legifera quando lo
richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in
particolar modo la tutela dell’uniformità delle condizioni di vita”. Questo è
il principio risolutivo. Le condizioni di vita, i diritti fondamentali debbono
essere gli stessi, dai villaggi alpini alle coste siciliane. Debbono essere gli
stessi e noi diciamo: saranno gli stessi. Non ci saranno italiani di serie a e
italiani di serie b, alcuni nati con la camicia e altri predestinati alla
valigia di cartone. In questi giorni si è parlato di un’altra riforma, quella
presidenziale. Ci è stata fatta una domanda chiara e abbiamo il dovere di
fornire una risposta altrettanto chiara. Noi non siamo nati sventolando la
bandiera del presidenzialismo. Abbiamo un’idea meno verticale dell’equilibrio
dei poteri e dell’organizzazione dello Stato. Certo, non poniamo preclusioni.
Ma da parte nostra preferiamo un cancelliere a un mega presidente ma
soprattutto riteniamo, questo è il punto, che la riforma delle istituzioni non
sia fatta e non possa essere fatta di bandiere che sventolano l’una contro
l’altra. Occorre comporre un equilibrio tra le diverse parti dello Stato. E
occorre cercare un equilibrio tra le diverse parti della politica. Non possiamo
immaginare una riforma che spezzi questo equilibrio o che lo renda più difficile.
Il cambiamento deve essere nel solco dell’armonia tra i poteri dello Stato. La
forzatura di leggi costituzionali votate dalla maggioranza contro
l’opposizione, inaugurata dal centrosinistra nella scorsa legislatura,
costituisce un pessimo precedente e fornisce un esempio da non seguire. Se si
continuasse lungo questo percorso si finirebbe inevitabilmente per trasferire i
conflitti politici sul terreno delle istituzioni. Non è questo il nostro
percorso. La Costituente del ‘46 dimostra che le riforme fatte insieme durano
una vita. Mentre le riforme a maggioranza hanno l’aria di durare appena una
legislatura. Dobbiamo scegliere dunque tra riforme solide, utili e durature e
riforme che invece durano lo spazio di un mattino. E io dico che la nostra
scelta è per le riforme solide, utili e durature. Sull’innovazione
istituzionale noi ci siamo. Su di uno strappo non ci saremo. Questi sono i
termini della nostra lealtà. Al paese, prima di tutto. Agli elettori. Agli
alleati. E anche a noi stessi, alle nostre coscienze. Non c’è contraddizione
tra tutte queste lealtà. E’ questa la nostra scommessa, è questo il destino che
ci siamo scelti. Abbiamo ben chiaro quello che ci unisce. E altrettanto chiaro,
se non di più, tutto quello che ci divide dalla sinistra. Siamo lontani,
lontanissimi dal giustizialismo snobistico e dallo spirito barricadiero che
anima il popolo dei girotondi. Siamo lontani, lontanissimi dal modo in cui
l’ulivo ha governato il paese nella scorsa legislatura, combinando
l’immobilismo dei progetti con gli eccessi dello spirito di fazione. Siamo
lontani, lontanissimi da quell’opposizione parlamentare che si è frammentata in
quattro, cinque diverse mozioni quando è stata chiamata a prendere posizione
sull’invio dei soldati italiani in Afghanistan. Confidiamo sempre che la
sinistra italiana completi la sua evoluzione verso il modello socialdemocratico
europeo. Ma siamo, e restiamo, dalla parte opposta. E a quegli amici del
partito popolare che di fronte alle loro difficoltà ci invitano a passare dalla
loro parte, ci viene da dire semmai il contrario: venite voi di qui che vi
risparmiate qualche girotondo. Venite di qui perché è qui che si costruisce la
nostra casa. Ci riesce difficile dimenticare che la sinistra nel nostro paese
ha vestito troppe volte i panni del giustizialismo e ha scagliato troppe volte,
e assai spesso nella direzione sbagliata, le frecce del suo interdetto morale.
Apprezziamo il fatto che Piero Fassino su questo versante dica cose nuove e per
lui perfino rischiose. Ma sappiamo bene quanta parte della sinistra politica e
giudiziaria continui a vedere nei tribunali i luoghi nei quali si intensifica
la battaglia politica e magari se ne capovolgono le sorti. E anche in questo
noi siamo, e restiamo, dalla parte opposta. Ad una sinistra così divisa, e così
smarrita e confusa, tanto più noi dobbiamo opporre una politica che sappia
parlare in modo convincente a quei ceti, a quegli ambienti, a quelle forze che
in una moderna democrazia bipolare si muovono a ridosso del confine tra uno
schieramento e l’altro. Qui sta la nostra ragion d’essere, qui sta la
convenienza, vorrei dire la lungimiranza, di tutta la maggioranza. Noi non
dimentichiamo che Silvio Berlusconi è stato l’artefice della casa delle
libertà. Insieme a lui abbiamo costruito l’argine moderato negli anni della
marea ulivista, insieme a lui abbiamo il compito di governare il paese, insieme
a lui risponderemo di quello che avremo saputo e potuto realizzare. Ma
l’amicizia è il territorio della verità, non solo quello dell’affetto. Ed è con
spirito di amicizia e di verità che chiediamo a Berlusconi di aggiustare la
rotta politica della maggioranza. L’ho già detto e lo ripeto: vogliamo ridurre
l’aliquota politica che governo e maggioranza si trovano qualche volta a pagare
a certe posizioni più estreme, a certe derive che ci allontanano dal grande
cuore di quella Italia di mezzo, moderata, solidale e ragionevole, di cui ci
sentiamo parte. E di cui Berlusconi, nella sua più alta responsabilità, è parte
assieme a noi. Nei giorni scorsi da qualche parte si è voluta accreditare la
balzana idea che la maggioranza possa essere fatta da tre partiti maggiori
“contro” uno minore, mi par di capire che quello minore saremmo noi. Io non so
se qualcuno accarezzi davvero un’idea del genere. Non lo credo, anche perché
non credo che questo schema darebbe alla coalizione tranquillità e solidità.
Noi non abbiamo certo il complesso del brutto anatroccolo. Anche perché abbiamo
la consapevolezza di non vivere nel lago dei cigni. Il problema che poniamo non
è dunque quello del rango politico del nostro partito. E’ il problema, ben più
importante, dell’equilibrio e dell’identità della nostra coalizione. E proprio
perché non si tratta di una richiesta dettata dall’egoismo non c’è ragione per
noi di essere né cedevoli né rassegnati. E non saremo né cedevoli, né
rassegnati. Noi non possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza
rispetto a correnti euroscettiche che ogni tanto si affacciano sul limitare
della maggioranza e che evocano una sorta di inverosimile Spectre che da Bruxelles
starebbe attentando alla nostra sovranità nazionale. Non è così. Noi non
possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza rispetto a chi vive le
istituzioni come il luogo del conflitto e non più come il luogo nel quale il
sistema politico ritrova quel poco di armonia di cui è capace. Non è così, non
può essere così. Noi non possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza
rispetto a chi considera il Capo dello Stato come parte in causa quando invece
ha dimostrato in questi anni di essere il riferimento istituzionale più
corretto per tutte le parti politiche. Su questi temi non possiamo e non
vogliamo essere vaghi perché davvero su di essi tutti noi, e il centrodestra
per intero, ci giochiamo l’anima. Qualcuno ha voluto derubricare questi argomenti,
queste preoccupazioni a banali fibrillazioni precongressuali. Si tratterebbe di
un polverone destinato a dissolversi già da domani. Non credo che sia così. E
per quanto mi riguarda, se avrò qualche responsabilità nella vita del partito,
tornerò a ripetere domani e dopodomani le stesse cose che, assieme a tanti
amici, ho avuto modo di sostenere ieri e l’altro ieri e oggi qui davanti a voi.
Ma le dico, e le diciamo, perché sono utili alla coalizione tanto quanto sono
preziose per noi. Con la stessa doverosa franchezza debbo dire a Fini che sono
rimasto deluso per la sua drastica chiusura verso ogni forma di clemenza
giudiziaria. Non ho mai pensato che il parlamento dovesse obbedienza politica
al Papa. Ma mi ero illuso che quelle parole, quell’appello ad un gesto di
clemenza risvegliassero coscienze più attente. In qualche caso, purtroppo, non
è stato così. Ma la delusione non ci fa cambiare idea. Prendiamo atto di questa
chiusura ma noi, per parte nostra, continuiamo a ritenere che il discorso sia doverosamente
aperto. Ci batteremo noi, con le nostre piccole forze, perché quel gesto ci
sia. Dobbiamo ritrovare lo spirito del 13 maggio. Tornare a parlare a un
elettorato largo che non ci seguirebbe sui tornanti della faziosità ma che a
noi, alla casa delle libertà, ha assegnato il compito di tenere il più
possibile la barra al centro. A Silvio Berlusconi, a Gianfranco Fini ribadiamo
il nostro sostegno e la nostra alleanza. A Umberto Bossi ribadiamo la nostra
chiarezza e correttezza. Al paese possiamo assicurare con tranquilla coscienza
il valore della stabilità politica e il rispetto degli impegni che abbiamo
assunto presso gli elettori. Siamo un partito di frontiera, e su quella
frontiera ci stiamo per presidiarla, non per attraversarla. Coerenti e chiari,
secondo quelle parole d’ordine di Pierferdinando Casini a cui nessuno di noi è
mai, mai, mai venuto meno. Non cerchiamo giustificazioni, e lo dico una volta
per tutte e poi non lo dirò più, noi non accettiamo sospetti. C’è chi pensa che
questa stabilità ha bisogno del presidio delle attuali posizioni ministeriali.
C’è chi pensa che una stabilità maggiore avrebbe bisogno di posizioni più
forti. E infine c’è chi pensa che si può fare a meno dei ministeri di oggi e di
quelli di domani. Non vorrei sfuggire all’argomento, per quanto possa essere
spinoso. Ma con franchezza non credo che il problema sia solo nostro. Noi siamo
e resteremo nella maggioranza come un punto fermo. Siamo e saremo nel governo
per quanto potremo essere utili e ascoltati. Non abbiamo ansia di poltrone, ed
io che chiedo a voi un mandato politico, sono certo di non poter peccare in
questo campo neppure col pensiero. Ma proprio perché non daremo mai l’assalto
alle poltrone ci riesce difficile affezionarci agli strapuntini. Siamo arrivati
a questo congresso con qualche ritardo, e ne abbiamo tutti una parte di
responsabilità. Ma infine ci siamo arrivati. Vorrei rivolgere un saluto
affettuoso a Rocco Buttiglione, che ha voluto più di tutti, con tenacia e con
passione, l’appuntamento di questa unificazione. E vorrei rivolgere un saluto
affettuoso a Sergio D’Antoni che a questo appuntamento è approdato con
convinzioni forti. E idee innovative. Con loro so di avere da oggi un debito
ancora maggiore. Ringrazio Gianfranco Rotondi che è stato candidato più a lungo
di me. Io chiedo a questo congresso un mandato per guidare secondo ferree
regole democratiche il nostro partito. Di questo mandato fa parte per me in
maniera inestricabile la proposta che il Consiglio nazionale elegga Rocco
Buttiglione presidente e Sergio D’Antoni vice segretario. Insieme lavoreremo
con spirito unitario e forte collegialità. Insieme, cercheremo di sbagliare il
meno possibile, e sono certo che tanti amici intorno a noi ci aiuteranno a
sbagliare meno ancora. A tutti questi amici io vorrei esprimere oggi la
gratitudine per aver tenuta alta la bandiera del loro impegno nei momenti
difficili. E una gratitudine particolare sento di doverla assieme a tanti altri
a Lorenzo Cesa. Un partito come il nostro, lo abbiamo detto tante volte, o è
democratico o non è. E democratico significa pluralistico, rispettoso di tutti,
e tanto più rispettoso verso chi ha opinioni diverse. Valgono a poco, in questo
campo, le prediche e le promesse. Saranno i fatti a parlare per noi, se saremo
capaci di saldare i gesti alle parole. Per parte mia ci tengo solo a dire che
tutta la nostra scommessa politica è appesa al filo di questo adempimento. Se
il partito sarà la casa comune nella quale ognuno di noi, quale che sia il
ruolo, quale che sia l’opinione, si troverà a proprio agio troveremo un
consenso più largo. Se ci chiuderemo nel fortilizio resteremo soli e perderemo
la straordinaria occasione politica che sta, oggi, davanti a noi. All’indomani
del ‘68 Aldo Moro si rivolse ai dorotei che lo avevano escluso dalla
maggioranza e indicò loro il suo obiettivo. “Occorre aprire -disse- porte e
finestre di questo castello che è il partito per farvi entrare il vento che
soffia nella vita”. Oggi questo problema non appartiene solo a noi. Riguarda
tutta la cittadella politica. C’è fuori un vento forte, gonfio di malumore e di
scetticismo, ma anche ansioso di riannodare i fili di un discorso pubblico, che
chiede a tutti i partiti di aprire un ragionamento nuovo sui caratteri della
nostra democrazia e della sua organizzazione. Il nostro partito sta lì, al
crocevia di quella domanda e la risposta che dobbiamo, tutti insieme, cercare
di elaborare. Ho ricordato Moro perché non dimentico di avere cominciato vicino
a lui il mio tragitto politico e per quanti errori io possa aver fatto di
quella vicinanza giovanile sono orgoglioso. E l’ho fatto perché ho piena
consapevolezza di quale debito infinito la nostra esperienza politica abbia
contratto con il passato democristiano di moltissimi di noi. Rendendo omaggio
alla tradizione antica il monaco Bernardo di Chartres lasciò scritto: “Siamo
nani sulle spalle di giganti. Vediamo un numero maggiore di cose e più lontane,
non per l’acutezza della nostra vista o per la nostra più elevata statura, ma
perché essi ci sollevano e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza”.
Ora noi siamo nani senza più giganti che ci portino in spalla. A chi si
attarda, ancora oggi, in un pregiudizio storico e politico sulla Dc e su quanti
nella Dc hanno militato ricordiamo che se per quasi mezzo secolo questo paese è
stato libero e prospero lo si deve largamente ai democratici cristiani. E a
fronte di quel mezzo secolo forse è giunto il momento che si tolgano il
cappello, assieme agli avversari di ieri, anche i tardivi avversari di oggi. A
nessuno è consentito di fare a brandelli la memoria politica più importante e
positiva della nostra tradizione democratica. Noi, per parte nostra, abbiamo il
compito di custodirla, quella memoria. E di non fare confusione, proprio per il
valore che ha, tra la memoria e la prospettiva. Qual è, dunque, la nostra
prospettiva? Noi lavoriamo per costruire un partito di centro, moderato e
moderno, popolare ma non populista, ispirato dai valori ma non clericale. Un
partito non transitorio e non provvisorio, che non teme annessioni e non brama
federazioni. Una forza consapevole del passato, ma soprattutto rivolta al
futuro, che ha rispetto per le proprie radici ma cerca di parlare anche a tutte
le generazioni che di quelle radici conoscono soltanto quel poco che trovano
nei libri di storia. Alla Democrazia Cristiana io devo la mia formazione. Vi ho
dedicato molti anni e qualche libro, e se ne ho scritto tanto a lungo è perché
in quella storia anche io mi rispecchio. La nostra forza però oggi sta nel
guardare avanti nel non tornare indietro. E a chi coltiva un’idea diversa, a
chi invece vorrebbe tornare indietro io ho il dovere morale di dire che non
sono la persona giusta e non sarei il segretario giusto per compiere questa
operazione. A chi pensa che gli anni ottanta siano l’eldorado perduto che ora
dobbiamo ritrovare chiedo con franchezza e con lealtà di non votare per me, di
non contare su di me. Vogliamo dare un seguito, dobbiamo dare un seguito alla
passione democratica con cui migliaia di militanti, di attivisti, di dirigenti
politici democristiani hanno servito il nostro paese. E vogliamo dare un
taglio, dobbiamo dare un taglio a quelle pagine più oscure, a quegli errori
politici e morali che hanno contraddetto e sfigurato quella stessa passione
democratica. Abbiamo davanti a noi, insieme, un compito difficile e -lo ripeto-
un’occasione straordinaria. Vedo oggi intorno all’Udc una curiosità attenta e
amichevole. Sta a noi, ma non sarà facile, trasformarla in consenso e in
mobilitazione. Dobbiamo sapere che come tutte le occasioni, è anche questa è
una sfida. Nei giorni scorsi abbiamo letto un sondaggio, tra tanti, che ci
accredita appena il l’1,5 per cento. Ora noi, poco più di sei mesi fa, abbiamo
raccolto il 7,8. Se la matematica non è un’opinione dovremmo aver perso quattro
elettori ogni cinque. Non credo che abbiamo così tanto talento politico nel
dissipare le nostre risorse. Ma il vero sondaggio, amici, lo faranno gli
elettori. Noi ci rivolgiamo a loro, fin d’ora, avendo fiducia nelle nostre
forze e chiedendo fiducia per il nostro progetto. E faremo di tutto per
meritarcela, quella fiducia.
La relazione introduttiva del ministro per le Politiche comunitarie, Rocco Buttiglione, al congresso nazionale dell’Udc
L'Unione dei Democratici
Cristiani raccoglie l'eredità storica, morale e politica della Democrazia
Cristiana. Nella storia nulla si ripete tuttavia i valori veri, i valori che
contano, non muoiono mai. Essi vengono reincarnati in forme sempre nuove ed
adeguate ai tempi che cambiano per opera degli uomini che ad essi sono fedeli e
che si assumono questa missione. L'Unione dei Democratici Cristiani operando
all'interno del Partito Popolare Europeo, si assume oggi il compito di cercare
sul terreno concreto della azione politica le forme che danno concretezza ai
valori di sempre nella storia del secolo che da poco è iniziato. Il valore
politico primo e fondamentale che i democratici cristiani hanno garantito nella
storia della seconda metà del secolo XX in Italia ed in Europa è stato quello
della pace. Oggi diamo tutti troppo facilmente per scontato il valore della
pace. Al contrario ciò che è normale nella storia non è la pace ma la guerra.
I 57 anni di pace di cui ha goduto il nostro Paese e con esso l'Europa sono il
periodo più lungo di pace della storia europea. In questi stessi anni intorno a
noi il mondo ha conosciuto innumerevoli conflitti. Questi anni di pace sono
stati il risultato delle giuste scelte politiche compiute da Alcide De Gasperi
e, insieme a lui, da Adenauer e Schuman. Queste scelte si chiamano Europa e
Comunità atlantica. Queste scelte si chiamano interclassismo e politica del
Mezzogiorno. Noi siamo chiamati oggi a ripetere quelle scelte adeguandole alla
misura del nostro tempo. Alla nostra generazione si adatta perfettamente ciò
che ha scritto una volta un grande poeta: "quello che hai ereditato dai
tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente". Non si
comprende la nostra scelta di principio per l'Unione Europea se si dimentica che
l'Europa è la pace. L'Europa non è prima di tutto cosa dei governi e delle
burocrazie di stato o cosa delle imprese e delle banche. L'Europa è la forma
concreta della pace. Nel secolo XIX e nella prima metà del secolo XX le classi
dirigenti delle nazioni europee hanno creduto di poter garantire la vita dei
loro popoli solo occupando militarmente i territori di provenienza delle materie
prime per le loro industrie ed i mercati di sbocco per i loro prodotti. Il
risultato è stato il colonialismo, il militarismo e la guerra. Adenauer, De
Gasperi, Schuman sono partiti da un imperativo morale: mai più la guerra in
Europa. Essi hanno concepito il mercato comune come lo strumento principale al
servizio della pace. Hanno ragionato più o meno così:lasciamo che ciascuno
compri ciò che vuole dove vuole, lo trasformi con il proprio lavoro e lo
rivenda dove gli pare. In questo modo siamo cresciuti insieme ed i più poveri,
gli italiani, sono cresciuti più rapidamente degli altri colmando un secolare
ritardo. Con questa scelta i democratici cristiani che hanno costruito l'Europa
si sono differenziati nettamente da ogni destra nazionalista. Il loro ideale è
stato l'Europa. Non il mercato in se stesso e nemmeno semplicemente l'economia
di mercato ma il mercato al servizio della pace ovvero l'economia sociale di
mercato. Il mercato che abbiamo voluto costruire in Europa e che continuiamo a
costruire è un mercato democratico, un mercato in cui a tutte le nazioni ed a
tutte le persone è possibile mettere in valore i propri talenti e guadagnarsi
la vita con il loro lavoro. Tenere aperto il mercato, impedire che esso si
chiuda garantendo il privilegio di alcuni, allargarne le dimensioni perché
tutti in esso possano trovare la propria collocazione è il compito della
politica. Questa sottolineatura distingue un approccio democratico cristiano da
un approccio semplicemente liberale. Il mercato non è un'assenza di regole ma
un sistema di regole. In una società bene ordinata il mercato è un mezzo e non
un fine e viene appoggiato e contenuto da altri sistemi, giuridici, culturali,
religiosi e politici. Il mercato è nella società e per la società. Ripetere
oggi questa scelta significa impegnarsi secondo il programma di Lisbona per fare
dell'Unione l'area di più rapido ed integrale sviluppo della economia della
conoscenza. Ripetere questa scelta oggi significa impegnarsi per l'allargamento
e l'approfondimento della Unione. Il nostro partito è in prima linea su questi
problemi con il Ministro per le Politiche Comunitarie del Governo Berlusconi e
con il rappresentante nella Convenzione della Camera dei Deputati. Non si tratta
né di un caso né di una coincidenza. Vogliamo l'allargamento e vogliamo andare
anche oltre i limiti dell'allargamento perché garantiremo la pace solo se oltre
i confini dell'Unione si svilupperà un'area di collaborazione economica e
civile nel Mediterraneo, nel Medio Oriente ed insieme con l'altra Europa
(Russia, Ucraina, Bielorussia etc…). Questi Paesi, che nel prevedibile futuro
non possono essere integrati nell'Unione, possono e debbono partecipare ad una
forma nuova di associazione che permetta loro di partecipare dei benefici del
mercato comune europeo. Sarà possibile in questo modo governare un pezzo di
globalizzazione e dare il nostro contributo specifico per la pace nel mondo.
Egualmente importante è il rapporto dell'Unione con l'America Latina, a cui
lavora infaticabilmente uno dei nostri uomini migliori, Mario Baccini, come
sottosegretario agli esteri. L'integrazione con il Mercosur ed il trattato di
commercio con il Messico sono il punto di partenza di una azione che ci
auguriamo sempre più feconda verso un continente le cui nazioni si sono
costruite con gli sforzi ed il lavoro di milioni di italiani. Ribadiamo
contemporaneamente che sarebbe ingiusto fare pagare i costi dell'allargamento
alle regioni del Mezzogiorno Mediterraneo che più tardi e più lentamente ne
godranno i benefici. L'Unione non è né così avara né così povera da non
potersi fare carico dei problemi di tutte le sue aree in ritardo di sviluppo,
sia di quelle attuali del Mezzogiorno mediterraneo sia di quelle dell'Oriente
europeo. Abbiamo condiviso e condividiamo le linee portanti della politica
estera ed europea cui molto e positivo impulso ha dato l'iniziativa personale di
Silvio Berlusconi. Ci siamo rallegrati per lo storico incontro di Pratica di
Mare che ha portato all'inizio della integrazione della Russia con la NATO.
Abbiamo apprezzato le proposte per la ricostruzione della Palestina che non
hanno però potuto fino ad ora avere seguito. Diciamo con lealtà che non
abbiamo egualmente apprezzato alcune voci che si sono alzate nel governo per
indicare le istituzioni europee ed il progetto stesso dell'Unione come un
pericolo ed un nemico. Esso è per noi invece una speranza ed un contenuto
fondamentale del programma di governo. Ci sembra anche un poco equivoca una
certa insistenza sul rifiuto di un "superstato" europeo. Se questo
vuol dire che non vogliamo che il rafforzamento delle prerogative dell'Unione ci
regali più controlli e più burocrazia, se questo vuol dire che la somma totale
degli apparati di Unione e stati ci dovrà dare, dopo la riforma, più libertà
e più efficienza, allora diciamo anche noi che non vogliamo un superstato
europeo. Ma se questo dovesse significare che non si è capito che la sovranità
italiana non può essere effettiva se non è esercitata insieme a quelle degli
altri stati dell'Unione, se questo volesse dire il rifiuto di rafforzare
l'Unione perché svolga pienamente il suo compito nel mondo allora non saremmo
più d'accordo. Può darsi che i tempi non siano ancora maturi per un compiuto
passaggio agli Stati Uniti d'Europa ma quella è tuttavia la direzione di marcia
che ci indicano la nostra storia ed i nostri valori e quella direzione di marcia
noi intendiamo perseguire. Il secondo pilastro della politica dei democratici
cristiani è la NATO. Noi pensiamo che l'Unione Europea debba intendere e
svolgere il proprio ruolo all'interno di una più ampia comunità atlantica di
cui gli Stati Uniti sono inevitabilmente l'altro pilastro. Non abbiamo
dimenticato i giovani americani che sono venuti a combattere e, molti, anche a
morire, per la libertà dell'Italia e dell'Europa. Non abbiamo dimenticato il
ruolo degli Stati Uniti per la difesa della libertà contro il pericolo
comunista e non crediamo che l'Unione Europea debba concepirsi in antagonismo
verso gli Stati Uniti. La NATO è lo strumento principale per l'esercizio di una
responsabilità comune per la tutela della pace nel mondo. Occorre adesso
rafforzare e costruire organicamente il pilastro europeo della alleanza per
collaborare più efficacemente nello svolgimento dei compiti comuni. Un
coordinamento efficace delle spese per la difesa nei paesi dell'Unione
permetterebbe di accrescere potentemente l'efficacia dello strumento militare
dell'Unione anche a parità di costi. Dopo la caduta del muro di Berlino è
cambiata in un certo senso la natura dell'alleanza. Essa non ha più lo scopo di
fermare una improbabile invasione della Armata Rossa. Il nuovo avversario che si
è delineato dopo gli attentati dell'11 settembre è piuttosto il terrorismo
internazionale che, con l'aiuto di stati dominati da gruppi dirigenti fanatici,
potrebbe arrivare a disporre di armi di distruzione di massa. L'emergere di
questo nuovo avversario ha indotto ad una profonda revisione della dottrina di
sicurezza americana e nel corso di questa revisione è emerso il rischio dell'unilateralismo.
Giustamente il governo italiano sia in occasione della crisi afgana sia in
occasione della presente vicenda irachena ha assicurato agli Stati Uniti il
proprio leale sostegno e proprio in forza di questa assunzione di responsabilità
si è adoperato a favore di una strategia multilaterale di lotta al terrorismo.
Strategia multilaterale vuol dire adoperarsi per costruire una alleanza
internazionale contro il terrorismo coinvolgendo in essa l'Unione Europea, la
Russia ed i paesi arabi moderati. Il governo italiano in questa occasione ha
parlato sia con i russi che con gli americani ed ha aiutato a forgiare la linea
di azione presente che, noi speriamo, consentirà di disarmare l'Iraq senza
guerra. Contemporaneamente nel momento più difficile della crisi io stesso ho
spiegato al governo irakeno che la guerra non era affatto decisa, che la scelta
di dare puntuale esecuzione alle risoluzioni delle Nazioni Unite con ogni
probabilità avrebbe evitato il conflitto, che la via della pace era ancora
aperta e poteva essere praticata. E' mancato al governo in questa occasione un
dialogo adeguato da parte dell'opposizione. Essa nel suo complesso non ha saputo
e voluto affrontare politicamente i problemi della pace e della convivenza
internazionale. Si poteva dissentire dalle modalità di affronto della crisi
inizialmente proposte dal governo degli Stati Uniti ma non si poteva e non si
doveva con un superficiale antiamericanismo eludere il problema: possiamo
tranquillamente lasciare che il regime iraqueno si doti di armi di distruzione
di massa? Che faremo poi se queste armi fossero usate per distruggere lo stato
di Israele e ripetere l'olocausto? Una Europa che rifiutasse di affrontare
questi problemi mostrerebbe chiaramente di non sapere e di non volere assumere
una responsabilità globale per la pace. In tal caso non potremmo poi noi
europei lamentarci dell'unilateralismo americano. Solo Giuliano Amato, in questa
occasione, ha affermato la cultura di una sinistra di governo. E' purtroppo
rimasto isolato con solo la parziale comprensione di Massimo D'Alema. Ce ne
rammarichiamo perché queste scelte fondamentali di politica estera dovrebbe
vedere l'unità di tutta la nazione, specialmente nel momento in cui i nostri
soldati sono esposti all'estero in delicate situazioni per dare forza alla
politica di pace del governo e del popolo italiano. Della politica della pace fa
parte la politica per lo sviluppo. Lo ha detto Paolo VI: lo sviluppo è l'altro
nome della pace. Ripetutamente il governo nella sua espressione più alta, per
le parole del Presidente Berlusconi, ha preso l'impegno di aumentare lo sforzo
dell'Italia nella lotta per lo sviluppo economico dei popoli poveri e contro la
fame. La infelice situazione economica di questo anno non ha consentito di
onorare da subito questo impegno. Noi riteniamo però che a partire dalla
prossima legge finanziaria debba iniziare un percorso che, con opportune misure,
conduca a portare nell'arco della legislatura l'impegno dell'Italia contro la
fame dallo 0,13% allo 0,39% del PIL. E' un obiettivo realistico anche se
impegnativo. Vogliamo che a questo impegno finanziario corrisponda un impegno
culturale, una mobilitazione del mondo del volontariato e del terzo settore,
delle fondazioni e delle imprese sociali, per dare un obiettivo concreto e
realistico a quanti sentono oggi una profonda insoddisfazione per una
globalizzazione che travolge talvolta nel suo cammino i poveri della terra, che
va guidata e governata ed i cui effetti negativi devono essere controbilanciati
da un forte impegno di solidarietà. L'idea della pace, che in politica estera
induce i democratici cristiani a lavorare per l'Europa e per la Comunità
Atlantica, si sostanzia in politica interna nelle idee di interclassismo, di
concertazione o di dialogo sociale. E' questo, di nuovo, lo sforzo di costruire
un mercato aperto, un mercato democratico, in cui non vi siano barriere
all'ingresso ed in cui tutti possano mettere in valore i loro talenti. Il primo
talento è la capacità di lavoro. Finché milioni di persone che vogliono
lavorare non possono lavorare il mercato è asfittico, non è aperto e non è
democratico. E' compito della politica tenere aperto il mercato e creare una
ragionevole abbondanza di posti di lavoro. Questo obiettivo non lo realizza
infatti un mercato abbandonato a se stesso in cui infinite strozzature
ostacolano il libero dispiegarsi delle energie dell'impresa e del lavoro. Lo
stato ha una funzione fondamentale di produttore di regole ma anche di
stimolatore per accelerare i processi di innovazione e per contenere gli effetti
negativi di quella distruzione creativa che pure è una caratteristica
inevitabile delle economie di libero mercato. Nelle situazioni di difficoltà e
di conflitto la prima lealtà dello stato va ai lavoratori. Bisogna infatti
distinguere nettamente le responsabilità dello stato da quelle dell'impresa. Il
compito dello stato non è quello di sovvenzionale imprese in difficoltà
aumentando le tasse ed ostacolando la crescita complessiva del paese. Compito
del governo è invece essere vicino ai lavoratori, garantire che nuovi posti di
lavoro si creino e che i lavoratori che eventualmente perdessero un posto di
lavoro ne possano facilmente trovare un altro disponendo di efficaci strumenti
di informazione, di riqualificazione e di sostegno economico nella difficile
fase di passaggio. A questi principi ci siamo ispirati anche nell'affronto della
vicenda Fiat. Le concessioni che il governo è riuscito a strappare a difesa dei
lavoratori della Fiat sono quello che si è potuto ottenere in questo momento.
Prendiamo atto dolorosamente del fatto che il sindacato non ha ritenuto di poter
sottoscrivere un'intesa, anche per la presenza al suo interno di posizioni
massimaliste. E' comunque utile per tutti, al di là delle incomprensioni che vi
sono state, recuperare un rapporto, riprendere il negoziato per accompagnare
l'attuale ristrutturazione con il consenso dei lavoratori e porre le basi di un
futuro auspicato rilancio. Concertazione non significa per noi rinuncia né da
parte dello Stato né da parte degli altri attori della vita sociale
all'esercizio autonomo delle proprie responsabilità, non significa
riconoscimento di diritti di veto a nessuno. Concertazione è piuttosto
consapevolezza del proprio limite da parte di ciascuno. Le nostre decisioni e le
nostre iniziative funzioneranno meglio se gli altri attori della scena economica
e sociale reagiranno ad esse in modo cooperativo e non antagonistico e questo
avverrà più facilmente se cercheremo di coinvolgere di volta in volta nella
decisione coloro che hanno interessi legittimi che dalla decisione saranno
toccati. Dobbiamo portare in Europa questa Italia, così ricca di aggregazioni,
di rappresentanze di categorie, di professioni, di gruppi sociali che vogliono
giustamente essere ascoltati perché convinti di dare un contributo proprio ed
insostituibile al bene comune. E' l'Italia delle imprese e dei sindacati, ma è
anche l'Italia delle associazioni degli artigiani e dei commercianti, delle
cooperative e del volontariato, degli agricoltori e di tante altre forme
associative ancora. Tutto questo è una ricchezza per la democrazia, è una
garanzia che la decisione politica non possa mai dimenticare le persone concrete
che con il loro lavoro ed il loro impegno sono questo Paese, sono l'Italia. Noi
ci impegniamo a tenere aperto il dialogo con tutte queste realtà. Abbiamo
lavorato tenacemente alla costruzione del Patto per l'Italia e lavoreremo adesso
alla sua coerente attuazione. Abbiamo visto e vediamo in esso una grande scelta
politica della Casa delle Libertà che si qualifica attraverso di esso non solo
come il blocco sociale delle partite IVA, che pure sono parte essenziale del
nostro progetto, ma, insieme con esse in una organica visione di insieme come il
blocco sociale dei lavoratori dipendenti e del volontariato e dei disoccupati e
dei giovani in cerca di lavoro. Costruire la pace è un compito che non vale
solo nella sfera internazionale.Vale egualmente nella vita politica interna del
Paese. Anche qui le condizioni di una collaborazione feconda dei diversi ceti e
delle diverse categorie non sono date una volta per tutte ma devono essere
costruite continuamente con infinita pazienza e, in un certo senso,
ricominciando sempre da capo. Questo è tanto più vero per una coalizione di
Governo che ha un programma ambizioso di rinnovamento del Paese per renderlo più
competitivo, più efficiente e più giusto, per sfruttare fino in fondo la
grande opportunità dell'Europa. L'Europa è infatti insieme una opportunità ed
una sfida. Per vincere la sfida è necessario mobilitare organicamente tutte le
energie del Paese, vincere diffidenze e paura, aiutare ciascuno ad avere fiducia
in se stesso e nelle proprie potenzialità, aiutarlo a trovare lungo il grande
cammino della crescita del Paese anche il sentiero della sua giusta affermazione
personale e della tutela dei valori, degli interessi legittimi che gli sono
cari. L'Italia non vincerà questa sfida se non mobiliterà organicamente le
energie del Mezzogiorno del Paese. Se vogliamo diminuire la disoccupazione, è
nel Mezzogiorno che ci sono i disoccupati ed è lì che vanno create le
occasioni di lavoro. Se vogliamo aumentare il tasso di occupazione è nel
Mezzogiorno che vi sono le energie che dobbiamo svegliare e chiamare
all'impegno. Se vogliamo allargare il mercato interno ed aumentare le possibilità
di crescita è ancora nel Mezzogiorno che si gioca la grande partita della
modernizzazione della economia italiana. De Gasperi nel suo tempo ha costruito
la pace non solo attraverso l'Europa e l'interclassismo ma anche attraverso un
forte richiamo alla solidarietà fra le diverse aree territoriali del Paese.
Allora questa si chiamava politica per il Mezzogiorno, oggi si chiama politica
per la modernizzazione dell'Italia. Nell'Europa che noi vogliamo non scompaiono
le nazioni, che sono comunità di lingua e di cultura destinate a durare nella
storia. Non scompaiono neppure gli Stati nazionali che hanno il compito di
difendere nel contesto europeo le ragioni di quelle comunità di destino che
sono le nazioni ed il concreto sistema di interessi in cui quella comunità di
destino si articola. Un'Italia senza Stato nazionale in Europa sarebbe debole ed
indifesa. Un'Italia in Europa con un Mezzogiorno che fosse un fardello e non una
risorsa non potrebbe partecipare pienamente allo sviluppo dell'Unione, sarebbe
condannata ad una posizione di umiliante subordinazione di cui soffrirebbero
presto anche le parti più avanzate del Paese. Oggi la questione del Mezzogiorno
incrocia quella della devoluzione e poiché di questo molto si è parlato sarà
bene spendere qualche parola per fare chiarezza su questo punto. La devoluzione
è un modello di federalismo basato sulla attribuzione alle regioni di
competenze esclusive. Noi ci siamo impegnati nel programma della Casa delle
Libertà a questo modello di riforma federale e non intendiamo rimangiarci la
nostra parola. Tutta la Casa delle Libertà ed in modo particolare la Lega
possono far conto sulla nostra lealtà. Intendiamo mantenere quello che abbiamo
promesso: nulla di meno ma anche nulla di più. Il precedente Governo ha fatto
una sua riforma federale con un diverso impianto concettuale. Quella riforma non
funziona e genera un conflitto permanente fra Stato e Regioni. Non è possibile
innestare la devoluzione sull'attuale titolo V della Costituzione. Se vogliamo
realizzare la devoluzione, e noi vogliamo realizzarla, è necessario riformare
la riforma dell'Ulivo. Il Ministro La Loggia ha già presentato un disegno di
legge ordinaria che, interpretando in modo intelligente il testo del titolo V
attuale, rimedia in parte alla situazione di difficoltà e cerca di rendere il
sistema compatibile con la devoluzione. Il disegno di legge La Loggia, sul quale
si registra un'ampia convergenza, va approvato al più presto. Esso tuttavia non
basta. E' necessario un disegno di legge costituzionale che riformi in profondità
il titolo V. Fra i molti problemi che è necessario affrontare indicherò qui
soltanto i tre principali: a) È necessario che insieme alle competenze si
assegnino alle regioni le risorse finanziarie per farvi fronte con modalità che
rendano responsabili i governanti regionali per il rapporto costi/benefici delle
loro politiche. E' inoltre necessario che la ripartizione delle risorse avvenga
con modalità tali da non penalizzare le regioni più povere ed assicurare a
tutti i cittadini italiani la realizzazione dei diritti fondamentali alla
salute, all'istruzione etc… E' qui che si gioca l'idea stessa di nazione come
comunità di destino e solidarietà attiva fra le diverse realtà territoriali
che la compongono B) è necessario che, insieme con le competenze e le risorse
finanziarie si attribuiscano alle Regioni il personale e le strutture che oggi
svolgono le funzioni che passeranno alle Regioni. Se questo non avvenisse noi
avremmo una duplicazione di spese ed un grande disordine amministrativo. Lo
Stato sarebbe tratto ad inventarsi nuovi compiti per il personale e la struttura
rimasti senza una finalità precisa e questo alla fine vorrebbe dire più
burocrazia, più spese e più tasse o più debito. E' lo scenario che
giustamente preoccupa Confindustria. A queste preoccupazioni dobbiamo dare
risposte precise. Il federalismo è popolare in Italia se è sinonimo di meno
burocrazia e meno tasse, se dovesse significare invece più tasse e più
burocrazia i nostri stessi elettori scenderebbero in piazza gridando: W
Napoleone, ridateci il centralismo. C) È necessario che lo Stato abbia
effettivi poteri di indirizzo di coordinamento e di controllo e che le Regioni
abbiano un preciso dovere di leale collaborazione. Qui è in questione l'unità
nazionale e l'unità dell'ordinamento giuridico nonché la possibilità di
svolgere una efficace azione di Governo. Non mi nascondo che per svolgere in
modo federale questi compiti lo Stato deve riorganizzare se stesso in senso
federale e sottoporre il modo in cui esercita questi compiti al controllo di un
organo di rappresentanza delle Regioni. Se poi questo organo debba essere un
Senato federale, un Senato integrato alla bisogna da rappresentanti delle
Regioni, una terza Camera, una conferenza rafforzata dalle autonomie o altro
ancora è cosa che al momento non saprei dire. E' certo tuttavia che tutti
questi elementi e la soluzione di tutti questi problemi appartengono e devono
appartenere al nostro disegno riformatore che deve procedere in modo organico
collegando anche nel tempo le sue diverse fasi ed i suoi diversi momenti. Noi
abbiamo promesso la devoluzione e la daremo. Non abbiamo promesso la somma del
titolo V attuale più la devoluzione e nessuno può chiederci questa somma. L'on.
Bossi ricorderà che lui stesso inizialmente voleva procedere alla riforma
organica del titolo V, poi preferì limitarsi al disegno di legge oggi noto come
della devoluzione riconoscendo però il diritto/dovere del Governo nel suo
complesso di procedere alla più ampia riforma. Noi oggi chiediamo al Ministro
La Loggia, eventualmente con il concorso e lo stimolo anche di un nostro disegno
di legge parlamentare, di procedere rapidamente alla realizzazione di
quell'impegno. Questo, e non altro, è il patto che abbiamo sottoscritto.
Invitiamo, e se necessario, sfidiamo l'opposizione a misurarsi con noi su questo
ampio ed ambizioso progetto e a non intestardirsi in una critica preconcetta di
un aspetto solo di esso, isolato dal suo contesto complessivo. Invitiamo però
anche noi stessi ed i nostri alleati a chiarire al più presto il nostro
disegno, attraverso atti parlamentari e politici conseguenti, fugando il
sospetto che una riforma fatta a metà generi infine più danni che non
benefici. L'Europa, la Nato, l'interclassismo e la solidarietà territoriale,
cioè la politica per il Mezzogiorno, sono il modo concreto in cui i
democristiani hanno interpretato la centralità della costruzione della pace fra
le nazioni, fra le classi sociali, fra le aree territoriali della nazione. Tutte
queste scelte noi oggi siamo chiamati a riprendere ed approfondire. Queste
scelte si collocano sullo sfondo della dottrina sociale cristiana ma anche su
quello di una cultura liberaldemocratica delle istituzioni di cui De Gasperi e,
dopo di lui, Amintore Fanfani e Aldo Moro sono stati gelosi custodi. Cultura
delle istituzioni significa coscienza del fatto che il contrasto, anche vivace,
degli interessi e delle idee, deve sempre essere orientato alla costruzione di
un bene comune, cioè di una sintesi politica in cui anche l'avversario possa
sentirsi rispettato come uomo e riconoscere almeno alcune delle proprie regioni.
Cultura delle istituzioni significa saper riconoscere e rispettare valori e
regole più alte di quelli immediatamente implicati nella propria azione
politica. Per questo rendiamo omaggio in modo forte e convinto al magistero
civile del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per il modo
appassionato e coraggioso e per il grande equilibrio con cui svolge la sua
altissima funzione. Più volte egli ha saputo resistere a pressioni indebite e
fortissime che lo spingevano a varcare i limiti della sua funzione istituzionale
contro il presente Governo di cui mi onoro di fare parte. Più volte ha dovuto
subire critiche ingiuste anche da qualche componente della nostra coalizione per
avere indicato con prudente saggezza valori fondanti e interessi nazionali
permanenti che devono guidare l'azione di tutte le forze politiche. A questo
riconoscimento accomuniamo volentieri il Presidente del Senato, il sen. Pera. Di
lui ricordiamo in modo particolare con commozione il discorso di grande forza
culturale tenuto in occasione della visita del S. Padre al Parlamento italiano
che ha indicato con straordinaria lucidità la via di una cultura politica
umanistica, laica e cristiana oltre i conflitti degli opposti integralismi.
Ringraziamo infine per il suo grande contributo alla ricostruzione del giusto
senso delle istituzioni il Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. E,
questo, come è ovvio, un ringraziamento un po' particolare. In esso si mescola
il rispetto istituzionale con l'orgoglio di vedere da lui testimoniata la nostra
cultura politica, il nostro senso dello Stato. Pier Ferdinando Casini è un uomo
di parte e di partito, un leader della Casa delle Libertà in una fase difficile
della storia del Paese. Non credo che egli questo lo dimentichi mai. E tuttavia
è un uomo di parte e di partito che sa che, chiamato ad un altissimo ruolo
istituzionale, il modo migliore di servire la propria parte ed il proprio
partito non è favorirla sottobanco ma garantire il corretto funzionamento delle
istituzioni per giungere nel libero dibattito alla formazione di quella sintesi
politica del bene comune che è interesse di tutti e, in modo particolare, del
Governo e della maggioranza, che di tale sintesi hanno in modo particolare il
dovere e di tale dovere devono sentire la responsabilità. La guida della Camera
e del Senato da parte di uomini della Casa delle Libertà è un grande banco di
prova della nostra cultura istituzionale, della nostra capacità di
testimonianza di una visione alta della politica, infine del nostro diritto a
governare il Paese. Non possiamo parlare di cultura delle istituzioni senza dire
con sincerità il nostro pensiero sulla questione della giustizia. Il rispetto
della Magistratura, il prestigio della Magistratura sono un bene pubblico che
noi intendiamo in ogni modo preservare e tutelare. Questo bene pubblico,
tuttavia, deve garantire un altro ancora più importante: l'oggettività ed
imparzialità della Magistratura. La crisi della democrazia italiana dalla quale
stiamo uscendo è stata segnata da un uso politico dell'azione giudiziaria ad
opera di settori piccoli ma influenti della Magistratura. La Democrazia
Cristiana, il Partito Socialista ed i partiti del centro democratico si sono
sfaldati sotto il peso di una offensiva giudiziaria che non ha poi retto alla
prova di più meditati giudizi. La recente sentenza di Perugia contro Giulio
Andreotti ci ha meravigliato e profondamente rattristato. Non intendiamo certo
giudicare la coscienza di chi la ha pronunciata ma dobbiamo registrare con
preoccupazione che fra la coscienza di alcuni giudici e quella del popolo
italiano, in nome del quale le sentenze vengono pronunciate, si è spalancato un
abisso. Nella coscienza del popolo italiano Andreotti era e rimane un grande
uomo di stato italiano ed europeo, che ha reso onore al nostro Paese nel mondo.
A lui rivolgo oggi un caloroso saluto ed a lui voglio accomunare gli onorevoli
Forlani e Mannino. In questo contesto si è inserita la persecuzione giudiziaria
contro Silvio Berlusconi. Silvio Berlusconi con le sue scelte di entrare in
politica ha vanificato nel 1994 quello che sembrava l'esito inevitabile della
congiuntura politico/giudiziaria/mediatica del 1993/1994: l'arrivo della
sinistra al potere per via giudiziaria. Il medesimo meccanismo che aveva
distrutto le forze del centro si è allora messa in movimento contro di lui. Si
è trattato di un attacco personale violentissimo e continuato in cui tutte le
regole del rispetto per la verità e per la correttezza sono state violate,
sulla base di esili indizi e di improbabili addentellati giudiziari. Ribadiamo
in questa sede la nostra solidarietà con il Capo del Governo e la nostra
assoluta indisponibilità verso qualunque tentativo di dare una spallata
mediatico/giudiziaria agli equilibri politici determinati dalle libere scelte
dagli elettori. Quello del ripristino di un corretto rapporto fra magistratura e
politica è un problema aperto che può trovare soluzione solo con un impegno
forte non solo del governo ma anche di tutte le parti in causa, opposizioni,
magistrati e sistema dei media. Si inserisce in questo contesto il modo delicato
della situazione della azienda televisiva pubblica. Esso è affidato e deve
rimanere affidato agli organi competenti ed in modo particolare alla prudente
valutazione dei presidenti della Camera e del Senato. Credo tuttavia che noi
riteniamo che non sia corretto e non sia nell'interesse della coalizione di
governo politicizzare la RAI nello stesso modo e con un segno opposto a quello
che ha dominato nel recente passato. Abbiamo bisogno di una RAI in cui
l'equilibrio; l'imparzialità; la ricerca onesta della verità; il pluralismo
siano valori condivisi ed impegni che caratterizzano la fisionomia dell'azienda.
Vorremmo recuperare il concetto di servizio pubblico, con una RAI non solo
commerciale ma anche elemento responsabile del sistema culturale ed educativo
del Paese. L'UDC che oggi nasce si colloca consapevolmente all'interno della
Casa delle Libertà. E' una collocazione che nasce dalla risposta alla
aggressione che a suo tempo hanno subito i democratici cristiani. E' una
collocazione che nasce sul terreno dei valori e delle scelte che abbiamo
illustrato, sul terreno della continuità della visione della società che è
stata di Sturzo e di De Gasperi e che è oggi la nostra. Ci unisce a Forza
Italia la comune appartenenza al Partito Popolare Europeo e la riaffermata
adesione di Forza Italia al modello della economia sociale di mercato e di un
liberalismo sociale. Abbiamo apprezzato e stimato lo sforzo di Gianfranco Fini
di costruire una destra democratica, europeista, capace di assumere ed
esercitare con indiscusso prestigio responsabilità di governo. Abbiamo
lealmente riconosciuto la svolta federalista della Lega e la sua rinuncia al
secessionismo. Ci siamo riconosciuti nella Casa delle Libertà soprattutto per
l'impegno di Silvio Berlusconi a ricostruire una continuità con le grandi
tradizioni politiche che hanno difeso in Italia la libertà e la hanno guidata
in mezzo secolo di pace e di progresso economico e civile. Per questo riteniamo
che l'UDC si iscriva pienamente nel progetto politico della Casa della Libertà
e ne rappresenti anzi, a nostro avviso, la frontiera avanzata. Anche la
discussione che si è aperta con i nostri alleati e che ha dato luogo anche a
qualche incomprensione non mette minimamente in discussione questa scelta
strategica. Essa vuole piuttosto stimolare una crescita complessiva della Casa
delle Libertà ed un approfondimento delle ragioni politiche e anche culturali
che la fondano. Sottolineo la necessità di un approfondimento sia politico che
culturale. Non si realizza un ambizioso progetto di riforma senza una
interpretazione complessiva della storia contemporanea del Paese, sulla quale si
innesta organicamente una visione del suo sviluppo e del suo futuro. Senza una
simile visione non potremo vincere la sfida con la sinistra per il governo e
nemmeno quello, assai più importante, per la costruzione di un'Italia migliore.
Cominciamo con il rilevare una serie di dati positivi. Abbiamo governato ed
abbiamo governato bene. Abbiamo governato in modo diverso di ciò che i nostri
detrattori si aspettavano. Dicevano che avremmo tagliato le pensioni della
povera gente, le abbiamo invece aumentate portando un milione e mezzo di persone
fuori dalla fascia di povertà. Dicevano che avremmo messo gli immigrati in
campo di concentramento. Abbiamo invece fatto una legge severa ma giusta e umana
che consente a oltre mezzo milione di persone di emergere, regolarizzare la
propria posizione, godere dei diritti ed assolvere i doveri di tutti i
lavoratori (compreso, per la gioia del Ministro Tremonti, il dovere di pagare le
tasse), guardare con fiducia e speranza al proprio futuro. Dicevano che avremmo
perseguito lo scontro a morte con il sindacato, invece abbiamo fatto il Patto
per l'Italia. Dicevano che avremmo diminuito le tasse dei ricchi, abbiamo invece
cominciato la riforma fiscale con la diminuzione delle tasse dei redditi medi e
bassi e crediamo in tal modo di sollevare alcune altre centinaia di migliaia di
persone al di sopra della fascia di povertà. Dicevano che avremmo fatto una
legge finanziaria tale da farci cacciare dall'Europa ed invece i conti
dell'Italia passano l'esame dell'Eurogruppo, in un momento peraltro
difficilissimo per tutti, in cui Portogallo e Germania ricevono un inizio di
procedura di infrazione dei criteri di Maastricht e la Francia riceve invece un
avviso di preallarme (early warming). Dicevano che avremmo fatto una legge
finanziaria contro il mezzogiorno e invece nella legge finanziaria le risorse
per lo sviluppo ci sono. Mi fermo qui, anche se potrei continuare… Il governo
ha lavorato molto e bene ed altrettanto ha fatto il Parlamento, con grandissimo
impegno. Se mai c'è da domandarsi come mai sembra talvolta, a giudicare dal
dibattito politico, che il governo abbia fatto solo la pur stimabilissima legge
Cirami, quella sulle rogatorie e poco altro. Credo che possiamo dare un giudizio
positivo anche sulla nostra partecipazione al governo. Tutte le misure che ho
citato portano anche il segno del nostro partito, alcune con una evidenza
particolare. La legge Bossi/Fini è stata profondamente modificata sotto
l'impulso coordinato della nostra delegazione al governo e dei nostri gruppi
parlamentari. C'è stata una battaglia nella maggioranza e nel governo ma è
stata una battaglia leale, corretta, a viso aperto ed il risultato è stato una
legge senz'altro migliore che coniuga in modo intelligente severità e
giustizia. Credo che Bossi e Fini non si offendano se dico che questa
meriterebbe di essere chiamata legge Bossi/Fini/Giovanardi, tanto è l'impegno
che in essa ha profuso il Ministro Giovanardi. Il Patto per l'Italia non ci
sarebbe senza il lavoro paziente ed ostinato dell'UDC che ha impedito che le
rotture diventassero irrimediabili, che ha continuato anche nei momenti più
difficili a tessere la tela del dialogo fino alla conclusione positiva. La legge
finanziaria è stata riaperta e profondamente modificata in Parlamento per
iniziativa nostra e nel dialogo con le parti sociali. C'è voluto tutto il
coraggio politico di Silvio Berlusconi ed il suo buon senso lombardo per
apportare ad una legge finanziaria già presentata in parlamento i cambiamenti
incisivi contenuti nel maxiemendamento. Mi sembra per questo ingeneroso qualche
giudizio che ho sentito sulla sostanziale irrilevanza della nostra presenza nel
governo. Devo dire tuttavia con eguale chiarezza che esistono elementi di
insoddisfazione e di preoccupazione che hanno spinto qualcuno di noi fino ad
avanzare l'ipotesi di uscire dal governo, certo rimanendo leali alla maggioranza
ed al patto stretto davanti agli elettori. Dico subito che io non porto questa
proposta davanti al Congresso. Non condivido peraltro lo scandalo con cui
qualcuno lo ha accolto. Un partito convinto della propria funzione politica,
convinto del proprio ruolo nel formulare e contribuire a guidare un progetto
positivo, convinto del proprio ruolo nel legare a questo progetto un'area che
crediamo ampia e comunque in espansione della pubblica opinione, può uscire
dalla gestione del governo per esercitare con più forza nella maggioranza e dai
banchi del Parlamento la propria funzione di stimolo e di proposta. Può farlo
se ritiene in questo modo di ottenere un ascolto più attento delle proprie
ragioni nell'ambito della coalizione. Quali sono le ragioni, dunque, del nostro
disagio? Vi sono mille questioni particolari fra le quali accennerò soltanto al
problema della sottovalutazione in questa finanziaria del ruolo dell'Università
e della ricerca scientifica. Su questo punto abbiamo elaborato delle proposte
che non aggravano i saldi della finanza pubblica e ci aspettiamo che esse siano
considerate ed approvate: La questione fondamentale è però tutta politica e
riguarda la natura della coalizione. Noi crediamo che la Casa delle Libertà
abbia vinto le elezioni presentando un programma responsabile e moderato, un
volto responsabile e moderato, una fisionomia complessiva responsabile e
moderata. Noi abbiamo l'impressione che ci sia un tentativo di cambiare la
fisionomia della coalizione dandole una impronta radicale che spaventa gli
elettori e rischia di farci entrare su sentieri di scontro a 360° che non
riusciamo ad accettare. Non siamo gelosi delle cene del Presidente del Consiglio
con il leader di un'altra forza della coalizione. Anzi, non vorremmo, in quelle
cene, essere invitati a fare la parte del vitello grasso. Noi però crediamo che
la coalizione debba essere una coalizione con quattro partiti, di peso diverso
ma di eguale dignità. "ma dov'è il problema?" potrebbe chiedere
qualcuno. I democristiani hanno fatto parte del Polo prima e della Casa delle
Libertà poi. Cosa c'è di nuovo? In realtà fino ad ora molti hanno considerato
la nostra presenza come un residuo del passato, destinato ad esaurirsi
progressivamente nel tempo. Noi crediamo invece oggi, fondando l'Udc, di
raccogliere una domanda di centro, una domanda di politica moderata, una domanda
di valori democratici cristiani che sale dal paese. Abbiamo l'ambizione di
proiettare questa domanda verso il futuro. Certo, è vero che il passato non
ritorna. E' però anche vero che i valori veri non muoiono mai. Noi cerchiamo
una incarnazione di questi valori adeguata al tempo ed ai problemi di oggi.
Chiediamo ai nostri alleati di non ostacolare questa ricerca, di sentirla come
una ricchezza per tutta la coalizione, come una opportunità di radicarla e di
estenderla verso aree della società e dell'elettorato che ad essa fino ad ora
sono rimaste estranee o si sono ritirate in una attesa diffidente. In Europa e
nel mondo, dopo una stagione di liberismo dogmatico a cui si opponeva la
conservazione statalista si è aperta la ricerca di un nuovo equilibrio di
stato, mercato e società civile, di una nuova sintesi di libertà e solidarietà
mediate dalla sussidiarietà. Fenomeni populistici come quello di Heider in
Austria e quello di Fortuyin in Olanda si vanno sgonfiando e riemerge il centro
politico, riemergono i valori dei democratici cristiani sotto la guida di
leaders radicati sul terreno dei valori di sempre ma anche aperti alla
innovazione ed al cambiamento, come dal Balkenende in Olanda e Schuessel in
Austria. Ad essi va il nostro saluto mentre ci incoraggia il loro esempio.
Abbiamo l'ambizione di servire il nostro paese facendo politica, contribuendo
alla sua guida, e non scaldando delle poltrone o occupando dei posti di potere.
Il compito a cui ci accingiamo è costruire il partito dei democratici
cristiani, con dignità e con orgoglio. Alcuni, che guardano lontano, ci
ricordano le tante cose che ci uniscono a Forza Italia ed agitano la prospettiva
del Partito Popolare Europeo che noi dovremmo costruire insieme con Forza
Italia. Non sarò io che ho scommesso sulla evoluzione di Forza Italia verso il
Partito Popolare Europeo quando essa era un movimento che ancora doveva decidere
della sua caratterizzazione e del suo destino, a negare la plausibilità di
questa prospettiva. Talvolta però il guardare troppo lontano può essere
ingannevole come il guardare troppo vicino. Dobbiamo fare il partito, radicarlo
nel territorio, tessere i suoi rapporti con i mondi vitali che a noi guardano e
dei quali vogliamo diventare punto di riferimento. Dobbiamo mettere il partito
alla prova di impegnativi confronti elettorali e farlo crescere. Solo dopo sarà
sensatamente possibile pensare ad un Partito insieme con Forza Italia che non
sia semplicemente una nostra confluenza in Forza Italia che poco aiuto le
darebbe e farebbe svanire la originalità di proposta e di cultura politica di
cui ci sentiamo portatori. Abbiamo accennato alla necessità di inserire la
devoluzione all'interno di un più ampio e coerente progetto di riforma
federalista. E' necessario dire in conclusione che anche la riforma federalista
deve essere un tassello di un disegno compiuto di riforma costituzionale di cui
può far parte il presidenzialismo e anche una riforma in senso proporzionale
del sistema elettorale. Il presidenzialismo per rafforzare l'unità della
nazione in presenza di una riforma federalista. Il sistema elettorale
proporzionale perché esso corrisponde all'idea di una democrazia della
rappresentanza capace di governare una società articolata e complessa.
Proporzionale perché pensiamo che la democrazia non sia semplicemente un
sistema in cui si vota per decidere chi comanda per cinque anni. Governare non
è comandare ma esercitare i poteri conferiti dal corpo elettorale in un ascolto
continuo della società che permetta a molti, a tanti, tendenzialmente a tutti
di sentirsi partecipi di un processo di dialogo democratico attraverso il quale
si prendono le decisioni che riguardano il bene di tutti. Voglio infine
ringraziare tutti coloro che hanno percorso il faticoso cammino che ci ha
condotto all'appuntamento di oggi. Ringrazio i nostri alleati che ci onorano con
la loro presenza a questo Congresso. Ringrazio Silvio Berlusconi e Gianfranco
Fini. Con loro si è stabilito un rapporto di solidarietà e di amicizia
personale e politica che nulla potrà intaccare. Insieme abbiamo difeso la
libertà dell'Italia, insieme adesso la vogliamo cambiare per renderla più
bella e più giusta. Ringrazio Umberto Bossi: un confronto leale anche se duro
aiuta a trovare soluzioni più equilibrate e rispondenti al vero bene del Paese.
Ringrazio Sergio D'Antoni che ha portato a questo appuntamento Democrazia
Europea e con essa una parte importante del cattolicesimo sociale italiano.
Ringrazio Marco Follini le cui capacità di analisi politica, la cui fermezza e
la cui pazienza molto hanno dato per il nostro comune progetto e molto ancora
hanno da dare. Ringrazio tutti gli amici del CDU che mi sono stati vicini in
questi anni difficili. Ringrazio tutti quelli che sono arrivati qui attraverso i
percorsi politici del CCD e di DE ed anche i tanti che sono tornati all'impegno
politico quando finalmente hanno visto con l'UDC un segnale di ricomposizione e
di unità. Ringrazio infine Pier Ferdinando Casini. Senza di lui il faticoso
percorso che ci ha fatto attraversare il tempo difficile dell'eclissi
dell'ideale democratico cristiano non sarebbe stato possibile. Dopo l'eclisse,
lo speriamo e ne siamo convinti, viene oggi il tempo di una nuova aurora.
Il discorso di Sergio D’Antoni al congresso nazionale dell’Udc
Hanno scritto tornano, ma la verità è che non ce
ne siamo mai andati. Ci eravamo un pò dispersi, un pò frantumati. Diamo a
tutti questi nostri amici l'occasione per ritrovarsi, questo è uno dei motivi
fondatori dell'Udc. Ma c'è di più. Noi offriamo, attraverso l'Udc, un modello
di partecipazione a quanti, uomini cristianamente ispirati e laici, vogliono
partecipare alla vita politica italiana. Noi offriamo attraverso l'Udc uno
strumento nuovo, sì come risultato di una storia di unificazione di tre
soggetti ma anche come ambizione di restituire alla politica quel compito,
quella forza, quell'attrazione che nel corso di questi anni la politica ha
sostanzialmente perso. E quando un anno fa insieme agli amici del Cdu e Ccd
cominciammo questo lavoro probabilmente molti di questa sala o molti, esterni a
questa sala, non pensavano che in un anno potevamo riuscire a fare quello che
abbiamo fatto. Non pensavano che in un anno potevamo stare qui a fare un nuovo
partito che si chiama Udc e che si presenta per quello che è. E' questa la
differenza formidabile tra noi e gli altri partiti. Che noi diciamo subito
dall'inizio chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Gli altri devono
o nascondersi dietro una pianta o dietro un fiore o dietro una situazione
culturale per fare una riunione settaria. Siamo al massimo. Noi siamo l'Unione
dei democratici cristiani e di Centro, ci chiamiamo e aderiamo
all'internazionale democristiana e al partito popolare europeo, e diciamo a
tutti "siamo qui abbiamo un problema, noi riteniamo che per tutto quello
che accade in Italia possiamo darvi qualche suggerimento obiettivo o proposta,
per governare bene le società del ventunesimo secolo, e quindi per essere un
partito nuovo e moderno. Io penso che il sondaggio di Datamedia non sia
strumentale come qualcuno dice, non bisogna mai pensare male degli altri. Il
problema vero è che ha sbagliato tempo, doveva farlo un anno fa quando pochi
credevano a questa iniziativa. Fatto un anno fa probabilmente non ci credevano
manco quelli di Datamedia, non l'hanno fatto. Noi il sondaggio l'abbiamo avuto
il 26 e 27 di maggio del 2002, quello è il nostro sondaggio. Il nostro
sondaggio, invece, ci ha detto che questo partito, frutto dell'unificazione di
tre partiti, ottiene due cose: non solo somma i voti dei tre partiti, che è già
un primo risultato importantissimo, perché non sempre avviene quando si fa
un'unificazione tra i partiti, ma fa un'altra cosa, aumenta i voti dei tre
partiti . Se controllate quei dati, ma non lo scrive nessuno e nessuno lo
scriverà, siamo l'unico partito che il 26 e il 27 di maggio ad aumentare i voti
non in percentuale, cosa che è sempre un pò fasulla, perché la percentuale è
direttamente proporzionata al numero dei votanti, siamo l'unico partito che
aumenta i voti in valore assoluto. Nuovi cittadini italiani hanno votato Udc. La
proposta è giusta. Allora il nostro problema è raccogliere questa indicazione
e fare in modo che questa indicazione che è venuta il 26 e 27 maggio sia da noi
raccolta e trasformata, attraverso questo congresso, ma anche attraverso il
lavoro che da questo il congresso in poi dovremo fare sul territorio, a livello
nazionale e regionale per fare in modo che questa proposta, questa idea, questa
modernità venga vissuta come tale perché non siamo in controtendenza, perché
in paesi moderni o considerati tali l'idea, questo patrimonio rivince. In
Olanda, nella modernissima Olanda, ha vinto la Democrazia cristiana. In Austria
il partito popolare austriaco ha avuto il 42%, un risultato storico che mai
nella storia dell'Austria aveva avuto. Ora io non so e non voglio qui fare
sogni, però non penso che l'Italia non abbia queste condizioni dell'Olanda e
dell'Austria e non possa ritrovarsi in una nuova condizione tale da poter
scegliere un partito che si chiama Unione democratici cristiani e di centro. Non
penso che questa sia solo un'utopia. C'è l'esigenza di rimettere in gioco la
politica, perché in questa condizione c'è un deficit di politica che sta
raggiungendo livelli inenarrabili, che si è aggravato in maniere forte dopo
l'11 settembre, altra vicenda di cui si parla pochissimo. L'11 settembre, ahimé,
drammaticamente avviene una svolta, un attacco di matrice terroristica, una
svolta nella politica del paese, si sono modificati assetti e le valutazioni che
erano state fatte in precedenza sono valse a poco. Tutto questo si aggrava,
diventa impellente trovare la possibilità di avere una risposta urgente. Noi
dobbiamo offrire la risposta, dare una proposta, dare il senso della politica.
Questo è il nostro compito di dirigenti. Noi dobbiamo ricominciare, bisogna
dare il senso che principi e valori da oggi questa grande tradizione, questo è
il nostro compito di modesti dirigenti, dire quale è il senso di questa sfida
ed offrire la risposta adeguata. Il nostro problema è proprio questo:
ricominciare. Se posso usare solo una battuta, sono stanco delle polemiche tra
la prima e la seconda repubblica. E' una polemica che è un non senso, è come
se la storia si ferma e c'è una finestra, ne chiudi un'altra e ne cominci
un'altra. La prima non è mai finita perché la seconda non è mai cominciata,
perché questo modo di concepire i rapporti significa mettere delle chiusure
alla storia. Non esiste: la nostra parola d'ordine è “allora torniamo alla
Repubblica”, perché è questa che rischia in questo clima, è la repubblica
che non ce la fa, né prima né seconda, perché cadendo la politica e la
repubblica che alla fine non funziona, non affronta i problemi delle persone, la
vita di ogni giorno, la sensibilità delle persone e diventa una specie di
teatro continuo. Questa specie di bipolarismo italiano, siamo bipolari e non
nostalgici, e allora dobbiamo chiederci se funziona o no, garantisce
governabilità o no. E se non funziona, come io penso, quali sono le modifiche
da fare per far funzionare questo bipolarismo perché questa è la domanda. E
allora diciamolo subito, lo ha detto Buttiglione e lo dirà Follini, l'Udc si
colloca in questo bipolarismo nella Casa delle Libertà perché è alternativa
alla sinistra in tutte le sue manifestazioni. Non ci sono dubbi, non ci sono
equivoci. Lo dico io che mi sono arreso per ultimo. Quindi è meglio che lo dica
io per non lasciare dubbi. La cosa che mi fa impressione, che veramente trovo
devastante per la mia concezione di cultura politica è che quando uno solleva
dentro uno schieramento un problema succedono due cose. Una dalla parte degli
alleati, una dalla parte degli avversari. Gli alleati ti dicono "C'è un
rischio di ribaltone", ma sentir dare del ribaltonista a Casini che è uno
dei fondatori della Casa delle libertà, io mi impressiono perché vuol dire che
si è perso il senso della cultura politica e della misura. Vuol dire che una
coalizione non è più quel luogo dove ognuno porta le sue idee, e alla fine si
fa una sintesi e c'è un leader che sintetizza, ma è un'altra cosa. Questa
alleanza deve funzionare meglio e vogliamo dare alcuni suggerimenti. Il nostro
obiettivo è quello di rimettere insieme le donne e gli uomini. Sul nostro
manifesto scriveremo parole forti come Moderati, Solidali e Europei. Il muro
contro muro non serve e dobbiamo essere pronti all'ascolto. Il vero modo di
governare il paese è la mediazione. Non è il "decisionismo". In
questi ultimi dieci anni sono stati tutti decisionisti. E poi quando non si
trova la corrispondenza tra quello che si promette e quello che si ottiene
allora ci sono i problemi. Il Presidenzialismo invece è un ulteriore forma di
delega, si da una delega a qualcuno e a forza di dire "pensaci tu"
allora è la fine l'Italia non si è misurata sui problemi attuali e alla fine
noi abbiamo fatto una sorta di teatrino che non serve alla gente. Penso che non
sia la soluzione adeguata per risolvere i problemi italiani, la questione non è
verticalizzare il paese, altrimenti il paese si siede perché' affidato ad
altri. Sarebbe una fuga in avanti, il problema vero è trovare gli strumenti che
servono al paese, e la prima cosa da fare è quella di discutere sulla legge
elettorale, visto che il maggioritario non funziona. Questo congresso serve
appunto a ribadire la nostra appartenenza. Il nostro partito sta nell'alleanza.
Questo elemento deve far capire a tutti che se vogliamo continuare il cammino
delle riforme l'Udc è fondamentale. Sulle questioni istituzionali una delle
cause di questo muro contro muro è questo mostro, il mostro della legge
elettorale. Il cosiddetto Mattarellum, che del maggioritario ha due gambe e due
teste e alla fine c'è il peggio dell'uno e dell'altro. Alla fine gli estremismi
vogliono prenderti in ostaggio. E' successo al Centrosinistra. Il Mattarellum è
un mostro, metà cavallo, metà uomo che allora va cambiato. E la nostra dovrà
essere una grande battaglia per garantire l'alleanza tra pari. Ci vuole un
sistema proporzionale con il premio che consenta alla forze di allearsi in
libertà . Un sistema proporzionale che renda il cittadino più libero e la voce
pluralista. Dobbiamo fare una bella battaglia, penso che sarebbe più congeniale
insieme a questo dibattito dare un senso alle regioni, il vero rischio per
l'unità del paese è che quando si daranno le competenze e quindi si daranno i
soldi alle regioni alla fine il paese si dividerà. Contributo essenziale per la
nuova alleanza e questo vale per la politica economica e per la fase di
cambiamento. In questi dieci anni abbiamo avuto una caduta del paese anche
rispetto alla media europea e vuol dire che il mercato ci ha fatto crescere di 4
punti in termini di produzione industriale. In America invece la produzione
industriale è aumentata di 24 punti nello stesso periodo. Come non chiedersi
che i nostri miseri 4 punti vanno paragonati ai 14 punti della media europea. In
questi dieci anni quindi noi abbiamo avuto una caduta del nostro Paese, rispetto
agli Stati Uniti e questo lo sapevamo, ma anche di dieci punti rispetto a quella
europea. Tutto ciò vuol dire che non c'è stata la politica e non c'è stata la
governabilità. Il mercato a cui avevamo affidato tutto in questi 10 anni, tutto
perché il pensiero unico a destra e a sinistra era "ci pensano loro",
"fate fare a loro" ci ha consegnato questo bel risultato. Farci
crescere di 4 punti in termini di produzione industriale. Li abbiamo lasciati
fare. Perché la cosa grave è che questo risultato l'abbiamo ottenuto dopo
cinque anni di governo della sinistra. Si sono gestite delle privatizzazioni in
questo Paese, hanno privatizzato anche i supermercati che sono stati poi
affidati alla Germania e alla Francia. Ci sono i grandi privatizzatori che non
fanno i conti con una realtà che non va solo privatizzata, ma serve anche un
altro modello su cui fondare lo sviluppo. E allora bisogna riprendere questo
dibattito e lo deve fare la Casa delle Libertà. La sinistra non ha più le
carte in regola per farlo, perché avendo la via del salotto buono del
capitalismo italiano ormai più di quello che gli è stato dato non gli si può
dare. Bisogna riportare questo dibattito ad un livello vero. E il livello vero
è quello di capire qual è il giusto rapporto tra intervento pubblico,
intervento dei privati e dei lavoratori. L'Udc deve farsi carico di una proposta
forte, nuova che è fondamentale: bisogna democratizzare questo capitalismo
attraverso l'intervento dei lavoratori in questo capitale di rischio, perché
questa è l'unica strada. Oggi la crisi Fiat con i lavoratori nel capitale di
rischio potrebbe non essere la stessa. L'Italia ha puntato tutto sull'automobile
come settore strategico, l'Italia sa fare le automobili. Nel sindacato ci sono
gli estremismi e per sconfiggerli dobbiamo avere proposte forti, partecipate
come è stato per il Patto per l'Italia. Siamo grati a Pezzotta e a tutta la
dirigenza della Cisl. Perché con le scelte che sono state compiute senza
retorica si mette a rischio anche l'incolumità personale, le minacce
terroristiche che sono arrivate alle sedi sono il segno più inquietante di una
democrazia che non riesce ad assorbire scelte libere che i lavoratori magari
possono fare. Siccome usciamo da un periodo terribile, ma ancora non lo siamo
completamente. Una repubblica non può tollerare che uomini del livello di Moro,
Ruffilli, Biagi e di tutti coloro che avevano questa grande capacità, cioè
mettere a servizio il proprio sapere alla repubblica, debbano per questa ragione
avere sacrificato la vita. E penso che fino a quando gli assassini non saranno
assicurati alla giustizia noi dobbiamo tenere alta la bandiera e alta la
muraglia contro ogni forma di terrorismo. E alta la bandiera sull'intero sistema
democratico italiano. Non il "muro contro muro" che non porta da
nessuna parte. Ed è per questo motivo che penso di legare le proposte di questo
partito ad un assetto istituzionale nuovo e diverso, ad un assetto di democrazia
economica nuova e diversa., un assetto di paese nuovo e diverso. Per noi è
intollerabile questo divario Nord Sud del Paese. A parole è intollerabile per
tutti, per noi lo è ancora di più per due ragioni: perché pensiamo che un
Paese così diviso non avrà un grande futuro. E noi dobbiamo spiegarlo in
maniera forte al Nord, dobbiamo convincerli che se non cresce il Sud, non
crescono neanche loro. E l'Europa ci sta se ci stiamo tutti. Dobbiamo fare di più
e questo lo dobbiamo fare all'interno della Casa delle Libertà proprio perché
il Centrosinistra ha sbagliato cinque anni di politica meridionale e il
Mezzogiorno ha votato contro il Centrosinistra e quindi a favore della Casa
delle Libertà. E' per questa ragione che la Casa deve sapere che senza una
terapia d'urto forte e reale che possa accorciare le distanze senza un piano di
investimenti pubblici e privati, che possa aprire una nuova prospettiva nel
Paese, il rischio è una divaricazione politica e sociale, e il rischio è un
paese che si siede, perché al Sud resterà assistenza, quella poca che è
rimasta mentre al Nord resterà uno sviluppo modesto, perché ha bisogno di
manodopera che non ha. In questo momento nel nostro paese ogni anno centomila
meridionali lasciano al propria terra alla ricerca di un lavoro al Nord del
Paese, ma che Paese è se non è in grado di fare un apolitica che interrompa
tutto questo? Che paese è se non in grado di metter in moto un processo che
convinca tutti che questo è giusto. Tutto questo lo può fare l'Udc. Così
Datamedia può fare i sondaggi in giro per il Mezzogiorno e scoprire che la Casa
delle Libertà senza il Mezzogiorno non ci sarebbe. Restano altre questioni,
come quella della famiglia e la questione sociale, quelle che tutti pongono
sempre al centro dei loro dibattiti, ma che poi hanno scarse conseguenze. Non c'è
nessuno che lo potrà fare meglio dell'Udc. La presenza di Don Gelmini è la
prova provata che senza porre la famiglia al centro della nazione anche al
questione sociale aumenta. Non è solo un problema di politica economica e
sociale ma un problema complessivo di politica e di azione. Per favorire una
ricomposizione moderna di questi argomenti che sembrano antichi ma sono di
grandissima attualità. E infine ma non ultimo, un problema delicatissimo che è
quello della formazione, della suole e della ricerca. Sono tutti settori in cui
non abbiamo responsabilità di governo. Ma non avere la possibilità di
interloquire a fronte di una grande stabilità che tutti invocano ma che invece
non è corrispondente al fatto che l'Udc può avere una proposta, può avere
degli obiettivi ma può anche avere la capacità di aspirare a fare un servizio
all'intero Paese e a tutta la Casa delle Libertà. Prima lo capiscono, meglio è
per tutti. Se questo è vero io penso che la nostra ambizione debba essere
associata ad un vero partito democratico. Questa è una grande impresa, sono
tutti bravi a parlare di partito democratico, di regole che vanno rispettate, di
evitare le verticalizzazioni, di evitare i personalismi che bisogna essere
pazienti, umili, ma ognuno che fa questo discorso normalmente pensa che valga
per gli altri e difficilmente per se stesso. Io penso che nel mio piccolo ho
cercato di farlo avvenire, che è importante per l'Udc per farlo uscire da
questo congresso con atteggiamenti di leale collaborazione. Ho pensato che sia
indispensabile fare dei passi indietro perché così si contribuisce ad un vero
partito democratico, ecco perché dico a Marco Follini che noi stiamo facendo
una cosa grande, costruire un grande partito in questo Paese. Il primo ruolo è
per Marco Follini e per essere non un collaboratore ma un partecipe ad un gruppo
dirigente forte, unito e collegiale perché questo farà la differenza tra i
partiti “personali” e l'aspirazione che noi abbiamo. Noi che siamo un
partito non “personale” ma guidato da un gruppo dirigente, forte, solido e
collegiale. Ho molto apprezzato il gesto che Buttiglione ha fatto con grande
acume e senso di responsabilità, facendosi carico della nostra immagine. A
Follini, Buttiglione e tutti gli amici che sono qui e cercheremo di fare
diventare sempre di più fuori da qui. E' importante che questo partito sappia
caratterizzarsi per il funzionamento vero della direzione e di tutti gli
organismi. La democrazia ha tanti difetti, ma per funzionare ha bisogno anche
dei suoi organismi che funzionino. E' un traguardo non da poco. Se daremo
l'esempio potremmo esserlo anche a livello territoriale, regionale e nazionale.
Ci sono oggi tante discussioni anche animate, ma è importante che questo
continui anche dopo questo appuntamento congressuale. Spesso ci comportiamo come
la Dc che aveva il 40 per cento, ma in realtà noi dobbiamo ancora creare tutto
questo consenso. Vogliamo costruire un partito democratico per costruire una
grande Italia che si sappia misurare con il Paese.