UDC GIOVANI RIBERA (AG)

 

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Il discorso pronunciato da Marco Follini nell’ultima giornata 
del congresso nazionale dell’Udc



Noi siamo qui. Qui dove ci hanno portato la nostra lealtà e il nostro spirito critico, la nostra coerenza e la nostra inquietudine. Poiché voglio dirlo subito, a dispetto di rappresentazioni tanto comode quanto fasulle: noi siamo tutti, e tutti insieme, dentro lo stesso progetto politico. Non ci dividiamo e non ci divideremo tra pericolosi avventurieri che giocano a destabilizzare e zelanti cancellieri ansiosi di trascrivere decisioni altrui. Siamo parte di questa maggioranza che anche noi abbiamo costruito e non c’è bisogno di ricordare che non ne stiamo fabbricando un’altra. Ma dentro questa maggioranza ci stiamo con la forza e con l’orgoglio delle nostre idee. E non potremmo accettare, neppure per un attimo, che queste idee venissero guardate con sospetto, considerate con fastidio o relegate sdegnosamente ai margini. Le idee che ci hanno portato fin qui appartengono a un’Italia antica, che si rinnova e si ripensa ma non rinuncia ad essere quello che è. Un’Italia cattolica senza essere bigotta, moderata senza fare a meno delle sue passioni, liberale senza freddezze nordiche, europea ma anche mediterranea. Un’Italia che la Democrazia Cristiana ha saputo interpretare e guidare con mano sobria e animo mite. Anche per questo a chi pensa che siamo di troppo rispondiamo che in questa Italia i democratici cristiani sono di casa. Abbiamo applaudito Giulio Andreotti, abbiamo ascoltato Lillo Mannino. Nessun processo, nessuna sentenza -lo ripetiamo una volta di più- può riscrivere la storia del nostro Paese. Nessun processo, nessuna sentenza può capovolgere gli eventi politici e i valori civili del nostro dopoguerra. Nessun processo, nessuna sentenza potrà mai convincerci, né convincere gli italiani che noi discendiamo da una storia malfamata. Al contrario, la nostra è stata una storia meritevole e onorata. La rivendichiamo con convinzione come un valore. Per arrivare qui abbiamo attraversato un mare in tempesta. La crisi della prima repubblica, la fine della Dc, la gioiosa macchina da guerra della sinistra, l’ulivo piantato da Prodi e poi potato da D’Alema e da Cossiga. Non sono stati anni facili, questi ultimi. E credo che dobbiamo tutti e io più di tutti una gratitudine particolare a chi questa nostra zattera l’ha costruita e pilotata lungo la rotta giusta. A Pierferdinando Casini. Diceva Enrico De Nicola che la gratitudine è il sentimento della vigilia. Vorrei dire a Casini che per me, per noi, è il sentimento del futuro. In quel mare, in quella tempesta ci siamo imbattuti negli scogli di molte sinistre. La caduta del muro ha travolto l’idea che la storia si potesse divinizzare e che il potere degli stati sulle coscienze, sulle persone, sulle associazioni e sui mercati non avesse limite. Ma anche senza voler appendere la sinistra all’albero delle sue ideologie sbagliate, noi abbiamo passato questi anni a contrastare una visione del mondo che vedeva nel progressismo di sinistra il sole dell’avvenire e nei suoi avversari le tenebre del passato. Abbiamo contrastato un’egemonia culturale e moralistica di cui ancora non si è spenta l’eco. Abbiamo contrastato l’idea che quella parte del nostro paese che spaziava dalla tolda di comando di molte case editrici alla amministrazione delle cooperative emiliane, e che da ultimo si era insediata in qualche procura della repubblica, avesse dalla sua una sorta di primato civile da far valere. Per molti anni le cose che oggi sembrano ovvie suonavano eretiche. E noi quelle eresie le abbiamo condivise tutte, una per una. Ci sembrava che avesse ragione Camus contro Sartre nella disputa sulla libertà e l’impegno degli intellettuali francesi. Ci sembrava che fosse più originale il teatro di Ionesco rispetto a quello di Brecht, la scrittura di Borges rispetto a quella di Garcia Marquez. Ci sembrava che meritassero più attenzione Popper o Aron di tanti nipotini di Marx che in quegli anni venivano letti, lodati e celebrati. Ci siamo battuti contro il politically correct che ha dominato a lungo tanta parte dell’intellettualità del nostro paese. E lo abbiamo fatto quando la moda era un’altra. Anche per questo quando ci accusano di avere la tentazione del ribaltone mi chiedo sempre se è più giusto urlare di rabbia o metterci a sorridere. E dico che forse è più giusto sorridere e guardare oltre. Noi abbiamo avuto il 13 maggio scorso il mandato di governare il paese. Governare l’Italia di questi tempi, mentre tutto il mondo è sottosopra, vuole dire cambiarla. E vuole dire, allo stesso modo e per le stesse ragioni, rispettarla. In un bel libro sull’Odissea Pietro Citati paragona Ulisse e Agamennone, e di Agamennone dice: non aveva quel dono rarissimo che è la serenità del potere. Ecco, noi crediamo che il potere debba avere questa virtù: di venire esercitato con serenità. Non ci appartiene e non ci convince un’idea barricadiera, che si esprime per forzature, che procede per spallate, che trasforma gli avversari in nemici, che mette al bando le opinioni più critiche, che si chiude nel fortilizio asserragliato delle fedeltà più acquiescenti. La moderazione è la nostra identità, la nostra vocazione, il nostro compito. Vogliamo stare sulla piazza della democrazia greca, non nel castello della feudalità medievale. Abbiamo davanti a noi tempi difficili. Il mondo è squassato dalla pericolosità di un terrorismo che non ha patria e non ha bandiera ma che cerca di sollevare a suo favore l’onda del fanatismo e della disperazione. L’economia risente della crisi di fiducia che l’11 settembre ha portato con sé. Su un altro piano la protesta dei no global ci ricorda che in tutto il pianeta un intero modello di sviluppo è sotto accusa e deve ritrovare le sue ragioni e i suoi equilibri. Sono in gioco valori fondamentali: la pace, la sicurezza, la giustizia. Valori che siamo abituati a dare per scontati per quello che sono e per come abbiamo cercato di promuoverli fino ad oggi. E che oggi chiedono invece di essere pensati all’interno di un contesto che non è più quello di una volta. C’è poi qualcosa di più specifico che riguarda l’Italia, le sue fragilità, il rischio di quello che viene chiamato il suo declino. Negli ultimi anni il nostro paese ha perso molte posizioni. Settori strategici del nostro sistema industriale -la Fiat, ma non solo la Fiat- sono in crisi. La scuola è indietro. Arranchiamo nelle classifiche internazionali della ricerca e dell’innovazione tecnologica. Il rischio di diventare una immensa Montecarlo, un paese dove la gente viene a visitare monumenti, mangiare spaghetti e fare shopping è un rischio che non va sottovalutato. E che chiede di essere contrastato. E’ curioso come la sinistra, che in questo Paese è stata governo e potere forte per molti anni, sfugga al tema dei suoi errori e delle sue responsabilità. Ma le difficoltà di oggi, e quelle di ieri e di ieri l’altro, richiedono alla politica, a tutta la politica, uno sforzo di originalità. Non c’è infatti una formula magica che ci porti fuori dal guado. Dobbiamo ripensare l’Italia da capo, ragionare su quello che siamo e su quello che vogliamo essere. Serve una visione complessiva, uno sguardo d’insieme al paese. Un partito nasce in ragione di un’idea del paese a cui si rivolge. Di questa idea, molto più che di noi stessi, sta discutendo questo congresso a partire dalla bella relazione con cui Rocco Buttiglione ha introdotto i nostri lavori. Io riprendo qui il filo della riflessione che ha cominciato Rocco venerdì scorso. Noi crediamo in un’Italia più europea. Un’Italia che non viva i vincoli sul rigore dei conti pubblici e quelli contro gli aiuti di Stato come una camicia di forza ma come un compito che abbiamo liberamente e convintamente fatto nostro. Un’Italia che affida alla nuova architettura istituzionale dell’Europa riunificata la possibilità di giocare un ruolo da protagonisti nello scacchiere internazionale. Un’Italia dalla quale noi, per la nostra parte, guardiamo con fiducia a quel Partito popolare europeo che sta sempre più diventando la casa comune dei moderati europei. Noi crediamo in un’Italia più solidale, dove chi è più debole abbia più tutela e chi è più forte rinunci a qualche tutela in più a vantaggio di chi ne ha più bisogno. Perché la politica è questo: dare voce a chi è più debole. E’ questo oppure non è niente. Un’Italia in cui non ci siano pensioni da fame e pensionati troppo giovani. Un’Italia che offra al mezzogiorno opportunità di sviluppo e non continui a drenare risorse dal sud al nord come è accaduto negli ultimi anni. Lo dico a Totò Cuffaro, a Raffaele Lombardo, a tanti amici di quella Sicilia dove ci avviamo a diventare il primo partito. Un’Italia che aggredisca con decisione l’area della povertà che si va estendendo. Un’Italia che ripensi il suo welfare a partire dalle famiglie che sono state la risorsa trascurata del nostro patto sociale. Solidarietà vuol dire, tra l’altro, scommettere sul valore e sulla forza dell’associazionismo, civile e religioso, che è stato ed è tanta parte della storia del nostro paese. Vuol dire -come ci ricorda D’Antoni- intraprendere il cammino della democrazia economica, di un sistema di relazioni sociali più articolato e meno massificato. Vuol dire essere capaci di vedere le grandi questioni del paese dal lato delle persone prima che da quello dei sistemi organizzativi. Vuol dire insomma dare più peso e più voce agli elettori rispetto agli apparati politici, ai lavoratori rispetto ai circuiti produttivi, ai consumatori rispetto al mercato, ai cittadini rispetto alla pubblica amministrazione. Crediamo in un’Italia più libera e più capace di competere con gli altri e con sé stessa. Un’Italia dove le dinastie industriali e professionali non si tramandino di padre in figlio e dove i nuovi venuti dell’imprenditoria abbiano le loro opportunità di crescere e di far crescere. Un’Italia dove le banche non finanzino solo in ragione del patrimonio ma anche e soprattutto in ragione delle idee e dei progetti, come ci ricorda spesso il nostro capogruppo Luca Volontè. Un’Italia che scommetta sull’apertura e sulla conquista dei mercati e non sul protezionismo del vecchio Colbert. Un’Italia che non rinunci a privatizzare e liberalizzare dove è possibile e dove c’è vantaggio per i consumatori. E quando parlo di privatizzare e liberalizzare non ho bisogno di aggiungere che dopo aver fatto a meno del panettone di stato non è il caso di andarci a infilare nell’auto di stato. Ma soprattutto crediamo in un’Italia più unita. Un’Italia fatta di tante persone, tante associazioni, tante comunità, tanti territori, tante differenze. Un paese pluralistico, certo. Un paese governato in nome del principio di sussidiarietà, che sposta il potere il più vicino possibile ai cittadini. Ma un paese solo. Uno e uno solo. Che non si frattura sulla linea di faglia delle generazioni, delle classi sociali, delle parti politiche. Che non si divide tra nord, centro e sud perché questa divisione non sta nella storia del paese e non sta nella coscienza delle persone né al nord, né al centro, né al sud. Siamo dentro un grande vortice di incertezze, e anche questo condiziona il futuro del nostro paese. Tanto più io credo che sia doveroso interrogarci su quello che siamo e su quello che vogliamo diventare. E su come si costruisce il ponte che lega la nostra identità alla nostra prospettiva, i nostri problemi alle soluzioni che andiamo cercando. Il nostro paese ha bisogno di molte “cose”. Ha bisogno di trovare le risorse per rimettere il mezzogiorno sulla rampa di lancio dello sviluppo. Ha bisogno di trovare le risorse per sviluppare conoscenze e competenze senza di cui le prossime generazioni andrebbero perdute. Ha bisogno di trovare le risorse per fronteggiare la crisi di interi settori imprenditoriali. Ma ha bisogno più ancora di ritrovare una “visione”, un’idea di sé e della propria vocazione. Non ci sono pozioni miracolose, lo sa bene e lo dice spesso Bruno Tabacci che possano propiziare la ripresa della nostra economia. La ripresa è legata più alle idee che ai numeri, più alla cultura che alla prassi, più alla politica che all’economia. E’ legata al recupero di una condizione di fiducia, che è cosa diversa dall’ottimismo. La ripresa verrà, se ne saremo capaci, da un progetto. Organizzare in una chiave più moderna lo Stato, rafforzare i legami di coesione della società civile, valorizzare le mille forme del nostro associazionismo, questo è il compito che la politica ha davanti a sé. Ed è questa la sfida su cui anche noi saremo misurati. In questi giorni tra noi e con i nostri alleati abbiamo discusso. Niente paura, continueremo a discutere. Lo faremo con la tenace pazienza di Mario Tassone e con la grinta appassionata e intelligente di Mario Baccini. Noi vogliamo confrontare, conciliare, rendere armoniche idee diverse ma non stridenti sul futuro del nostro sistema-paese. E si tratta qualche volta di scegliere tra idee diverse su punti specifici, e magari su punti simbolici, dell’agenda politica e di governo. Sulla Rai, per esempio, eterna metafora della politica, abbiamo idee diverse. Quando arriveremo alla privatizzazione -e io dico che dobbiamo arrivarci presto- ci ricorderemo del maestro Manzi e ripeteremo con lui: non è mai troppo tardi. Nel frattempo però c’è da gestire un servizio pubblico, che è anche la più grande impresa culturale del paese. E c’è da gestirlo con equità e con equilibrio, tagliando le punte estreme della reciproca faziosità. Noi siamo stati vittime, tutti noi e i telespettatori prima di noi, della insopportabile faziosità della Rai di Zaccaria. Non possiamo prendere quella faziosità a modello della nostra convenienza. Non vogliamo uno Zaccaria di centrodestra, ci basta e ci avanza quello che ci ha regalato il centrosinistra. Non li dobbiamo, non li vogliamo, non li possiamo ricambiare con la stessa moneta. Non ci piace -e io aggiungo: non ci conviene- una Rai di parte, fosse anche la nostra parte. Non ci piace e non ci conviene una Rai che fa programmi mediocri, ascolti calanti e che è priva di progetto culturale. Non ci piace e non ci conviene, e soprattutto non conviene al paese, una Rai ridotta a una giungla nella quale due o tre giapponesi continuano a combattere perché non hanno riconosciuto alla radio la voce dell’imperatore Hiroito che annuncia la fine della guerra. E non ci piace affatto una Rai dove la paranoia arriva al punto di scambiare un gentiluomo e un elettore del centrodestra come Marco Staderini per un pericoloso bolscevico sul punto di accompagnare i cavalli cosacchi ad abbeverarsi a San Pietro. Ai dirigenti della Rai ci permettiamo di ricordare una frase pronunciata da Napoleone Bonaparte, che pure non doveva essere tenero nell’esercizio del potere: “Ricadremmo in una ben strana situazione se un semplice impiegato si arrogasse il diritto di impedire la pubblicazione di un libro o di forzare l’autore a togliere o aggiungere qualcosa. La libertà di pensiero è la prima conquista del secolo. L’imperatore vuole che sia conservata”. E se lo diceva così Napoleone Bonaparte può andare bene anche il Presidente Baldassarre. E per finire, non ci si venga a dire che ci sono trame dietro questa vicenda. Ci sono doveri istituzionali, a cui il presidente della Camera adempie con scrupolo. E ci sono obblighi politici di garanzia e di libertà che tanto più deve sentire una coalizione garantista e liberale come la nostra. L’altra grande questione su cui è aperto un confronto è quella della devolution. Io debbo ringraziare Francesco D’Onofrio per la sua fatica, nobile come sempre, e per l’impegno che ha messo per collocare questo disegno all’interno di una cornice nazionale, solidale e istituzionale. Disegno e cornice, per noi, stanno insieme e non ho bisogno di ricordare che nessun disegno sarebbe possibile fuori da quella cornice. Noi abbiamo preso un impegno, assieme a tutta l’alleanza, per trasferire l’organizzazione della sanità e della scuola alle regioni. E’ un impegno che ribadiamo, ovviamente. Ma un impegno, sia chiaro, non è un ukase di zarista memoria. E una legge costituzionale non si fa sulla punta delle baionette, neppure delle baionette padane. Una legge costituzionale non a caso ha dalla sua tempi lunghi di elaborazione e diversi passaggi tra i due rami del Parlamento. Noi dobbiamo mettere a frutto questo tempo per armonizzare la riforma che abbiamo ereditato dal centrosinistra con le nuove proposte che il governo mette in campo. La riforma del centrosinistra è nata all’insegna di una rincorsa politica ed elettorale che quella parte ha fatto a suo tempo verso la Lega. Una rincorsa affannosa e disordinata, che ha portato a moltiplicare a dismisura le competenze concorrenti e ha finito per trasferire presso la Corte costituzionale, sotto forma di ricorsi, la controversia politica sul federalismo. Ci sarebbe piaciuto sentire da quella parte, da dove piovono alti lamenti sulle sorti dell’unità italiana, un minimo di autocritica sulla confusione che la loro riforma ha ingenerato. Ma è noto che l’autocritica non è il pezzo forte del repertorio politico del centrosinistra. Tocca a noi, allora, correggere questa distorsione. E tocca a noi evitarne altre. C’è una domanda di autogoverno delle comunità locali che va ascoltata e tenuta presente. C’è un trasferimento di competenze, di responsabilità e di risorse che merita di essere promosso e gestito con fiducia ma anche con misura e con un’attenzione particolare alle aree più deboli del paese. C’è insomma da cucire un nuovo vestito istituzionale che va adattato alla conformazione di un paese dove 8 mila e più comuni non possono certo contare meno di 20 regioni. E c’è infine da valutare con la diligenza del buon padre di famiglia, come si usa dire, i costi che si profilano e che vanno resi compatibili con la penuria delle risorse pubbliche. Se la devolution sta dentro questi confini vorrà dire che siamo riusciti a trovare il punto di equilibrio. Ma al di là di questi confini abbiamo il dovere di non andare. E per parte nostra non andremo. Ci impegneremo a garantire in questo passaggio l’unità e l’uguaglianza degli italiani. E lo faremo prendendo a modello l’articolo 72 della Costituzione di uno stato federale, la Germania. Quell’articolo recita: “il Bund legifera quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolar modo la tutela dell’uniformità delle condizioni di vita”. Questo è il principio risolutivo. Le condizioni di vita, i diritti fondamentali debbono essere gli stessi, dai villaggi alpini alle coste siciliane. Debbono essere gli stessi e noi diciamo: saranno gli stessi. Non ci saranno italiani di serie a e italiani di serie b, alcuni nati con la camicia e altri predestinati alla valigia di cartone. In questi giorni si è parlato di un’altra riforma, quella presidenziale. Ci è stata fatta una domanda chiara e abbiamo il dovere di fornire una risposta altrettanto chiara. Noi non siamo nati sventolando la bandiera del presidenzialismo. Abbiamo un’idea meno verticale dell’equilibrio dei poteri e dell’organizzazione dello Stato. Certo, non poniamo preclusioni. Ma da parte nostra preferiamo un cancelliere a un mega presidente ma soprattutto riteniamo, questo è il punto, che la riforma delle istituzioni non sia fatta e non possa essere fatta di bandiere che sventolano l’una contro l’altra. Occorre comporre un equilibrio tra le diverse parti dello Stato. E occorre cercare un equilibrio tra le diverse parti della politica. Non possiamo immaginare una riforma che spezzi questo equilibrio o che lo renda più difficile. Il cambiamento deve essere nel solco dell’armonia tra i poteri dello Stato. La forzatura di leggi costituzionali votate dalla maggioranza contro l’opposizione, inaugurata dal centrosinistra nella scorsa legislatura, costituisce un pessimo precedente e fornisce un esempio da non seguire. Se si continuasse lungo questo percorso si finirebbe inevitabilmente per trasferire i conflitti politici sul terreno delle istituzioni. Non è questo il nostro percorso. La Costituente del ‘46 dimostra che le riforme fatte insieme durano una vita. Mentre le riforme a maggioranza hanno l’aria di durare appena una legislatura. Dobbiamo scegliere dunque tra riforme solide, utili e durature e riforme che invece durano lo spazio di un mattino. E io dico che la nostra scelta è per le riforme solide, utili e durature. Sull’innovazione istituzionale noi ci siamo. Su di uno strappo non ci saremo. Questi sono i termini della nostra lealtà. Al paese, prima di tutto. Agli elettori. Agli alleati. E anche a noi stessi, alle nostre coscienze. Non c’è contraddizione tra tutte queste lealtà. E’ questa la nostra scommessa, è questo il destino che ci siamo scelti. Abbiamo ben chiaro quello che ci unisce. E altrettanto chiaro, se non di più, tutto quello che ci divide dalla sinistra. Siamo lontani, lontanissimi dal giustizialismo snobistico e dallo spirito barricadiero che anima il popolo dei girotondi. Siamo lontani, lontanissimi dal modo in cui l’ulivo ha governato il paese nella scorsa legislatura, combinando l’immobilismo dei progetti con gli eccessi dello spirito di fazione. Siamo lontani, lontanissimi da quell’opposizione parlamentare che si è frammentata in quattro, cinque diverse mozioni quando è stata chiamata a prendere posizione sull’invio dei soldati italiani in Afghanistan. Confidiamo sempre che la sinistra italiana completi la sua evoluzione verso il modello socialdemocratico europeo. Ma siamo, e restiamo, dalla parte opposta. E a quegli amici del partito popolare che di fronte alle loro difficoltà ci invitano a passare dalla loro parte, ci viene da dire semmai il contrario: venite voi di qui che vi risparmiate qualche girotondo. Venite di qui perché è qui che si costruisce la nostra casa. Ci riesce difficile dimenticare che la sinistra nel nostro paese ha vestito troppe volte i panni del giustizialismo e ha scagliato troppe volte, e assai spesso nella direzione sbagliata, le frecce del suo interdetto morale. Apprezziamo il fatto che Piero Fassino su questo versante dica cose nuove e per lui perfino rischiose. Ma sappiamo bene quanta parte della sinistra politica e giudiziaria continui a vedere nei tribunali i luoghi nei quali si intensifica la battaglia politica e magari se ne capovolgono le sorti. E anche in questo noi siamo, e restiamo, dalla parte opposta. Ad una sinistra così divisa, e così smarrita e confusa, tanto più noi dobbiamo opporre una politica che sappia parlare in modo convincente a quei ceti, a quegli ambienti, a quelle forze che in una moderna democrazia bipolare si muovono a ridosso del confine tra uno schieramento e l’altro. Qui sta la nostra ragion d’essere, qui sta la convenienza, vorrei dire la lungimiranza, di tutta la maggioranza. Noi non dimentichiamo che Silvio Berlusconi è stato l’artefice della casa delle libertà. Insieme a lui abbiamo costruito l’argine moderato negli anni della marea ulivista, insieme a lui abbiamo il compito di governare il paese, insieme a lui risponderemo di quello che avremo saputo e potuto realizzare. Ma l’amicizia è il territorio della verità, non solo quello dell’affetto. Ed è con spirito di amicizia e di verità che chiediamo a Berlusconi di aggiustare la rotta politica della maggioranza. L’ho già detto e lo ripeto: vogliamo ridurre l’aliquota politica che governo e maggioranza si trovano qualche volta a pagare a certe posizioni più estreme, a certe derive che ci allontanano dal grande cuore di quella Italia di mezzo, moderata, solidale e ragionevole, di cui ci sentiamo parte. E di cui Berlusconi, nella sua più alta responsabilità, è parte assieme a noi. Nei giorni scorsi da qualche parte si è voluta accreditare la balzana idea che la maggioranza possa essere fatta da tre partiti maggiori “contro” uno minore, mi par di capire che quello minore saremmo noi. Io non so se qualcuno accarezzi davvero un’idea del genere. Non lo credo, anche perché non credo che questo schema darebbe alla coalizione tranquillità e solidità. Noi non abbiamo certo il complesso del brutto anatroccolo. Anche perché abbiamo la consapevolezza di non vivere nel lago dei cigni. Il problema che poniamo non è dunque quello del rango politico del nostro partito. E’ il problema, ben più importante, dell’equilibrio e dell’identità della nostra coalizione. E proprio perché non si tratta di una richiesta dettata dall’egoismo non c’è ragione per noi di essere né cedevoli né rassegnati. E non saremo né cedevoli, né rassegnati. Noi non possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza rispetto a correnti euroscettiche che ogni tanto si affacciano sul limitare della maggioranza e che evocano una sorta di inverosimile Spectre che da Bruxelles starebbe attentando alla nostra sovranità nazionale. Non è così. Noi non possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza rispetto a chi vive le istituzioni come il luogo del conflitto e non più come il luogo nel quale il sistema politico ritrova quel poco di armonia di cui è capace. Non è così, non può essere così. Noi non possiamo avere nessuna indulgenza, nessuna incertezza rispetto a chi considera il Capo dello Stato come parte in causa quando invece ha dimostrato in questi anni di essere il riferimento istituzionale più corretto per tutte le parti politiche. Su questi temi non possiamo e non vogliamo essere vaghi perché davvero su di essi tutti noi, e il centrodestra per intero, ci giochiamo l’anima. Qualcuno ha voluto derubricare questi argomenti, queste preoccupazioni a banali fibrillazioni precongressuali. Si tratterebbe di un polverone destinato a dissolversi già da domani. Non credo che sia così. E per quanto mi riguarda, se avrò qualche responsabilità nella vita del partito, tornerò a ripetere domani e dopodomani le stesse cose che, assieme a tanti amici, ho avuto modo di sostenere ieri e l’altro ieri e oggi qui davanti a voi. Ma le dico, e le diciamo, perché sono utili alla coalizione tanto quanto sono preziose per noi. Con la stessa doverosa franchezza debbo dire a Fini che sono rimasto deluso per la sua drastica chiusura verso ogni forma di clemenza giudiziaria. Non ho mai pensato che il parlamento dovesse obbedienza politica al Papa. Ma mi ero illuso che quelle parole, quell’appello ad un gesto di clemenza risvegliassero coscienze più attente. In qualche caso, purtroppo, non è stato così. Ma la delusione non ci fa cambiare idea. Prendiamo atto di questa chiusura ma noi, per parte nostra, continuiamo a ritenere che il discorso sia doverosamente aperto. Ci batteremo noi, con le nostre piccole forze, perché quel gesto ci sia. Dobbiamo ritrovare lo spirito del 13 maggio. Tornare a parlare a un elettorato largo che non ci seguirebbe sui tornanti della faziosità ma che a noi, alla casa delle libertà, ha assegnato il compito di tenere il più possibile la barra al centro. A Silvio Berlusconi, a Gianfranco Fini ribadiamo il nostro sostegno e la nostra alleanza. A Umberto Bossi ribadiamo la nostra chiarezza e correttezza. Al paese possiamo assicurare con tranquilla coscienza il valore della stabilità politica e il rispetto degli impegni che abbiamo assunto presso gli elettori. Siamo un partito di frontiera, e su quella frontiera ci stiamo per presidiarla, non per attraversarla. Coerenti e chiari, secondo quelle parole d’ordine di Pierferdinando Casini a cui nessuno di noi è mai, mai, mai venuto meno. Non cerchiamo giustificazioni, e lo dico una volta per tutte e poi non lo dirò più, noi non accettiamo sospetti. C’è chi pensa che questa stabilità ha bisogno del presidio delle attuali posizioni ministeriali. C’è chi pensa che una stabilità maggiore avrebbe bisogno di posizioni più forti. E infine c’è chi pensa che si può fare a meno dei ministeri di oggi e di quelli di domani. Non vorrei sfuggire all’argomento, per quanto possa essere spinoso. Ma con franchezza non credo che il problema sia solo nostro. Noi siamo e resteremo nella maggioranza come un punto fermo. Siamo e saremo nel governo per quanto potremo essere utili e ascoltati. Non abbiamo ansia di poltrone, ed io che chiedo a voi un mandato politico, sono certo di non poter peccare in questo campo neppure col pensiero. Ma proprio perché non daremo mai l’assalto alle poltrone ci riesce difficile affezionarci agli strapuntini. Siamo arrivati a questo congresso con qualche ritardo, e ne abbiamo tutti una parte di responsabilità. Ma infine ci siamo arrivati. Vorrei rivolgere un saluto affettuoso a Rocco Buttiglione, che ha voluto più di tutti, con tenacia e con passione, l’appuntamento di questa unificazione. E vorrei rivolgere un saluto affettuoso a Sergio D’Antoni che a questo appuntamento è approdato con convinzioni forti. E idee innovative. Con loro so di avere da oggi un debito ancora maggiore. Ringrazio Gianfranco Rotondi che è stato candidato più a lungo di me. Io chiedo a questo congresso un mandato per guidare secondo ferree regole democratiche il nostro partito. Di questo mandato fa parte per me in maniera inestricabile la proposta che il Consiglio nazionale elegga Rocco Buttiglione presidente e Sergio D’Antoni vice segretario. Insieme lavoreremo con spirito unitario e forte collegialità. Insieme, cercheremo di sbagliare il meno possibile, e sono certo che tanti amici intorno a noi ci aiuteranno a sbagliare meno ancora. A tutti questi amici io vorrei esprimere oggi la gratitudine per aver tenuta alta la bandiera del loro impegno nei momenti difficili. E una gratitudine particolare sento di doverla assieme a tanti altri a Lorenzo Cesa. Un partito come il nostro, lo abbiamo detto tante volte, o è democratico o non è. E democratico significa pluralistico, rispettoso di tutti, e tanto più rispettoso verso chi ha opinioni diverse. Valgono a poco, in questo campo, le prediche e le promesse. Saranno i fatti a parlare per noi, se saremo capaci di saldare i gesti alle parole. Per parte mia ci tengo solo a dire che tutta la nostra scommessa politica è appesa al filo di questo adempimento. Se il partito sarà la casa comune nella quale ognuno di noi, quale che sia il ruolo, quale che sia l’opinione, si troverà a proprio agio troveremo un consenso più largo. Se ci chiuderemo nel fortilizio resteremo soli e perderemo la straordinaria occasione politica che sta, oggi, davanti a noi. All’indomani del ‘68 Aldo Moro si rivolse ai dorotei che lo avevano escluso dalla maggioranza e indicò loro il suo obiettivo. “Occorre aprire -disse- porte e finestre di questo castello che è il partito per farvi entrare il vento che soffia nella vita”. Oggi questo problema non appartiene solo a noi. Riguarda tutta la cittadella politica. C’è fuori un vento forte, gonfio di malumore e di scetticismo, ma anche ansioso di riannodare i fili di un discorso pubblico, che chiede a tutti i partiti di aprire un ragionamento nuovo sui caratteri della nostra democrazia e della sua organizzazione. Il nostro partito sta lì, al crocevia di quella domanda e la risposta che dobbiamo, tutti insieme, cercare di elaborare. Ho ricordato Moro perché non dimentico di avere cominciato vicino a lui il mio tragitto politico e per quanti errori io possa aver fatto di quella vicinanza giovanile sono orgoglioso. E l’ho fatto perché ho piena consapevolezza di quale debito infinito la nostra esperienza politica abbia contratto con il passato democristiano di moltissimi di noi. Rendendo omaggio alla tradizione antica il monaco Bernardo di Chartres lasciò scritto: “Siamo nani sulle spalle di giganti. Vediamo un numero maggiore di cose e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista o per la nostra più elevata statura, ma perché essi ci sollevano e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza”. Ora noi siamo nani senza più giganti che ci portino in spalla. A chi si attarda, ancora oggi, in un pregiudizio storico e politico sulla Dc e su quanti nella Dc hanno militato ricordiamo che se per quasi mezzo secolo questo paese è stato libero e prospero lo si deve largamente ai democratici cristiani. E a fronte di quel mezzo secolo forse è giunto il momento che si tolgano il cappello, assieme agli avversari di ieri, anche i tardivi avversari di oggi. A nessuno è consentito di fare a brandelli la memoria politica più importante e positiva della nostra tradizione democratica. Noi, per parte nostra, abbiamo il compito di custodirla, quella memoria. E di non fare confusione, proprio per il valore che ha, tra la memoria e la prospettiva. Qual è, dunque, la nostra prospettiva? Noi lavoriamo per costruire un partito di centro, moderato e moderno, popolare ma non populista, ispirato dai valori ma non clericale. Un partito non transitorio e non provvisorio, che non teme annessioni e non brama federazioni. Una forza consapevole del passato, ma soprattutto rivolta al futuro, che ha rispetto per le proprie radici ma cerca di parlare anche a tutte le generazioni che di quelle radici conoscono soltanto quel poco che trovano nei libri di storia. Alla Democrazia Cristiana io devo la mia formazione. Vi ho dedicato molti anni e qualche libro, e se ne ho scritto tanto a lungo è perché in quella storia anche io mi rispecchio. La nostra forza però oggi sta nel guardare avanti nel non tornare indietro. E a chi coltiva un’idea diversa, a chi invece vorrebbe tornare indietro io ho il dovere morale di dire che non sono la persona giusta e non sarei il segretario giusto per compiere questa operazione. A chi pensa che gli anni ottanta siano l’eldorado perduto che ora dobbiamo ritrovare chiedo con franchezza e con lealtà di non votare per me, di non contare su di me. Vogliamo dare un seguito, dobbiamo dare un seguito alla passione democratica con cui migliaia di militanti, di attivisti, di dirigenti politici democristiani hanno servito il nostro paese. E vogliamo dare un taglio, dobbiamo dare un taglio a quelle pagine più oscure, a quegli errori politici e morali che hanno contraddetto e sfigurato quella stessa passione democratica. Abbiamo davanti a noi, insieme, un compito difficile e -lo ripeto- un’occasione straordinaria. Vedo oggi intorno all’Udc una curiosità attenta e amichevole. Sta a noi, ma non sarà facile, trasformarla in consenso e in mobilitazione. Dobbiamo sapere che come tutte le occasioni, è anche questa è una sfida. Nei giorni scorsi abbiamo letto un sondaggio, tra tanti, che ci accredita appena il l’1,5 per cento. Ora noi, poco più di sei mesi fa, abbiamo raccolto il 7,8. Se la matematica non è un’opinione dovremmo aver perso quattro elettori ogni cinque. Non credo che abbiamo così tanto talento politico nel dissipare le nostre risorse. Ma il vero sondaggio, amici, lo faranno gli elettori. Noi ci rivolgiamo a loro, fin d’ora, avendo fiducia nelle nostre forze e chiedendo fiducia per il nostro progetto. E faremo di tutto per meritarcela, quella fiducia.

 

 

 

 

 

 

 

 

La relazione introduttiva del ministro per le Politiche comunitarie, Rocco Buttiglione, al congresso nazionale dell’Udc



L'Unione dei Democratici Cristiani raccoglie l'eredità storica, morale e politica della Democrazia Cristiana. Nella storia nulla si ripete tuttavia i valori veri, i valori che contano, non muoiono mai. Essi vengono reincarnati in forme sempre nuove ed adeguate ai tempi che cambiano per opera degli uomini che ad essi sono fedeli e che si assumono questa missione. L'Unione dei Democratici Cristiani operando all'interno del Partito Popolare Europeo, si assume oggi il compito di cercare sul terreno concreto della azione politica le forme che danno concretezza ai valori di sempre nella storia del secolo che da poco è iniziato. Il valore politico primo e fondamentale che i democratici cristiani hanno garantito nella storia della seconda metà del secolo XX in Italia ed in Europa è stato quello della pace. Oggi diamo tutti troppo facilmente per scontato il valore della pace. Al contrario ciò che è normale nella storia non è la pace ma la guerra. I 57 anni di pace di cui ha goduto il nostro Paese e con esso l'Europa sono il periodo più lungo di pace della storia europea. In questi stessi anni intorno a noi il mondo ha conosciuto innumerevoli conflitti. Questi anni di pace sono stati il risultato delle giuste scelte politiche compiute da Alcide De Gasperi e, insieme a lui, da Adenauer e Schuman. Queste scelte si chiamano Europa e Comunità atlantica. Queste scelte si chiamano interclassismo e politica del Mezzogiorno. Noi siamo chiamati oggi a ripetere quelle scelte adeguandole alla misura del nostro tempo. Alla nostra generazione si adatta perfettamente ciò che ha scritto una volta un grande poeta: "quello che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente". Non si comprende la nostra scelta di principio per l'Unione Europea se si dimentica che l'Europa è la pace. L'Europa non è prima di tutto cosa dei governi e delle burocrazie di stato o cosa delle imprese e delle banche. L'Europa è la forma concreta della pace. Nel secolo XIX e nella prima metà del secolo XX le classi dirigenti delle nazioni europee hanno creduto di poter garantire la vita dei loro popoli solo occupando militarmente i territori di provenienza delle materie prime per le loro industrie ed i mercati di sbocco per i loro prodotti. Il risultato è stato il colonialismo, il militarismo e la guerra. Adenauer, De Gasperi, Schuman sono partiti da un imperativo morale: mai più la guerra in Europa. Essi hanno concepito il mercato comune come lo strumento principale al servizio della pace. Hanno ragionato più o meno così:lasciamo che ciascuno compri ciò che vuole dove vuole, lo trasformi con il proprio lavoro e lo rivenda dove gli pare. In questo modo siamo cresciuti insieme ed i più poveri, gli italiani, sono cresciuti più rapidamente degli altri colmando un secolare ritardo. Con questa scelta i democratici cristiani che hanno costruito l'Europa si sono differenziati nettamente da ogni destra nazionalista. Il loro ideale è stato l'Europa. Non il mercato in se stesso e nemmeno semplicemente l'economia di mercato ma il mercato al servizio della pace ovvero l'economia sociale di mercato. Il mercato che abbiamo voluto costruire in Europa e che continuiamo a costruire è un mercato democratico, un mercato in cui a tutte le nazioni ed a tutte le persone è possibile mettere in valore i propri talenti e guadagnarsi la vita con il loro lavoro. Tenere aperto il mercato, impedire che esso si chiuda garantendo il privilegio di alcuni, allargarne le dimensioni perché tutti in esso possano trovare la propria collocazione è il compito della politica. Questa sottolineatura distingue un approccio democratico cristiano da un approccio semplicemente liberale. Il mercato non è un'assenza di regole ma un sistema di regole. In una società bene ordinata il mercato è un mezzo e non un fine e viene appoggiato e contenuto da altri sistemi, giuridici, culturali, religiosi e politici. Il mercato è nella società e per la società. Ripetere oggi questa scelta significa impegnarsi secondo il programma di Lisbona per fare dell'Unione l'area di più rapido ed integrale sviluppo della economia della conoscenza. Ripetere questa scelta oggi significa impegnarsi per l'allargamento e l'approfondimento della Unione. Il nostro partito è in prima linea su questi problemi con il Ministro per le Politiche Comunitarie del Governo Berlusconi e con il rappresentante nella Convenzione della Camera dei Deputati. Non si tratta né di un caso né di una coincidenza. Vogliamo l'allargamento e vogliamo andare anche oltre i limiti dell'allargamento perché garantiremo la pace solo se oltre i confini dell'Unione si svilupperà un'area di collaborazione economica e civile nel Mediterraneo, nel Medio Oriente ed insieme con l'altra Europa (Russia, Ucraina, Bielorussia etc…). Questi Paesi, che nel prevedibile futuro non possono essere integrati nell'Unione, possono e debbono partecipare ad una forma nuova di associazione che permetta loro di partecipare dei benefici del mercato comune europeo. Sarà possibile in questo modo governare un pezzo di globalizzazione e dare il nostro contributo specifico per la pace nel mondo. Egualmente importante è il rapporto dell'Unione con l'America Latina, a cui lavora infaticabilmente uno dei nostri uomini migliori, Mario Baccini, come sottosegretario agli esteri. L'integrazione con il Mercosur ed il trattato di commercio con il Messico sono il punto di partenza di una azione che ci auguriamo sempre più feconda verso un continente le cui nazioni si sono costruite con gli sforzi ed il lavoro di milioni di italiani. Ribadiamo contemporaneamente che sarebbe ingiusto fare pagare i costi dell'allargamento alle regioni del Mezzogiorno Mediterraneo che più tardi e più lentamente ne godranno i benefici. L'Unione non è né così avara né così povera da non potersi fare carico dei problemi di tutte le sue aree in ritardo di sviluppo, sia di quelle attuali del Mezzogiorno mediterraneo sia di quelle dell'Oriente europeo. Abbiamo condiviso e condividiamo le linee portanti della politica estera ed europea cui molto e positivo impulso ha dato l'iniziativa personale di Silvio Berlusconi. Ci siamo rallegrati per lo storico incontro di Pratica di Mare che ha portato all'inizio della integrazione della Russia con la NATO. Abbiamo apprezzato le proposte per la ricostruzione della Palestina che non hanno però potuto fino ad ora avere seguito. Diciamo con lealtà che non abbiamo egualmente apprezzato alcune voci che si sono alzate nel governo per indicare le istituzioni europee ed il progetto stesso dell'Unione come un pericolo ed un nemico. Esso è per noi invece una speranza ed un contenuto fondamentale del programma di governo. Ci sembra anche un poco equivoca una certa insistenza sul rifiuto di un "superstato" europeo. Se questo vuol dire che non vogliamo che il rafforzamento delle prerogative dell'Unione ci regali più controlli e più burocrazia, se questo vuol dire che la somma totale degli apparati di Unione e stati ci dovrà dare, dopo la riforma, più libertà e più efficienza, allora diciamo anche noi che non vogliamo un superstato europeo. Ma se questo dovesse significare che non si è capito che la sovranità italiana non può essere effettiva se non è esercitata insieme a quelle degli altri stati dell'Unione, se questo volesse dire il rifiuto di rafforzare l'Unione perché svolga pienamente il suo compito nel mondo allora non saremmo più d'accordo. Può darsi che i tempi non siano ancora maturi per un compiuto passaggio agli Stati Uniti d'Europa ma quella è tuttavia la direzione di marcia che ci indicano la nostra storia ed i nostri valori e quella direzione di marcia noi intendiamo perseguire. Il secondo pilastro della politica dei democratici cristiani è la NATO. Noi pensiamo che l'Unione Europea debba intendere e svolgere il proprio ruolo all'interno di una più ampia comunità atlantica di cui gli Stati Uniti sono inevitabilmente l'altro pilastro. Non abbiamo dimenticato i giovani americani che sono venuti a combattere e, molti, anche a morire, per la libertà dell'Italia e dell'Europa. Non abbiamo dimenticato il ruolo degli Stati Uniti per la difesa della libertà contro il pericolo comunista e non crediamo che l'Unione Europea debba concepirsi in antagonismo verso gli Stati Uniti. La NATO è lo strumento principale per l'esercizio di una responsabilità comune per la tutela della pace nel mondo. Occorre adesso rafforzare e costruire organicamente il pilastro europeo della alleanza per collaborare più efficacemente nello svolgimento dei compiti comuni. Un coordinamento efficace delle spese per la difesa nei paesi dell'Unione permetterebbe di accrescere potentemente l'efficacia dello strumento militare dell'Unione anche a parità di costi. Dopo la caduta del muro di Berlino è cambiata in un certo senso la natura dell'alleanza. Essa non ha più lo scopo di fermare una improbabile invasione della Armata Rossa. Il nuovo avversario che si è delineato dopo gli attentati dell'11 settembre è piuttosto il terrorismo internazionale che, con l'aiuto di stati dominati da gruppi dirigenti fanatici, potrebbe arrivare a disporre di armi di distruzione di massa. L'emergere di questo nuovo avversario ha indotto ad una profonda revisione della dottrina di sicurezza americana e nel corso di questa revisione è emerso il rischio dell'unilateralismo. Giustamente il governo italiano sia in occasione della crisi afgana sia in occasione della presente vicenda irachena ha assicurato agli Stati Uniti il proprio leale sostegno e proprio in forza di questa assunzione di responsabilità si è adoperato a favore di una strategia multilaterale di lotta al terrorismo. Strategia multilaterale vuol dire adoperarsi per costruire una alleanza internazionale contro il terrorismo coinvolgendo in essa l'Unione Europea, la Russia ed i paesi arabi moderati. Il governo italiano in questa occasione ha parlato sia con i russi che con gli americani ed ha aiutato a forgiare la linea di azione presente che, noi speriamo, consentirà di disarmare l'Iraq senza guerra. Contemporaneamente nel momento più difficile della crisi io stesso ho spiegato al governo irakeno che la guerra non era affatto decisa, che la scelta di dare puntuale esecuzione alle risoluzioni delle Nazioni Unite con ogni probabilità avrebbe evitato il conflitto, che la via della pace era ancora aperta e poteva essere praticata. E' mancato al governo in questa occasione un dialogo adeguato da parte dell'opposizione. Essa nel suo complesso non ha saputo e voluto affrontare politicamente i problemi della pace e della convivenza internazionale. Si poteva dissentire dalle modalità di affronto della crisi inizialmente proposte dal governo degli Stati Uniti ma non si poteva e non si doveva con un superficiale antiamericanismo eludere il problema: possiamo tranquillamente lasciare che il regime iraqueno si doti di armi di distruzione di massa? Che faremo poi se queste armi fossero usate per distruggere lo stato di Israele e ripetere l'olocausto? Una Europa che rifiutasse di affrontare questi problemi mostrerebbe chiaramente di non sapere e di non volere assumere una responsabilità globale per la pace. In tal caso non potremmo poi noi europei lamentarci dell'unilateralismo americano. Solo Giuliano Amato, in questa occasione, ha affermato la cultura di una sinistra di governo. E' purtroppo rimasto isolato con solo la parziale comprensione di Massimo D'Alema. Ce ne rammarichiamo perché queste scelte fondamentali di politica estera dovrebbe vedere l'unità di tutta la nazione, specialmente nel momento in cui i nostri soldati sono esposti all'estero in delicate situazioni per dare forza alla politica di pace del governo e del popolo italiano. Della politica della pace fa parte la politica per lo sviluppo. Lo ha detto Paolo VI: lo sviluppo è l'altro nome della pace. Ripetutamente il governo nella sua espressione più alta, per le parole del Presidente Berlusconi, ha preso l'impegno di aumentare lo sforzo dell'Italia nella lotta per lo sviluppo economico dei popoli poveri e contro la fame. La infelice situazione economica di questo anno non ha consentito di onorare da subito questo impegno. Noi riteniamo però che a partire dalla prossima legge finanziaria debba iniziare un percorso che, con opportune misure, conduca a portare nell'arco della legislatura l'impegno dell'Italia contro la fame dallo 0,13% allo 0,39% del PIL. E' un obiettivo realistico anche se impegnativo. Vogliamo che a questo impegno finanziario corrisponda un impegno culturale, una mobilitazione del mondo del volontariato e del terzo settore, delle fondazioni e delle imprese sociali, per dare un obiettivo concreto e realistico a quanti sentono oggi una profonda insoddisfazione per una globalizzazione che travolge talvolta nel suo cammino i poveri della terra, che va guidata e governata ed i cui effetti negativi devono essere controbilanciati da un forte impegno di solidarietà. L'idea della pace, che in politica estera induce i democratici cristiani a lavorare per l'Europa e per la Comunità Atlantica, si sostanzia in politica interna nelle idee di interclassismo, di concertazione o di dialogo sociale. E' questo, di nuovo, lo sforzo di costruire un mercato aperto, un mercato democratico, in cui non vi siano barriere all'ingresso ed in cui tutti possano mettere in valore i loro talenti. Il primo talento è la capacità di lavoro. Finché milioni di persone che vogliono lavorare non possono lavorare il mercato è asfittico, non è aperto e non è democratico. E' compito della politica tenere aperto il mercato e creare una ragionevole abbondanza di posti di lavoro. Questo obiettivo non lo realizza infatti un mercato abbandonato a se stesso in cui infinite strozzature ostacolano il libero dispiegarsi delle energie dell'impresa e del lavoro. Lo stato ha una funzione fondamentale di produttore di regole ma anche di stimolatore per accelerare i processi di innovazione e per contenere gli effetti negativi di quella distruzione creativa che pure è una caratteristica inevitabile delle economie di libero mercato. Nelle situazioni di difficoltà e di conflitto la prima lealtà dello stato va ai lavoratori. Bisogna infatti distinguere nettamente le responsabilità dello stato da quelle dell'impresa. Il compito dello stato non è quello di sovvenzionale imprese in difficoltà aumentando le tasse ed ostacolando la crescita complessiva del paese. Compito del governo è invece essere vicino ai lavoratori, garantire che nuovi posti di lavoro si creino e che i lavoratori che eventualmente perdessero un posto di lavoro ne possano facilmente trovare un altro disponendo di efficaci strumenti di informazione, di riqualificazione e di sostegno economico nella difficile fase di passaggio. A questi principi ci siamo ispirati anche nell'affronto della vicenda Fiat. Le concessioni che il governo è riuscito a strappare a difesa dei lavoratori della Fiat sono quello che si è potuto ottenere in questo momento. Prendiamo atto dolorosamente del fatto che il sindacato non ha ritenuto di poter sottoscrivere un'intesa, anche per la presenza al suo interno di posizioni massimaliste. E' comunque utile per tutti, al di là delle incomprensioni che vi sono state, recuperare un rapporto, riprendere il negoziato per accompagnare l'attuale ristrutturazione con il consenso dei lavoratori e porre le basi di un futuro auspicato rilancio. Concertazione non significa per noi rinuncia né da parte dello Stato né da parte degli altri attori della vita sociale all'esercizio autonomo delle proprie responsabilità, non significa riconoscimento di diritti di veto a nessuno. Concertazione è piuttosto consapevolezza del proprio limite da parte di ciascuno. Le nostre decisioni e le nostre iniziative funzioneranno meglio se gli altri attori della scena economica e sociale reagiranno ad esse in modo cooperativo e non antagonistico e questo avverrà più facilmente se cercheremo di coinvolgere di volta in volta nella decisione coloro che hanno interessi legittimi che dalla decisione saranno toccati. Dobbiamo portare in Europa questa Italia, così ricca di aggregazioni, di rappresentanze di categorie, di professioni, di gruppi sociali che vogliono giustamente essere ascoltati perché convinti di dare un contributo proprio ed insostituibile al bene comune. E' l'Italia delle imprese e dei sindacati, ma è anche l'Italia delle associazioni degli artigiani e dei commercianti, delle cooperative e del volontariato, degli agricoltori e di tante altre forme associative ancora. Tutto questo è una ricchezza per la democrazia, è una garanzia che la decisione politica non possa mai dimenticare le persone concrete che con il loro lavoro ed il loro impegno sono questo Paese, sono l'Italia. Noi ci impegniamo a tenere aperto il dialogo con tutte queste realtà. Abbiamo lavorato tenacemente alla costruzione del Patto per l'Italia e lavoreremo adesso alla sua coerente attuazione. Abbiamo visto e vediamo in esso una grande scelta politica della Casa delle Libertà che si qualifica attraverso di esso non solo come il blocco sociale delle partite IVA, che pure sono parte essenziale del nostro progetto, ma, insieme con esse in una organica visione di insieme come il blocco sociale dei lavoratori dipendenti e del volontariato e dei disoccupati e dei giovani in cerca di lavoro. Costruire la pace è un compito che non vale solo nella sfera internazionale.Vale egualmente nella vita politica interna del Paese. Anche qui le condizioni di una collaborazione feconda dei diversi ceti e delle diverse categorie non sono date una volta per tutte ma devono essere costruite continuamente con infinita pazienza e, in un certo senso, ricominciando sempre da capo. Questo è tanto più vero per una coalizione di Governo che ha un programma ambizioso di rinnovamento del Paese per renderlo più competitivo, più efficiente e più giusto, per sfruttare fino in fondo la grande opportunità dell'Europa. L'Europa è infatti insieme una opportunità ed una sfida. Per vincere la sfida è necessario mobilitare organicamente tutte le energie del Paese, vincere diffidenze e paura, aiutare ciascuno ad avere fiducia in se stesso e nelle proprie potenzialità, aiutarlo a trovare lungo il grande cammino della crescita del Paese anche il sentiero della sua giusta affermazione personale e della tutela dei valori, degli interessi legittimi che gli sono cari. L'Italia non vincerà questa sfida se non mobiliterà organicamente le energie del Mezzogiorno del Paese. Se vogliamo diminuire la disoccupazione, è nel Mezzogiorno che ci sono i disoccupati ed è lì che vanno create le occasioni di lavoro. Se vogliamo aumentare il tasso di occupazione è nel Mezzogiorno che vi sono le energie che dobbiamo svegliare e chiamare all'impegno. Se vogliamo allargare il mercato interno ed aumentare le possibilità di crescita è ancora nel Mezzogiorno che si gioca la grande partita della modernizzazione della economia italiana. De Gasperi nel suo tempo ha costruito la pace non solo attraverso l'Europa e l'interclassismo ma anche attraverso un forte richiamo alla solidarietà fra le diverse aree territoriali del Paese. Allora questa si chiamava politica per il Mezzogiorno, oggi si chiama politica per la modernizzazione dell'Italia. Nell'Europa che noi vogliamo non scompaiono le nazioni, che sono comunità di lingua e di cultura destinate a durare nella storia. Non scompaiono neppure gli Stati nazionali che hanno il compito di difendere nel contesto europeo le ragioni di quelle comunità di destino che sono le nazioni ed il concreto sistema di interessi in cui quella comunità di destino si articola. Un'Italia senza Stato nazionale in Europa sarebbe debole ed indifesa. Un'Italia in Europa con un Mezzogiorno che fosse un fardello e non una risorsa non potrebbe partecipare pienamente allo sviluppo dell'Unione, sarebbe condannata ad una posizione di umiliante subordinazione di cui soffrirebbero presto anche le parti più avanzate del Paese. Oggi la questione del Mezzogiorno incrocia quella della devoluzione e poiché di questo molto si è parlato sarà bene spendere qualche parola per fare chiarezza su questo punto. La devoluzione è un modello di federalismo basato sulla attribuzione alle regioni di competenze esclusive. Noi ci siamo impegnati nel programma della Casa delle Libertà a questo modello di riforma federale e non intendiamo rimangiarci la nostra parola. Tutta la Casa delle Libertà ed in modo particolare la Lega possono far conto sulla nostra lealtà. Intendiamo mantenere quello che abbiamo promesso: nulla di meno ma anche nulla di più. Il precedente Governo ha fatto una sua riforma federale con un diverso impianto concettuale. Quella riforma non funziona e genera un conflitto permanente fra Stato e Regioni. Non è possibile innestare la devoluzione sull'attuale titolo V della Costituzione. Se vogliamo realizzare la devoluzione, e noi vogliamo realizzarla, è necessario riformare la riforma dell'Ulivo. Il Ministro La Loggia ha già presentato un disegno di legge ordinaria che, interpretando in modo intelligente il testo del titolo V attuale, rimedia in parte alla situazione di difficoltà e cerca di rendere il sistema compatibile con la devoluzione. Il disegno di legge La Loggia, sul quale si registra un'ampia convergenza, va approvato al più presto. Esso tuttavia non basta. E' necessario un disegno di legge costituzionale che riformi in profondità il titolo V. Fra i molti problemi che è necessario affrontare indicherò qui soltanto i tre principali: a) È necessario che insieme alle competenze si assegnino alle regioni le risorse finanziarie per farvi fronte con modalità che rendano responsabili i governanti regionali per il rapporto costi/benefici delle loro politiche. E' inoltre necessario che la ripartizione delle risorse avvenga con modalità tali da non penalizzare le regioni più povere ed assicurare a tutti i cittadini italiani la realizzazione dei diritti fondamentali alla salute, all'istruzione etc… E' qui che si gioca l'idea stessa di nazione come comunità di destino e solidarietà attiva fra le diverse realtà territoriali che la compongono B) è necessario che, insieme con le competenze e le risorse finanziarie si attribuiscano alle Regioni il personale e le strutture che oggi svolgono le funzioni che passeranno alle Regioni. Se questo non avvenisse noi avremmo una duplicazione di spese ed un grande disordine amministrativo. Lo Stato sarebbe tratto ad inventarsi nuovi compiti per il personale e la struttura rimasti senza una finalità precisa e questo alla fine vorrebbe dire più burocrazia, più spese e più tasse o più debito. E' lo scenario che giustamente preoccupa Confindustria. A queste preoccupazioni dobbiamo dare risposte precise. Il federalismo è popolare in Italia se è sinonimo di meno burocrazia e meno tasse, se dovesse significare invece più tasse e più burocrazia i nostri stessi elettori scenderebbero in piazza gridando: W Napoleone, ridateci il centralismo. C) È necessario che lo Stato abbia effettivi poteri di indirizzo di coordinamento e di controllo e che le Regioni abbiano un preciso dovere di leale collaborazione. Qui è in questione l'unità nazionale e l'unità dell'ordinamento giuridico nonché la possibilità di svolgere una efficace azione di Governo. Non mi nascondo che per svolgere in modo federale questi compiti lo Stato deve riorganizzare se stesso in senso federale e sottoporre il modo in cui esercita questi compiti al controllo di un organo di rappresentanza delle Regioni. Se poi questo organo debba essere un Senato federale, un Senato integrato alla bisogna da rappresentanti delle Regioni, una terza Camera, una conferenza rafforzata dalle autonomie o altro ancora è cosa che al momento non saprei dire. E' certo tuttavia che tutti questi elementi e la soluzione di tutti questi problemi appartengono e devono appartenere al nostro disegno riformatore che deve procedere in modo organico collegando anche nel tempo le sue diverse fasi ed i suoi diversi momenti. Noi abbiamo promesso la devoluzione e la daremo. Non abbiamo promesso la somma del titolo V attuale più la devoluzione e nessuno può chiederci questa somma. L'on. Bossi ricorderà che lui stesso inizialmente voleva procedere alla riforma organica del titolo V, poi preferì limitarsi al disegno di legge oggi noto come della devoluzione riconoscendo però il diritto/dovere del Governo nel suo complesso di procedere alla più ampia riforma. Noi oggi chiediamo al Ministro La Loggia, eventualmente con il concorso e lo stimolo anche di un nostro disegno di legge parlamentare, di procedere rapidamente alla realizzazione di quell'impegno. Questo, e non altro, è il patto che abbiamo sottoscritto. Invitiamo, e se necessario, sfidiamo l'opposizione a misurarsi con noi su questo ampio ed ambizioso progetto e a non intestardirsi in una critica preconcetta di un aspetto solo di esso, isolato dal suo contesto complessivo. Invitiamo però anche noi stessi ed i nostri alleati a chiarire al più presto il nostro disegno, attraverso atti parlamentari e politici conseguenti, fugando il sospetto che una riforma fatta a metà generi infine più danni che non benefici. L'Europa, la Nato, l'interclassismo e la solidarietà territoriale, cioè la politica per il Mezzogiorno, sono il modo concreto in cui i democristiani hanno interpretato la centralità della costruzione della pace fra le nazioni, fra le classi sociali, fra le aree territoriali della nazione. Tutte queste scelte noi oggi siamo chiamati a riprendere ed approfondire. Queste scelte si collocano sullo sfondo della dottrina sociale cristiana ma anche su quello di una cultura liberaldemocratica delle istituzioni di cui De Gasperi e, dopo di lui, Amintore Fanfani e Aldo Moro sono stati gelosi custodi. Cultura delle istituzioni significa coscienza del fatto che il contrasto, anche vivace, degli interessi e delle idee, deve sempre essere orientato alla costruzione di un bene comune, cioè di una sintesi politica in cui anche l'avversario possa sentirsi rispettato come uomo e riconoscere almeno alcune delle proprie regioni. Cultura delle istituzioni significa saper riconoscere e rispettare valori e regole più alte di quelli immediatamente implicati nella propria azione politica. Per questo rendiamo omaggio in modo forte e convinto al magistero civile del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per il modo appassionato e coraggioso e per il grande equilibrio con cui svolge la sua altissima funzione. Più volte egli ha saputo resistere a pressioni indebite e fortissime che lo spingevano a varcare i limiti della sua funzione istituzionale contro il presente Governo di cui mi onoro di fare parte. Più volte ha dovuto subire critiche ingiuste anche da qualche componente della nostra coalizione per avere indicato con prudente saggezza valori fondanti e interessi nazionali permanenti che devono guidare l'azione di tutte le forze politiche. A questo riconoscimento accomuniamo volentieri il Presidente del Senato, il sen. Pera. Di lui ricordiamo in modo particolare con commozione il discorso di grande forza culturale tenuto in occasione della visita del S. Padre al Parlamento italiano che ha indicato con straordinaria lucidità la via di una cultura politica umanistica, laica e cristiana oltre i conflitti degli opposti integralismi. Ringraziamo infine per il suo grande contributo alla ricostruzione del giusto senso delle istituzioni il Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. E, questo, come è ovvio, un ringraziamento un po' particolare. In esso si mescola il rispetto istituzionale con l'orgoglio di vedere da lui testimoniata la nostra cultura politica, il nostro senso dello Stato. Pier Ferdinando Casini è un uomo di parte e di partito, un leader della Casa delle Libertà in una fase difficile della storia del Paese. Non credo che egli questo lo dimentichi mai. E tuttavia è un uomo di parte e di partito che sa che, chiamato ad un altissimo ruolo istituzionale, il modo migliore di servire la propria parte ed il proprio partito non è favorirla sottobanco ma garantire il corretto funzionamento delle istituzioni per giungere nel libero dibattito alla formazione di quella sintesi politica del bene comune che è interesse di tutti e, in modo particolare, del Governo e della maggioranza, che di tale sintesi hanno in modo particolare il dovere e di tale dovere devono sentire la responsabilità. La guida della Camera e del Senato da parte di uomini della Casa delle Libertà è un grande banco di prova della nostra cultura istituzionale, della nostra capacità di testimonianza di una visione alta della politica, infine del nostro diritto a governare il Paese. Non possiamo parlare di cultura delle istituzioni senza dire con sincerità il nostro pensiero sulla questione della giustizia. Il rispetto della Magistratura, il prestigio della Magistratura sono un bene pubblico che noi intendiamo in ogni modo preservare e tutelare. Questo bene pubblico, tuttavia, deve garantire un altro ancora più importante: l'oggettività ed imparzialità della Magistratura. La crisi della democrazia italiana dalla quale stiamo uscendo è stata segnata da un uso politico dell'azione giudiziaria ad opera di settori piccoli ma influenti della Magistratura. La Democrazia Cristiana, il Partito Socialista ed i partiti del centro democratico si sono sfaldati sotto il peso di una offensiva giudiziaria che non ha poi retto alla prova di più meditati giudizi. La recente sentenza di Perugia contro Giulio Andreotti ci ha meravigliato e profondamente rattristato. Non intendiamo certo giudicare la coscienza di chi la ha pronunciata ma dobbiamo registrare con preoccupazione che fra la coscienza di alcuni giudici e quella del popolo italiano, in nome del quale le sentenze vengono pronunciate, si è spalancato un abisso. Nella coscienza del popolo italiano Andreotti era e rimane un grande uomo di stato italiano ed europeo, che ha reso onore al nostro Paese nel mondo. A lui rivolgo oggi un caloroso saluto ed a lui voglio accomunare gli onorevoli Forlani e Mannino. In questo contesto si è inserita la persecuzione giudiziaria contro Silvio Berlusconi. Silvio Berlusconi con le sue scelte di entrare in politica ha vanificato nel 1994 quello che sembrava l'esito inevitabile della congiuntura politico/giudiziaria/mediatica del 1993/1994: l'arrivo della sinistra al potere per via giudiziaria. Il medesimo meccanismo che aveva distrutto le forze del centro si è allora messa in movimento contro di lui. Si è trattato di un attacco personale violentissimo e continuato in cui tutte le regole del rispetto per la verità e per la correttezza sono state violate, sulla base di esili indizi e di improbabili addentellati giudiziari. Ribadiamo in questa sede la nostra solidarietà con il Capo del Governo e la nostra assoluta indisponibilità verso qualunque tentativo di dare una spallata mediatico/giudiziaria agli equilibri politici determinati dalle libere scelte dagli elettori. Quello del ripristino di un corretto rapporto fra magistratura e politica è un problema aperto che può trovare soluzione solo con un impegno forte non solo del governo ma anche di tutte le parti in causa, opposizioni, magistrati e sistema dei media. Si inserisce in questo contesto il modo delicato della situazione della azienda televisiva pubblica. Esso è affidato e deve rimanere affidato agli organi competenti ed in modo particolare alla prudente valutazione dei presidenti della Camera e del Senato. Credo tuttavia che noi riteniamo che non sia corretto e non sia nell'interesse della coalizione di governo politicizzare la RAI nello stesso modo e con un segno opposto a quello che ha dominato nel recente passato. Abbiamo bisogno di una RAI in cui l'equilibrio; l'imparzialità; la ricerca onesta della verità; il pluralismo siano valori condivisi ed impegni che caratterizzano la fisionomia dell'azienda. Vorremmo recuperare il concetto di servizio pubblico, con una RAI non solo commerciale ma anche elemento responsabile del sistema culturale ed educativo del Paese. L'UDC che oggi nasce si colloca consapevolmente all'interno della Casa delle Libertà. E' una collocazione che nasce dalla risposta alla aggressione che a suo tempo hanno subito i democratici cristiani. E' una collocazione che nasce sul terreno dei valori e delle scelte che abbiamo illustrato, sul terreno della continuità della visione della società che è stata di Sturzo e di De Gasperi e che è oggi la nostra. Ci unisce a Forza Italia la comune appartenenza al Partito Popolare Europeo e la riaffermata adesione di Forza Italia al modello della economia sociale di mercato e di un liberalismo sociale. Abbiamo apprezzato e stimato lo sforzo di Gianfranco Fini di costruire una destra democratica, europeista, capace di assumere ed esercitare con indiscusso prestigio responsabilità di governo. Abbiamo lealmente riconosciuto la svolta federalista della Lega e la sua rinuncia al secessionismo. Ci siamo riconosciuti nella Casa delle Libertà soprattutto per l'impegno di Silvio Berlusconi a ricostruire una continuità con le grandi tradizioni politiche che hanno difeso in Italia la libertà e la hanno guidata in mezzo secolo di pace e di progresso economico e civile. Per questo riteniamo che l'UDC si iscriva pienamente nel progetto politico della Casa della Libertà e ne rappresenti anzi, a nostro avviso, la frontiera avanzata. Anche la discussione che si è aperta con i nostri alleati e che ha dato luogo anche a qualche incomprensione non mette minimamente in discussione questa scelta strategica. Essa vuole piuttosto stimolare una crescita complessiva della Casa delle Libertà ed un approfondimento delle ragioni politiche e anche culturali che la fondano. Sottolineo la necessità di un approfondimento sia politico che culturale. Non si realizza un ambizioso progetto di riforma senza una interpretazione complessiva della storia contemporanea del Paese, sulla quale si innesta organicamente una visione del suo sviluppo e del suo futuro. Senza una simile visione non potremo vincere la sfida con la sinistra per il governo e nemmeno quello, assai più importante, per la costruzione di un'Italia migliore. Cominciamo con il rilevare una serie di dati positivi. Abbiamo governato ed abbiamo governato bene. Abbiamo governato in modo diverso di ciò che i nostri detrattori si aspettavano. Dicevano che avremmo tagliato le pensioni della povera gente, le abbiamo invece aumentate portando un milione e mezzo di persone fuori dalla fascia di povertà. Dicevano che avremmo messo gli immigrati in campo di concentramento. Abbiamo invece fatto una legge severa ma giusta e umana che consente a oltre mezzo milione di persone di emergere, regolarizzare la propria posizione, godere dei diritti ed assolvere i doveri di tutti i lavoratori (compreso, per la gioia del Ministro Tremonti, il dovere di pagare le tasse), guardare con fiducia e speranza al proprio futuro. Dicevano che avremmo perseguito lo scontro a morte con il sindacato, invece abbiamo fatto il Patto per l'Italia. Dicevano che avremmo diminuito le tasse dei ricchi, abbiamo invece cominciato la riforma fiscale con la diminuzione delle tasse dei redditi medi e bassi e crediamo in tal modo di sollevare alcune altre centinaia di migliaia di persone al di sopra della fascia di povertà. Dicevano che avremmo fatto una legge finanziaria tale da farci cacciare dall'Europa ed invece i conti dell'Italia passano l'esame dell'Eurogruppo, in un momento peraltro difficilissimo per tutti, in cui Portogallo e Germania ricevono un inizio di procedura di infrazione dei criteri di Maastricht e la Francia riceve invece un avviso di preallarme (early warming). Dicevano che avremmo fatto una legge finanziaria contro il mezzogiorno e invece nella legge finanziaria le risorse per lo sviluppo ci sono. Mi fermo qui, anche se potrei continuare… Il governo ha lavorato molto e bene ed altrettanto ha fatto il Parlamento, con grandissimo impegno. Se mai c'è da domandarsi come mai sembra talvolta, a giudicare dal dibattito politico, che il governo abbia fatto solo la pur stimabilissima legge Cirami, quella sulle rogatorie e poco altro. Credo che possiamo dare un giudizio positivo anche sulla nostra partecipazione al governo. Tutte le misure che ho citato portano anche il segno del nostro partito, alcune con una evidenza particolare. La legge Bossi/Fini è stata profondamente modificata sotto l'impulso coordinato della nostra delegazione al governo e dei nostri gruppi parlamentari. C'è stata una battaglia nella maggioranza e nel governo ma è stata una battaglia leale, corretta, a viso aperto ed il risultato è stato una legge senz'altro migliore che coniuga in modo intelligente severità e giustizia. Credo che Bossi e Fini non si offendano se dico che questa meriterebbe di essere chiamata legge Bossi/Fini/Giovanardi, tanto è l'impegno che in essa ha profuso il Ministro Giovanardi. Il Patto per l'Italia non ci sarebbe senza il lavoro paziente ed ostinato dell'UDC che ha impedito che le rotture diventassero irrimediabili, che ha continuato anche nei momenti più difficili a tessere la tela del dialogo fino alla conclusione positiva. La legge finanziaria è stata riaperta e profondamente modificata in Parlamento per iniziativa nostra e nel dialogo con le parti sociali. C'è voluto tutto il coraggio politico di Silvio Berlusconi ed il suo buon senso lombardo per apportare ad una legge finanziaria già presentata in parlamento i cambiamenti incisivi contenuti nel maxiemendamento. Mi sembra per questo ingeneroso qualche giudizio che ho sentito sulla sostanziale irrilevanza della nostra presenza nel governo. Devo dire tuttavia con eguale chiarezza che esistono elementi di insoddisfazione e di preoccupazione che hanno spinto qualcuno di noi fino ad avanzare l'ipotesi di uscire dal governo, certo rimanendo leali alla maggioranza ed al patto stretto davanti agli elettori. Dico subito che io non porto questa proposta davanti al Congresso. Non condivido peraltro lo scandalo con cui qualcuno lo ha accolto. Un partito convinto della propria funzione politica, convinto del proprio ruolo nel formulare e contribuire a guidare un progetto positivo, convinto del proprio ruolo nel legare a questo progetto un'area che crediamo ampia e comunque in espansione della pubblica opinione, può uscire dalla gestione del governo per esercitare con più forza nella maggioranza e dai banchi del Parlamento la propria funzione di stimolo e di proposta. Può farlo se ritiene in questo modo di ottenere un ascolto più attento delle proprie ragioni nell'ambito della coalizione. Quali sono le ragioni, dunque, del nostro disagio? Vi sono mille questioni particolari fra le quali accennerò soltanto al problema della sottovalutazione in questa finanziaria del ruolo dell'Università e della ricerca scientifica. Su questo punto abbiamo elaborato delle proposte che non aggravano i saldi della finanza pubblica e ci aspettiamo che esse siano considerate ed approvate: La questione fondamentale è però tutta politica e riguarda la natura della coalizione. Noi crediamo che la Casa delle Libertà abbia vinto le elezioni presentando un programma responsabile e moderato, un volto responsabile e moderato, una fisionomia complessiva responsabile e moderata. Noi abbiamo l'impressione che ci sia un tentativo di cambiare la fisionomia della coalizione dandole una impronta radicale che spaventa gli elettori e rischia di farci entrare su sentieri di scontro a 360° che non riusciamo ad accettare. Non siamo gelosi delle cene del Presidente del Consiglio con il leader di un'altra forza della coalizione. Anzi, non vorremmo, in quelle cene, essere invitati a fare la parte del vitello grasso. Noi però crediamo che la coalizione debba essere una coalizione con quattro partiti, di peso diverso ma di eguale dignità. "ma dov'è il problema?" potrebbe chiedere qualcuno. I democristiani hanno fatto parte del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Cosa c'è di nuovo? In realtà fino ad ora molti hanno considerato la nostra presenza come un residuo del passato, destinato ad esaurirsi progressivamente nel tempo. Noi crediamo invece oggi, fondando l'Udc, di raccogliere una domanda di centro, una domanda di politica moderata, una domanda di valori democratici cristiani che sale dal paese. Abbiamo l'ambizione di proiettare questa domanda verso il futuro. Certo, è vero che il passato non ritorna. E' però anche vero che i valori veri non muoiono mai. Noi cerchiamo una incarnazione di questi valori adeguata al tempo ed ai problemi di oggi. Chiediamo ai nostri alleati di non ostacolare questa ricerca, di sentirla come una ricchezza per tutta la coalizione, come una opportunità di radicarla e di estenderla verso aree della società e dell'elettorato che ad essa fino ad ora sono rimaste estranee o si sono ritirate in una attesa diffidente. In Europa e nel mondo, dopo una stagione di liberismo dogmatico a cui si opponeva la conservazione statalista si è aperta la ricerca di un nuovo equilibrio di stato, mercato e società civile, di una nuova sintesi di libertà e solidarietà mediate dalla sussidiarietà. Fenomeni populistici come quello di Heider in Austria e quello di Fortuyin in Olanda si vanno sgonfiando e riemerge il centro politico, riemergono i valori dei democratici cristiani sotto la guida di leaders radicati sul terreno dei valori di sempre ma anche aperti alla innovazione ed al cambiamento, come dal Balkenende in Olanda e Schuessel in Austria. Ad essi va il nostro saluto mentre ci incoraggia il loro esempio. Abbiamo l'ambizione di servire il nostro paese facendo politica, contribuendo alla sua guida, e non scaldando delle poltrone o occupando dei posti di potere. Il compito a cui ci accingiamo è costruire il partito dei democratici cristiani, con dignità e con orgoglio. Alcuni, che guardano lontano, ci ricordano le tante cose che ci uniscono a Forza Italia ed agitano la prospettiva del Partito Popolare Europeo che noi dovremmo costruire insieme con Forza Italia. Non sarò io che ho scommesso sulla evoluzione di Forza Italia verso il Partito Popolare Europeo quando essa era un movimento che ancora doveva decidere della sua caratterizzazione e del suo destino, a negare la plausibilità di questa prospettiva. Talvolta però il guardare troppo lontano può essere ingannevole come il guardare troppo vicino. Dobbiamo fare il partito, radicarlo nel territorio, tessere i suoi rapporti con i mondi vitali che a noi guardano e dei quali vogliamo diventare punto di riferimento. Dobbiamo mettere il partito alla prova di impegnativi confronti elettorali e farlo crescere. Solo dopo sarà sensatamente possibile pensare ad un Partito insieme con Forza Italia che non sia semplicemente una nostra confluenza in Forza Italia che poco aiuto le darebbe e farebbe svanire la originalità di proposta e di cultura politica di cui ci sentiamo portatori. Abbiamo accennato alla necessità di inserire la devoluzione all'interno di un più ampio e coerente progetto di riforma federalista. E' necessario dire in conclusione che anche la riforma federalista deve essere un tassello di un disegno compiuto di riforma costituzionale di cui può far parte il presidenzialismo e anche una riforma in senso proporzionale del sistema elettorale. Il presidenzialismo per rafforzare l'unità della nazione in presenza di una riforma federalista. Il sistema elettorale proporzionale perché esso corrisponde all'idea di una democrazia della rappresentanza capace di governare una società articolata e complessa. Proporzionale perché pensiamo che la democrazia non sia semplicemente un sistema in cui si vota per decidere chi comanda per cinque anni. Governare non è comandare ma esercitare i poteri conferiti dal corpo elettorale in un ascolto continuo della società che permetta a molti, a tanti, tendenzialmente a tutti di sentirsi partecipi di un processo di dialogo democratico attraverso il quale si prendono le decisioni che riguardano il bene di tutti. Voglio infine ringraziare tutti coloro che hanno percorso il faticoso cammino che ci ha condotto all'appuntamento di oggi. Ringrazio i nostri alleati che ci onorano con la loro presenza a questo Congresso. Ringrazio Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Con loro si è stabilito un rapporto di solidarietà e di amicizia personale e politica che nulla potrà intaccare. Insieme abbiamo difeso la libertà dell'Italia, insieme adesso la vogliamo cambiare per renderla più bella e più giusta. Ringrazio Umberto Bossi: un confronto leale anche se duro aiuta a trovare soluzioni più equilibrate e rispondenti al vero bene del Paese. Ringrazio Sergio D'Antoni che ha portato a questo appuntamento Democrazia Europea e con essa una parte importante del cattolicesimo sociale italiano. Ringrazio Marco Follini le cui capacità di analisi politica, la cui fermezza e la cui pazienza molto hanno dato per il nostro comune progetto e molto ancora hanno da dare. Ringrazio tutti gli amici del CDU che mi sono stati vicini in questi anni difficili. Ringrazio tutti quelli che sono arrivati qui attraverso i percorsi politici del CCD e di DE ed anche i tanti che sono tornati all'impegno politico quando finalmente hanno visto con l'UDC un segnale di ricomposizione e di unità. Ringrazio infine Pier Ferdinando Casini. Senza di lui il faticoso percorso che ci ha fatto attraversare il tempo difficile dell'eclissi dell'ideale democratico cristiano non sarebbe stato possibile. Dopo l'eclisse, lo speriamo e ne siamo convinti, viene oggi il tempo di una nuova aurora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il discorso di Sergio D’Antoni al congresso nazionale dell’Udc



Hanno scritto tornano, ma la verità è che non ce ne siamo mai andati. Ci eravamo un pò dispersi, un pò frantumati. Diamo a tutti questi nostri amici l'occasione per ritrovarsi, questo è uno dei motivi fondatori dell'Udc. Ma c'è di più. Noi offriamo, attraverso l'Udc, un modello di partecipazione a quanti, uomini cristianamente ispirati e laici, vogliono partecipare alla vita politica italiana. Noi offriamo attraverso l'Udc uno strumento nuovo, sì come risultato di una storia di unificazione di tre soggetti ma anche come ambizione di restituire alla politica quel compito, quella forza, quell'attrazione che nel corso di questi anni la politica ha sostanzialmente perso. E quando un anno fa insieme agli amici del Cdu e Ccd cominciammo questo lavoro probabilmente molti di questa sala o molti, esterni a questa sala, non pensavano che in un anno potevamo riuscire a fare quello che abbiamo fatto. Non pensavano che in un anno potevamo stare qui a fare un nuovo partito che si chiama Udc e che si presenta per quello che è. E' questa la differenza formidabile tra noi e gli altri partiti. Che noi diciamo subito dall'inizio chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Gli altri devono o nascondersi dietro una pianta o dietro un fiore o dietro una situazione culturale per fare una riunione settaria. Siamo al massimo. Noi siamo l'Unione dei democratici cristiani e di Centro, ci chiamiamo e aderiamo all'internazionale democristiana e al partito popolare europeo, e diciamo a tutti "siamo qui abbiamo un problema, noi riteniamo che per tutto quello che accade in Italia possiamo darvi qualche suggerimento obiettivo o proposta, per governare bene le società del ventunesimo secolo, e quindi per essere un partito nuovo e moderno. Io penso che il sondaggio di Datamedia non sia strumentale come qualcuno dice, non bisogna mai pensare male degli altri. Il problema vero è che ha sbagliato tempo, doveva farlo un anno fa quando pochi credevano a questa iniziativa. Fatto un anno fa probabilmente non ci credevano manco quelli di Datamedia, non l'hanno fatto. Noi il sondaggio l'abbiamo avuto il 26 e 27 di maggio del 2002, quello è il nostro sondaggio. Il nostro sondaggio, invece, ci ha detto che questo partito, frutto dell'unificazione di tre partiti, ottiene due cose: non solo somma i voti dei tre partiti, che è già un primo risultato importantissimo, perché non sempre avviene quando si fa un'unificazione tra i partiti, ma fa un'altra cosa, aumenta i voti dei tre partiti . Se controllate quei dati, ma non lo scrive nessuno e nessuno lo scriverà, siamo l'unico partito che il 26 e il 27 di maggio ad aumentare i voti non in percentuale, cosa che è sempre un pò fasulla, perché la percentuale è direttamente proporzionata al numero dei votanti, siamo l'unico partito che aumenta i voti in valore assoluto. Nuovi cittadini italiani hanno votato Udc. La proposta è giusta. Allora il nostro problema è raccogliere questa indicazione e fare in modo che questa indicazione che è venuta il 26 e 27 maggio sia da noi raccolta e trasformata, attraverso questo congresso, ma anche attraverso il lavoro che da questo il congresso in poi dovremo fare sul territorio, a livello nazionale e regionale per fare in modo che questa proposta, questa idea, questa modernità venga vissuta come tale perché non siamo in controtendenza, perché in paesi moderni o considerati tali l'idea, questo patrimonio rivince. In Olanda, nella modernissima Olanda, ha vinto la Democrazia cristiana. In Austria il partito popolare austriaco ha avuto il 42%, un risultato storico che mai nella storia dell'Austria aveva avuto. Ora io non so e non voglio qui fare sogni, però non penso che l'Italia non abbia queste condizioni dell'Olanda e dell'Austria e non possa ritrovarsi in una nuova condizione tale da poter scegliere un partito che si chiama Unione democratici cristiani e di centro. Non penso che questa sia solo un'utopia. C'è l'esigenza di rimettere in gioco la politica, perché in questa condizione c'è un deficit di politica che sta raggiungendo livelli inenarrabili, che si è aggravato in maniere forte dopo l'11 settembre, altra vicenda di cui si parla pochissimo. L'11 settembre, ahimé, drammaticamente avviene una svolta, un attacco di matrice terroristica, una svolta nella politica del paese, si sono modificati assetti e le valutazioni che erano state fatte in precedenza sono valse a poco. Tutto questo si aggrava, diventa impellente trovare la possibilità di avere una risposta urgente. Noi dobbiamo offrire la risposta, dare una proposta, dare il senso della politica. Questo è il nostro compito di dirigenti. Noi dobbiamo ricominciare, bisogna dare il senso che principi e valori da oggi questa grande tradizione, questo è il nostro compito di modesti dirigenti, dire quale è il senso di questa sfida ed offrire la risposta adeguata. Il nostro problema è proprio questo: ricominciare. Se posso usare solo una battuta, sono stanco delle polemiche tra la prima e la seconda repubblica. E' una polemica che è un non senso, è come se la storia si ferma e c'è una finestra, ne chiudi un'altra e ne cominci un'altra. La prima non è mai finita perché la seconda non è mai cominciata, perché questo modo di concepire i rapporti significa mettere delle chiusure alla storia. Non esiste: la nostra parola d'ordine è “allora torniamo alla Repubblica”, perché è questa che rischia in questo clima, è la repubblica che non ce la fa, né prima né seconda, perché cadendo la politica e la repubblica che alla fine non funziona, non affronta i problemi delle persone, la vita di ogni giorno, la sensibilità delle persone e diventa una specie di teatro continuo. Questa specie di bipolarismo italiano, siamo bipolari e non nostalgici, e allora dobbiamo chiederci se funziona o no, garantisce governabilità o no. E se non funziona, come io penso, quali sono le modifiche da fare per far funzionare questo bipolarismo perché questa è la domanda. E allora diciamolo subito, lo ha detto Buttiglione e lo dirà Follini, l'Udc si colloca in questo bipolarismo nella Casa delle Libertà perché è alternativa alla sinistra in tutte le sue manifestazioni. Non ci sono dubbi, non ci sono equivoci. Lo dico io che mi sono arreso per ultimo. Quindi è meglio che lo dica io per non lasciare dubbi. La cosa che mi fa impressione, che veramente trovo devastante per la mia concezione di cultura politica è che quando uno solleva dentro uno schieramento un problema succedono due cose. Una dalla parte degli alleati, una dalla parte degli avversari. Gli alleati ti dicono "C'è un rischio di ribaltone", ma sentir dare del ribaltonista a Casini che è uno dei fondatori della Casa delle libertà, io mi impressiono perché vuol dire che si è perso il senso della cultura politica e della misura. Vuol dire che una coalizione non è più quel luogo dove ognuno porta le sue idee, e alla fine si fa una sintesi e c'è un leader che sintetizza, ma è un'altra cosa. Questa alleanza deve funzionare meglio e vogliamo dare alcuni suggerimenti. Il nostro obiettivo è quello di rimettere insieme le donne e gli uomini. Sul nostro manifesto scriveremo parole forti come Moderati, Solidali e Europei. Il muro contro muro non serve e dobbiamo essere pronti all'ascolto. Il vero modo di governare il paese è la mediazione. Non è il "decisionismo". In questi ultimi dieci anni sono stati tutti decisionisti. E poi quando non si trova la corrispondenza tra quello che si promette e quello che si ottiene allora ci sono i problemi. Il Presidenzialismo invece è un ulteriore forma di delega, si da una delega a qualcuno e a forza di dire "pensaci tu" allora è la fine l'Italia non si è misurata sui problemi attuali e alla fine noi abbiamo fatto una sorta di teatrino che non serve alla gente. Penso che non sia la soluzione adeguata per risolvere i problemi italiani, la questione non è verticalizzare il paese, altrimenti il paese si siede perché' affidato ad altri. Sarebbe una fuga in avanti, il problema vero è trovare gli strumenti che servono al paese, e la prima cosa da fare è quella di discutere sulla legge elettorale, visto che il maggioritario non funziona. Questo congresso serve appunto a ribadire la nostra appartenenza. Il nostro partito sta nell'alleanza. Questo elemento deve far capire a tutti che se vogliamo continuare il cammino delle riforme l'Udc è fondamentale. Sulle questioni istituzionali una delle cause di questo muro contro muro è questo mostro, il mostro della legge elettorale. Il cosiddetto Mattarellum, che del maggioritario ha due gambe e due teste e alla fine c'è il peggio dell'uno e dell'altro. Alla fine gli estremismi vogliono prenderti in ostaggio. E' successo al Centrosinistra. Il Mattarellum è un mostro, metà cavallo, metà uomo che allora va cambiato. E la nostra dovrà essere una grande battaglia per garantire l'alleanza tra pari. Ci vuole un sistema proporzionale con il premio che consenta alla forze di allearsi in libertà . Un sistema proporzionale che renda il cittadino più libero e la voce pluralista. Dobbiamo fare una bella battaglia, penso che sarebbe più congeniale insieme a questo dibattito dare un senso alle regioni, il vero rischio per l'unità del paese è che quando si daranno le competenze e quindi si daranno i soldi alle regioni alla fine il paese si dividerà. Contributo essenziale per la nuova alleanza e questo vale per la politica economica e per la fase di cambiamento. In questi dieci anni abbiamo avuto una caduta del paese anche rispetto alla media europea e vuol dire che il mercato ci ha fatto crescere di 4 punti in termini di produzione industriale. In America invece la produzione industriale è aumentata di 24 punti nello stesso periodo. Come non chiedersi che i nostri miseri 4 punti vanno paragonati ai 14 punti della media europea. In questi dieci anni quindi noi abbiamo avuto una caduta del nostro Paese, rispetto agli Stati Uniti e questo lo sapevamo, ma anche di dieci punti rispetto a quella europea. Tutto ciò vuol dire che non c'è stata la politica e non c'è stata la governabilità. Il mercato a cui avevamo affidato tutto in questi 10 anni, tutto perché il pensiero unico a destra e a sinistra era "ci pensano loro", "fate fare a loro" ci ha consegnato questo bel risultato. Farci crescere di 4 punti in termini di produzione industriale. Li abbiamo lasciati fare. Perché la cosa grave è che questo risultato l'abbiamo ottenuto dopo cinque anni di governo della sinistra. Si sono gestite delle privatizzazioni in questo Paese, hanno privatizzato anche i supermercati che sono stati poi affidati alla Germania e alla Francia. Ci sono i grandi privatizzatori che non fanno i conti con una realtà che non va solo privatizzata, ma serve anche un altro modello su cui fondare lo sviluppo. E allora bisogna riprendere questo dibattito e lo deve fare la Casa delle Libertà. La sinistra non ha più le carte in regola per farlo, perché avendo la via del salotto buono del capitalismo italiano ormai più di quello che gli è stato dato non gli si può dare. Bisogna riportare questo dibattito ad un livello vero. E il livello vero è quello di capire qual è il giusto rapporto tra intervento pubblico, intervento dei privati e dei lavoratori. L'Udc deve farsi carico di una proposta forte, nuova che è fondamentale: bisogna democratizzare questo capitalismo attraverso l'intervento dei lavoratori in questo capitale di rischio, perché questa è l'unica strada. Oggi la crisi Fiat con i lavoratori nel capitale di rischio potrebbe non essere la stessa. L'Italia ha puntato tutto sull'automobile come settore strategico, l'Italia sa fare le automobili. Nel sindacato ci sono gli estremismi e per sconfiggerli dobbiamo avere proposte forti, partecipate come è stato per il Patto per l'Italia. Siamo grati a Pezzotta e a tutta la dirigenza della Cisl. Perché con le scelte che sono state compiute senza retorica si mette a rischio anche l'incolumità personale, le minacce terroristiche che sono arrivate alle sedi sono il segno più inquietante di una democrazia che non riesce ad assorbire scelte libere che i lavoratori magari possono fare. Siccome usciamo da un periodo terribile, ma ancora non lo siamo completamente. Una repubblica non può tollerare che uomini del livello di Moro, Ruffilli, Biagi e di tutti coloro che avevano questa grande capacità, cioè mettere a servizio il proprio sapere alla repubblica, debbano per questa ragione avere sacrificato la vita. E penso che fino a quando gli assassini non saranno assicurati alla giustizia noi dobbiamo tenere alta la bandiera e alta la muraglia contro ogni forma di terrorismo. E alta la bandiera sull'intero sistema democratico italiano. Non il "muro contro muro" che non porta da nessuna parte. Ed è per questo motivo che penso di legare le proposte di questo partito ad un assetto istituzionale nuovo e diverso, ad un assetto di democrazia economica nuova e diversa., un assetto di paese nuovo e diverso. Per noi è intollerabile questo divario Nord Sud del Paese. A parole è intollerabile per tutti, per noi lo è ancora di più per due ragioni: perché pensiamo che un Paese così diviso non avrà un grande futuro. E noi dobbiamo spiegarlo in maniera forte al Nord, dobbiamo convincerli che se non cresce il Sud, non crescono neanche loro. E l'Europa ci sta se ci stiamo tutti. Dobbiamo fare di più e questo lo dobbiamo fare all'interno della Casa delle Libertà proprio perché il Centrosinistra ha sbagliato cinque anni di politica meridionale e il Mezzogiorno ha votato contro il Centrosinistra e quindi a favore della Casa delle Libertà. E' per questa ragione che la Casa deve sapere che senza una terapia d'urto forte e reale che possa accorciare le distanze senza un piano di investimenti pubblici e privati, che possa aprire una nuova prospettiva nel Paese, il rischio è una divaricazione politica e sociale, e il rischio è un paese che si siede, perché al Sud resterà assistenza, quella poca che è rimasta mentre al Nord resterà uno sviluppo modesto, perché ha bisogno di manodopera che non ha. In questo momento nel nostro paese ogni anno centomila meridionali lasciano al propria terra alla ricerca di un lavoro al Nord del Paese, ma che Paese è se non è in grado di fare un apolitica che interrompa tutto questo? Che paese è se non in grado di metter in moto un processo che convinca tutti che questo è giusto. Tutto questo lo può fare l'Udc. Così Datamedia può fare i sondaggi in giro per il Mezzogiorno e scoprire che la Casa delle Libertà senza il Mezzogiorno non ci sarebbe. Restano altre questioni, come quella della famiglia e la questione sociale, quelle che tutti pongono sempre al centro dei loro dibattiti, ma che poi hanno scarse conseguenze. Non c'è nessuno che lo potrà fare meglio dell'Udc. La presenza di Don Gelmini è la prova provata che senza porre la famiglia al centro della nazione anche al questione sociale aumenta. Non è solo un problema di politica economica e sociale ma un problema complessivo di politica e di azione. Per favorire una ricomposizione moderna di questi argomenti che sembrano antichi ma sono di grandissima attualità. E infine ma non ultimo, un problema delicatissimo che è quello della formazione, della suole e della ricerca. Sono tutti settori in cui non abbiamo responsabilità di governo. Ma non avere la possibilità di interloquire a fronte di una grande stabilità che tutti invocano ma che invece non è corrispondente al fatto che l'Udc può avere una proposta, può avere degli obiettivi ma può anche avere la capacità di aspirare a fare un servizio all'intero Paese e a tutta la Casa delle Libertà. Prima lo capiscono, meglio è per tutti. Se questo è vero io penso che la nostra ambizione debba essere associata ad un vero partito democratico. Questa è una grande impresa, sono tutti bravi a parlare di partito democratico, di regole che vanno rispettate, di evitare le verticalizzazioni, di evitare i personalismi che bisogna essere pazienti, umili, ma ognuno che fa questo discorso normalmente pensa che valga per gli altri e difficilmente per se stesso. Io penso che nel mio piccolo ho cercato di farlo avvenire, che è importante per l'Udc per farlo uscire da questo congresso con atteggiamenti di leale collaborazione. Ho pensato che sia indispensabile fare dei passi indietro perché così si contribuisce ad un vero partito democratico, ecco perché dico a Marco Follini che noi stiamo facendo una cosa grande, costruire un grande partito in questo Paese. Il primo ruolo è per Marco Follini e per essere non un collaboratore ma un partecipe ad un gruppo dirigente forte, unito e collegiale perché questo farà la differenza tra i partiti “personali” e l'aspirazione che noi abbiamo. Noi che siamo un partito non “personale” ma guidato da un gruppo dirigente, forte, solido e collegiale. Ho molto apprezzato il gesto che Buttiglione ha fatto con grande acume e senso di responsabilità, facendosi carico della nostra immagine. A Follini, Buttiglione e tutti gli amici che sono qui e cercheremo di fare diventare sempre di più fuori da qui. E' importante che questo partito sappia caratterizzarsi per il funzionamento vero della direzione e di tutti gli organismi. La democrazia ha tanti difetti, ma per funzionare ha bisogno anche dei suoi organismi che funzionino. E' un traguardo non da poco. Se daremo l'esempio potremmo esserlo anche a livello territoriale, regionale e nazionale. Ci sono oggi tante discussioni anche animate, ma è importante che questo continui anche dopo questo appuntamento congressuale. Spesso ci comportiamo come la Dc che aveva il 40 per cento, ma in realtà noi dobbiamo ancora creare tutto questo consenso. Vogliamo costruire un partito democratico per costruire una grande Italia che si sappia misurare con il Paese.

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