IL RICCO CALCIO DEI POVERI

 

Quando l’arbitro fischia, una vittoria o una sconfitta hanno sempre lo stesso sapore.Al di là se in palio ci sia un grosso premio o un contentino da strada. Se vinci, per un attimo dimentichi i tuoi problemi e ti senti come se avessi il mondo nelle tue mani, se perdi ci sono le braccia ai fianchi e lo sguardo perso nel vuoto, forse verso quel palo che ha respinto l’ultimo, disperato assalto. Non c’è da stupirsi se è così anche in un torneo amatoriale dove una stretta di mano dovrebbe contare più di un gol segnato di rapina, dove una bevuta al bar con il tuo peggior “nemico” dovrebbe essere un momento più importante di mille primi posti. Appunto, dovrebbe. Perché poi in campo ognuno va per la sua strada e si dimenticano i buoni propositi che, puntualmente, si impacchettano insieme ad un borsone riordinato in tutta fretta. Perché quando l’arbitro fischia, comincia un’altra storia e, soprattutto, si vedono altre persone. Con lati del proprio carattere spesso sconosciuti quanto sgraditi. E via con l’avversario che quando entra è per forza cattivo, con l’arbitro che quando sbaglia è perché  mi vuole far perdere e con me che sono sempre vittima e mai carnefice e che se entro per far male è perchè sono scivolato sul terreno. Vietato meravigliarsi, è il calcio, forse un po’ lo amiamo pure per questo. Il nostro calcio, però, non può e non deve essere solo questo. E’ vero, è quello dei figli minori, di chi deve attendere che si liberi un fazzoletto di terra per inseguire piccoli sogni e rinverdire antichi fasti. Ma non importa se qualcuno ci considera poveri: siamo ricchi di spirito, di voglia di calciare un pallone, anche se spesso facciamo meta invece che gol. Lo stesso spirito che anima chi si avvicina alle sessanta primavere e fa riscaldamento come un ragazzino, di chi se ne va cinque minuti prima da lavoro perché c’è un appuntamento col calcio che non si può rimandare. Non ci serviranno moviole per scoprire che amatori dell’arbitraggio sbagliano i loro fischi: ci basterà sapere che, per farlo, si mettono in discussione quando potrebbero starsene comodamente in poltrona. Non servirà discutere di pressing e numeri travestiti da tattiche, ma ci accontenteremo di fingere di farlo su una polverosa lavagna nell’angolo dello spogliatoio. E poi vinceremo o perderemo. Ma se sapremo vedere nell’avversario un coetaneo da aiutare a rialzarsi quando scivola maldestramente e stringeremo la mano all’arbitro quando convaliderà agli avversari un gol fatto con la mano, statene certi, non potremo mai essere davvero sconfitti. Non è solo utopia, basta crederci veramente e saper circoscrivere ad un rettangolo errori (magari orrori) del più bel gioco del mondo. E, chissà che lontano da televisioni, processi e miliardi, alla fine non avremo noi un divertimento maggiore. Perché quello dei figli minori, in fondo, forse è davvero il ricco calcio dei poveri.

 

 

Gaetano Pugliese