l'angelo di gödel



- Ah cojone, stamo a fa' la colletta pe' compratte un fischietto novo!

La voce ha sfumature cavernose, arrochite dal fumo di mille sigarette. È senza dubbio quella di Nando, il panettiere, e per un attimo sovrasta il rumoreggiare mugghiante degli spalti. Non posso trattenere un sorriso, ma è questione di poco: ho cose più importanti a cui pensare ora. Siamo al novantacinquesimo minuto dell'ultima partita di campionato, e stiamo vincendo uno a zero. L'arbitro non si decide a fischiare. Mi sono sempre chiesto quale tipo di coraggio armi gli arbitri delle categorie inferiori, costretti a scendere su campi che non concedono spazio a un eventuale improvviso bisogno di fuga; campi quasi sempre a così stretto contatto con le tribunette degli spalti - quando ci sono gli spalti - che i giocatori possono vedere il bianco degli occhi degli spettatori, e viceversa. In queste condizioni è inevitabile che l'ostilità rancorosa del pubblico diventi un flutto denso, un maremoto in sedicesimo inteso a travolgere arbitro e giocatori della squadra in trasferta. Tutto ciò non impedisce al giudice supremo della partita di continuare a sgambettare sul prato (quando gli va bene) o nella fanga nemica d'ogni lavatrice (quando gli va proprio male). Prendete quello che sta arbitrando questa partita: sì, proprio lui, quello che Nando ha apostrofato come "coglione". Sono quasi sicuro che nella vita di tutti i giorni sia un contabile, un ragioniere, di quelli precisi e noiosi. Sembra infischiarsene del clamore sollevato dall'esagerato recupero concesso, dal fatto che il tempo regolamentare è scaduto da cinque lunghi minuti. Ha deciso che dobbiamo giocare comunque tutto il tempo perso con le sostituzioni, con il soccorso agli infortunati - veri o presunti - e tira dritto per la sua strada. Forse lo compatisco un po', per via di quell'aria di tristezza stantia che promana dai suoi capelli radi. Forse - lo so che suona strano - lo ammiro, per quel barlume di coraggio che mette in mostra ogni volta che indossa la sua divisa, ogni volta che abbandona il tepore domenicale della sua casetta - mutuo trentennale, ci giurerei - per diventare il Dio del Pallone, Colui che può decidere le sorti di una partita. Senza dubbio credo che sia un idiota:

- Che aspetti a fischiare la fine, imbecille!

L'insulto mi sfugge soffocato tra i denti. Vent'anni di assidua frequentazione di campi di periferia e di provincia non sono stati sufficienti a insegnarmi il completo distacco dalle passioni sportive, la virile accettazione dei fatti. Durante la partita soffro adesso quasi come allora, agli inizi, quando ero un ragazzino troppo alto per la sua età e troppo goffo e impacciato nei movimenti per fare l'ala. A quel tempo sognavo di emulare le gesta del mio eroe, Claudio Sala, il Poeta del Gol. Sognavo il passo doppio a ubriacare il terzino, il volo libero e puro lungo la linea laterale, l'immensità degli spazi sul fondo, il cross preciso di interno, a rientrare, pennellato sulla testa del centravanti in agguato in mezzo all'area. Sognavo i baffi di Claudio Sala, le finte di corpo, i difensori lasciati dietro come birilli sbilanciati, abbattuti dallo strike clamoroso della mia tecnica sublime. Avevo tredici anni, e sognavo decisamente troppo. Il mister se ne accorse alla prima occhiata, e mi consegnò un paio di guantoni una misura più stretti del necessario:

- L'ala? - rispose sorpreso alla mia richiesta ingenua e accorata, squadrandomi dalla testa ai piedi lungo il metro e ottanta che definiva il mio sviluppo precoce.

- Metti questi - aggiunse dopo una pausa che mi sembrò durare come una metafora d'eternità - ci serve un portiere di riserva... Altro che ala. Che idee!

Io soffocai la rabbia che mi montava dentro come una schiuma bianca, infilai a forza i guantoni troppo stretti e mi sistemai tra i pali, deciso a lasciar entrare di tutto dentro la porta, durante la partitella d'allenamento, per dimostrare che non ero adatto a sopportare il destino statico del portiere. Il passo doppio, la finta di corpo! Questa è la mia vera vocazione, pensavo annuvolato: l'assist, il passaggio lungo a scavalcare il centrocampo, la fuga imprendibile sulla fascia, la libertà assoluta del tornante, le distanze piene d'erba, di sole e di gloria. E all'improvviso mi ritrovai davanti un attaccante avversario lanciato a rete in contropiede. Sembrava un carrarmato senza freni, un toro infuriato. In un lampo capii che nessun picador m'avrebbe aiutato a domare la bestia, ma il mio smarrimento durò meno di un secondo: agii d'istinto, come se non avessi fatto altro durante tutta la mia infanzia. Mi buttai sotto i suoi scarpini, fragile ostacolo tra la sua corsa rovinosa e la rete che già sentivo mia, inviolabile. Non so come, riuscii ad arpionare il pallone con le mani; mi ci raggomitolai sopra, a difenderlo, mentre l'attaccante costernato ancora lo cercava tra i suoi piedi. Mi rialzai di scatto, vidi il nostro terzino libero sulla sinistra e subito gli lanciai il pallone, col classico gesto dei portieri. Mi girava un po' la testa per l'euforia. Mi voltai e osservai a lungo la porta, salva: la traversa e i pali corrosi dal vento e dalla pioggia, la rete sbrindellata, rattoppata in diversi punti, e mi sentii a casa. Fu tutto naturale. Così naturale che a pensarci adesso mi sembra ovvio aver ottenuto il posto di titolare due sole settimane dopo quella sera.

- Idiota, perché non fischi?

È l'ultima partita di campionato, e stiamo vincendo uno a zero contro la seconda in classifica, che ci precede di un solo misero e maledetto punto. Vincere significherebbe scavalcarla ed essere promossi nella categoria superiore. Stiamo vincendo uno a zero, e il merito è tutto di quella gran capoccia del nostro regista, il Masetti, che venti minuti or sono ha visto con la coda dell'occhio il portiere avversario fuori dai pali, perso in qualche sua metafisica contemplazione. Senza por tempo in mezzo, il Masetti ha pensato bene di spedirgli espresso quel popò di saponetta velenosa, quell'eterea palombella da trenta metri: ha fatto fuori il libero lasciandolo scivolare controtempo, ha alzato un attimo la testa, solo un decimo di secondo, per calibrare bene le distanze, e poi l'interno del suo piede ha carezzato con dolce violenza il pallone, che nel suo moto parabolico assumeva effetti trascendentali. Volava, la sfera di cuoio, che sembrava animata: l'avreste detta dotata di una sua intrinseca malizia, di una sua diabolica vis dinamica, diretta a infliggere il maggior dolore possibile all'incauto guardiano della porta avversaria. Il quale se la vide passare, esiziale e irrimediabile, poco sopra le sue manone stanche: inutile il tardivo salto all'indietro, il colpo di reni. Vano il protendersi affannoso delle braccia. Il pallonetto terminò il suo volo poco sotto l'incontro del palo con la traversa, e andò a gonfiare la rete come vela di una caravella diretta verso nuovi mondi. Trenta metri di miracoloso equilibrio balistico. Se fossimo stati su un campo di serie A, i commentatori della domenica avrebbero speso almeno una mezz'ora a mostrare il gol da tutte le angolazioni possibili. Avrebbero analizzato il gesto tecnico del regista, la sua perfetta visione di gioco, la posizione inopportuna del mio sfortunato collega. Se avessimo giocato alla luce dei riflettori dell'Olimpico, o del Meazza, il cronista avrebbe esclamato:

- Un eurogol formidabile! -

e il Masetti dopo la partita sarebbe stato intervistato sotto una pioggia di microfoni, i capelli ancora bagnati dalla doccia. Con la noncurante eleganza che lo distingue, avrebbe calpestato sintassi e consecutio temporum di fronte a milioni di spettatori incollati al video. Ma non siamo una squadra di serie A, e non giochiamo all'Olimpico. Siamo una squadra di seconda categoria, aspiriamo alla prima - sempre che quell'imbecille non sia deciso a lasciarci continuare fino al Giudizio Universale - e nessuna telecamera ha immortalato la prodezza del nostro regista. Che dopo la partita - i capelli ancora umidi e incollati dalla gelatina - salirà sulla sua lambretta e tornerà a casa, a raccontare il gol alla nonna. Chissà se sul suo cuscino sognerà la pioggia di microfoni, il Masetti, o se sarà pago della gloria condominiale. Il nostro pubblico - quaranta-cinquanta persone, tra parenti e amici intimi dei giocatori - ha esultato, certo, e Peppe, il meccanico, ha esaurito l'aria dei suoi polmoni per gridare:

- Ah mitico, j'hai levato le ragnatele a quella porta! -

ma non è la stessa cosa di un'intervista in televisione, ne converrete, anche se la lambretta è vecchia, spesso necessita di cure, e magari Peppe potrebbe fargli uno sconto, al Masetti:

- Guarda, Mase', `sta volta è gratis, tanto era `na cazzata. Ma dì un po', come hai fatto, domenica scorsa, eh? Che gol! Senti qua, Gino: allora, c'era er Masetti che stava a venticinque... no, ma che dico: a centrocampo, stava, ma prima del centrocampo, eh? Saranno stati minimo sessanta metri dalla porta, e...

No, non giochiamo in serie A: non siamo famosi - nessuno di noi lo è. Prendete me: la mia carriera è stata tutt'altro che folgorante. Ho iniziato nelle giovanili, e in poco tempo sono arrivato in prima squadra, la squadra del mio paese. E poi vent'anni di oscillazione tra la seconda e la terza categoria, vent'anni di domeniche passate a scavare solchi sempre più profondi nello spazio definito dal gesso dell'area piccola e dai pali. Pali corrosi dal vento e dalla pioggia di stagioni senza numero, pali piantati ai limiti di un campo di periferia, come dire ai limiti di un limite, tanto che a volte, durante certe domeniche particolarmente tristi, mi sembrava di stazionare inutilmente ai bordi stessi del mondo. Guardavo giù nell'abisso da cui nasce il vento che corrode i pali e le traverse, che trasporta via il gesso delle righe, le cartacce sugli spalti, i cappelli degli spettatori, i minuti della partita. Sì, la vita del portiere è piena di vento. Anche di sole e di pioggia, è vero, ma soprattutto di vento - e di tempo. Il tempo, paziente, mi ha insegnato a dimenticare i baffi di Claudio Sala e l'impossibile celebrità sportiva. Lungo il sottile filo di questi vent'anni ho continuato a giocare forse per passione, forse solo per abitudine, aspettando il tiro dell'avversario con immobile fatica. Mi piaceva l'aria umida e calda degli spogliatoi dopo la partita, la sensazione del fango lavato via dalla doccia, il tè bollente dell'intervallo. C'è stato un tempo - ma allora ero molto più giovane - in cui ho veramente creduto che quella del portiere fosse la mia vita reale, che l'attesa immobile e lo scarto improvviso di lato a bloccare il pallone in presa costituissero il senso profondo della mia esistenza. Ma poi mi è sembrato di capire che questa è solo una maschera che indosso una volta la settimana: una delle tante maschere che la vita incolla di tanto in tanto ai nostri vestiti, alle nostre facce stanche. Credo che la mia vera vita, se ho una vera vita, sia altrove, in un luogo che non conosco e che dispero di conoscere, e in ogni caso dalla gioia del gol all'inferno del recupero il passo è breve come quello di un tango. Siamo al novantacinqesimo, la partita è finita, lo vuoi capire o no, imbecille. Fischia! Fischia, idiota, o vuoi far ripetere la storia? E all'improvviso il centravanti avversario allunga verso la mia porta il pallone, seguendolo con la sua corsa disperata. Mi sposto di lato, verso il pericolo, piego le ginocchia stanche e allargo le braccia, quel tanto (quel poco) che basta a far capire ai miei compagni e al pubblico che ho la situazione sotto controllo. La corsa dell'attaccante è minata dalla fatica, il pallone è troppo rapido, troppo lungo, e finirà fuori, lontano dalla mia porta, lontano dal disastroso pareggio. Ma non ho neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo, di pensare che finalmente questa è l'ultima azione della partita, l'ultimo pericolo della mia poco brillante carriera di portiere. Non ve l'ho ancora detto? Ho deciso di smettere. Questa sarà la mia ultima partita ufficiale. Non è solo per l'età: ho trentatré anni, è vero, ma potrei continuare per un paio di stagioni ancora, senza problemi. Il mister ha cercato di convincermi: ha detto che con la mia esperienza potrei andare avanti altri quattro o cinque anni. Ma non è solo per l'età: l'altro giorno, guardandomi allo specchio, ho notato una smorfia di tristezza che non avevo mai visto sul mio viso, e mi sono accorto che l'aria degli spogliatoi dopo la partita è meno calda di prima. Mi sembra che l'acqua della doccia fatichi a scrostarmi il fango dalla pelle, e gli integratori salini non hanno lo stesso gusto e lo stesso effetto del tè bollente. E poi mi sembra di aver già dato abbastanza alla causa, di essermi scorticato a sufficienza le ginocchia sull'eterna polvere dei campi alla periferia del mondo. Ho i capelli pieni di vento, ormai, e mi sembra di somigliare sempre di più alla malinconia e all'inutilità dei pali piantati ai confini dell'Universo. Il tempo - e il tempo è una di quelle cose che di certo non manca a noi portieri - mi ha insegnato tra l'altro che è meglio non insistere, quando non è il caso, anche se non si sa poi bene perché non sia più il caso. È vero, spesso noi portieri affoghiamo nel tempo immobile di una partita. Succede quando le azioni si svolgono - per fortuna - tutte dall'altra parte del campo. E allora puoi solo battere i piedi e agitare le braccia per scacciare il freddo, mentre pensi al conto in banca che si prosciuga, al lavoro che avvelena gli altri sei giorni della settimana, a tutte le cose che vanno a rotoli senza che tu capisca in dettaglio il perché. Ne abbiamo in genere, noi portieri, di tempo per pensare, durante una partita. Ma non ora. Nemmeno un secondo per tirare un sospiro di sollievo, un sospiro che dica "sì, questa volta è finita davvero". L'imprevisto fa la sua comparsa in campo nelle vesti stracciate e fangose di Biagini Antonio, classe 1975, un metro e ottantacinque di muscoli duri, puri e ottusi. Insomma, il nostro terzino destro. Entra in scivolata quando il pallone è ormai quasi sulla linea di fondo, irraggiungibile. Osservo la cena con distacco, freddamente, come se fossi davanti alla moviola. Che bisogno c'era, penso con rimpianto. Avevo allargato le braccia: era tutto sotto controllo. So già come andrà a finire, mentre il Biagini sta ancora slittando culo sull'erba rada e gambe protese in avanti, verso il pallone troppo lontano e troppo veloce, verso gli stinchi del centravanti che anelano lo scontro. So perfettamente come andrà a finire, e penso no! non un'altra volta. Il pallone scavalca la linea di fondo proprio nell'esatto momento in cui i tacchetti degli scarpini del Biagini stampano la loro firma scoordinata sul polpaccio ormai anaerobio dell'attaccante avversario. C'è un grido, un volo, un affannarsi inutile e ipocrita di braccia che cercano l'equilibrio ormai compromesso. C'è un lungo fischio. Ma è il fischio sbagliato: rigore. Sugli spalti, un secondo prima rumorosamente agitati, cala un silenzio freddo quasi quanto una lama di coltello. I pochi tifosi della squadra in trasferta, confinati in un angolo, afferrano il senso della scena con pochi istanti di ritardo, e quindi esplodono grida come cormorani affamati di vendetta. Rigore. Nessuno in campo protesta, tanto era evidente il fallo. Il mister si mette le mani nei capelli, le lascia scivolare sul viso. Povero mister: ci ha creduto fino all'ultimo, lui. Oddio, giunti a questo punto ci stavo credendo anch'io. Ma il mister ci credeva di più. Era convinto. Talmente convinto che aveva scommesso col presidente. Una cena nel miglior ristorante del paese, famiglie incluse. Per un taccagno come il mister, questo vuol dire qualcosa. Quel cretino del Biagini, abbandonato lo stinco dell'avversario al suo felice dolore, va incontro all'arbitro con la faccia ebete e innocente del terzino che ha semplicemente compiuto il proprio dovere difensivo, e che solo per un malaugurato caso, una sfortunata coincidenza, ma non certo per malizia o per cattiveria, ha steso per i campi l'infido violatore dell'area altrui. "Non posso essere punito per una sciocchezza simile, per una colpa che non è mia", pare che dica la sua espressione ingenua. L'arbitro lo caccia via con un gesto del braccio che non sembra ammettere discussioni. La fronte bassa del Biagini si corruga di vene, la sua faccia antica di contadino si chiazza di porpora e d'avorio. Urla qualcosa che non riesco a capire. Il nostro capitano circonda le sue spalle con braccia paterne, lo tira via, ma è troppo tardi: l'arbitro estrae il cartellino rosso. Mi si piegano le ginocchia, e questa volta non è solo per la stanchezza. Mi accovaccio, e devo tendere una mano verso terra per trovare l'equilibrio. Con l'altro braccio mi circondo la testa, a proteggerla dal silenzio irreale che è piombato sul campo come un veleno. Non è possibile, penso. Quindici anni annullati in un secondo da un'entrata scoordinata, da uno sgambetto.

- Coraggio - dice una voce sopra di me.

Alzo la testa: è Carlo, il mio migliore amico, il nostro libero. Quindici anni fa c'era anche lui, certo. Intuisco che ha compreso il mio sgomento, che è anche il suo. Non sta sprecando le sue parole di incoraggiamento per uno stupido rigore, ma per aiutarmi a vincere lo spettro dell'eterno ritorno. Lo guardo e sorrido, ma è un sorriso triste, e poi volto la testa, sicuro di incontrarlo. E infatti Giorgio è lì, appena fuori dall'area, col pallone in mano. Sulla sua faccia è stampato lo stesso identico ghigno di quindici anni fa. Quindici anni, capite. C'eravamo tutti e tre, proprio come adesso, negli stessi identici ruoli. Carlo, il consolatore. Giorgio, il carnefice. Io, la vittima sacrificale.

- Ma allora - dico a Carlo alzandomi, senza distogliere lo sguardo da Giorgio - è tutto vero. Il tempo circolare, l'eterno ritorno degli uguali...

Carlo è turbato quanto me, lo sento. Il suo silenzio è più eloquente di qualsiasi parola.

- E lui è il Superuomo, e noi le scimmie...

So di poter parlare così con Carlo. Me lo consentono lunghi anni di amicizia cementata dagli stessi campi di periferia, dalle stesse domeniche pomeriggio assolate o piovose, a seconda della stagione, da innumerevoli bottiglie di vino stappate e consumate per far scivolare via certe serate malinconiche e infinite. So di poter parlare così con lui, perché è stato lui a insegnarmi a parlare così. Noi della squadra lo chiamiamo "Il Filosofo", in conseguenza del fatto che è l'unico ad avere una laurea, in matematica. Gli devo molto: mi ha insegnato tante cose.

- Vedi - mi disse una volta - noi non abbiamo nessun merito per le nostre inclinazioni. Ci sono persone che si vantano perché alcune cose riescono loro facilmente, senza sforzo, ma questo è sbagliato, oltre che poco fine. Prendi me, per esempio: che merito ho a essere bravo in matematica, visto che col pallino della matematica ci sono nato? A me studiare un teorema complicato non costa nessuna fatica: anzi, mi ci diverto. Dov'è allora la mia bravura, di cosa mi dovrei vantare? È per questo che gioco a pallone: perché giocare a pallone per me è difficile. Devo mettere in moto i muscoli, e io sono pigro - fisicamente, intendo. Devo ogni volta trovare la coordinazione giusta per colpire la palla e non le gambe dell'avversario. Devo seguire il gioco, interessarmi a una cosa di cui in fondo mi interessa poco o nulla. È per questo che gioco: per trovare il mio merito, per potermi dire "bravo, sei riuscito a fare bene una cosa complicata". Avrei potuto scegliere l'alpinismo, o diritto romano, o l'arpa celtica. Ho scelto il pallone: è una cosa come tante altre.

Io lui e Giorgio siamo cresciuti insieme. Abbiamo frequentato le stesse scuole di paese, le stesse piazze strette, gli stessi oratori polverosi. Abbiamo avuto le stesse ragazze, fumato le stesse sigarette, e abbiamo iniziato a giocare nella stessa squadra. A un certo punto Giorgio prese una strada diversa, una direzione apparentemente tangente alla nostra. Noi due, io e Carlo, rimanemmo a girare in cerchio, a crogiolarci al sole di primavera seduti al solito muretto diroccato. Lui, Giorgio, il fantasista, l'ala - lui sì, davvero - sembrò per un momento destinato a una carriera luminosa, alle telecamere negate al nostro regista. Prima passò in un altra squadra della stessa categoria - e noi ce lo ritrovammo in campo come avversario per un anno o due. In seguito il suo cartellino fu acquistato da una squadra di serie B. Sembrava l'inizio del volo di un grande attaccante, e invece fu solo la fine. Due brevi stagioni in serie B e poi un brutto scontro in allenamento gli costò tutti i legamenti del ginocchio sinistro. A quel tempo avevamo già perso i contatti: non andai nemmeno a trovarlo nella clinica dove era ricoverato per l'operazione al ginocchio. Carlo invece andò a fargli visita:

- Vedrai - mi disse dopo qualche giorno - tornerà a giocare, perché non sa fare altro. Non sarà più lo stesso, è ovvio, ma tornerà a giocare. È bravo, e lo sa. Anzi, se ne vanta.

In effetti tornò a giocare, ma la sua fiamma ormai s'era spenta. Ridiscese lentamente di categoria in categoria, fino al punto di partenza, fino a qui, fino a questo momento, al ghigno che gli toglierei volentieri dalla faccia con la carta vetrata. Quando eravamo ancora ragazzi - quando eravamo ancora amici - e giocavamo nella stessa squadretta, quella in cui Carlo e io giochiamo tutt'ora, dopo gli allenamenti ci fermavamo ancora un po' al campo per la nostra gara privata di rigori. Quelli di Carlo ogni tanto li paravo: quelli di Giorgio mai. Aveva un modo particolare di spiazzarmi. Non guardava mai il pallone, o un angolo della porta. Mi guardava sempre dritto negli occhi. Io cercavo di sostenere il suo sguardo senza cadere ipnotizzato. Poi prendeva la rincorsa e senza fermarsi - lo sapete, è vietato fermarsi durante la rincorsa - e senza mai distogliere lo sguardo, calciava il pallone in maniera imprevedibile. E anche quando, per un caso fortunato, indovinavo il lato giusto verso il quale tuffarmi, il pallone era sempre troppo veloce, o troppo alto, o troppo angolato, o una delle altre quattro combinazioni delle tre impossibilità di raggiungerlo. Gli sfottò, inutile dirlo, si sprecavano.

- Ho capito una cosa - disse Carlo una sera mentre tornavamo a casa (abitavamo a poca distanza l'uno dall'altro) - i rigori di Giorgio sono come la proposizione di Gödel dell'aritmetica: sono indecidibili.

- Cioè? - risposi passandogli la sigaretta che avevo rubato dalla giacca del mister.

Carlo sospirò:

- Non te lo so spiegare: non capisco bene neppure io.

Guardò in alto, come a cercare un'ispirazione tra le stelle:

- Ma un giorno capirò: il teorema di Gödel, intendo. Ho già cominciato a studiarlo. Per conto mio, chiaro, ché a scuola queste cose non ce le insegnano. Per il momento mi è tutto abbastanza oscuro. Ma capirò, ci puoi scommettere. Lo capirò prima di iniziare l'università. O dopo, per quel che mi importa. L'importante è capire.

Io lo guardai meravigliato: stupito che volesse affrontare un teorema di matematica che immaginavo impossibile per le mie scarse capacità, stupito che volesse continuare a studiare, dopo il liceo. All'epoca non ero sicuro di comprenderlo tanto bene. Mi sembrava troppo diverso da me, troppo intellettuale. Quando finimmo il liceo, pensai che ci saremmo persi di vista, che la nostra amicizia sarebbe naufragata come quella che ci aveva entrambi legato a Giorgio. Mi sbagliavo, per fortuna, e col vino e col tempo (e si sa, il tempo non è certo una cosa che manchi a noi portieri) imparai ad apprezzare Carlo a fondo, a condividere con lui il tempo stesso. Carlo mi tende la mano nel silenzio innaturale. È l'unico, oltre me e l'arbitro, ancora dentro l'area di rigore.

- Non farti fregare dalle chiacchiere dei filosofi.

Lo guardo smarrito:

- Ma quindici anni fa...

- Non farti fregare! Quindici anni fa era un'altra storia. Eravamo altre persone. Pensa, degli atomi che costituivano il tuo corpo di quindici anni fa, non ce n'è rimasto più neppure uno, ora. Sono cambiati tutti. Tu, adesso, sei un'altra cosa.

Il suo solito modo aggressivo di presentare il lato sbagliato della faccenda mi dà le vertigini. Barcollo ubriaco librandomi per un attimo sopra la danza invisibile degli atomi:

- Ma allora... chi sono io?

Carlo mi guarda sorpreso, poi guarda l'arbitro, forse temendo che corra a interrompere troppo in fretta la nostra conversazione. Chiaro che non si aspettava una domanda del genere. A dire tutta la verità non me l'aspettavo neppure io, e non riesco a capire come sia uscita fuori. Comunque mi fa sempre piacere spiazzarlo, mostrargli che in fondo non sono quel ragazzino che tutti credono che io sia, che anch'io mi pongo certe domande.

- Come chi sei... Sei Franco, non ti basta?

- No, non mi basta. Se io sono l'insieme dei miei atomi, e gli atomi cambiano di minuto in minuto, di concreto dopo un po' resta solo la domanda: chi sono io in realtà?

- Tu... Ma non lo so! Ma che cazzo di domande, un secondo prima di un rigore!

I suoi classici lineamenti filosofici si alterano. Forse perché l'arbitro si avvicina, e Carlo capisce che non avrà il tempo di rispondermi come vorrebbe.

- Che cazzo di domande del cazzo! Tu adesso devi pensare a parare il rigore! Tu sei quello che deve parare il rigore! Tu... Sei quello che deve mostrare al sistema formale i suoi limiti. Ricordi? Te l'ho detto anche quindici anni fa, prima dell'altro rigore... Tu sei l'Angelo di Gödel! E se non lo sei devi diventarlo, adesso! Adesso o mai più.

Quindici anni fa, lo avrete capito, ormai, ci trovavamo quasi nella stessa identica situazione, con la differenza che allora lo zero a zero sarebbe stato sufficiente per non sprofondare nel baratro della terza categoria. Tenemmo lo zero a zero con le unghie e con i denti fino al novantesimo. Poi ci fu il rigore. Avrete anche capito che all'epoca Giorgio giocava nella squadra avversaria. Il rigore l'avrebbe tirato lui, senza dubbio: era la sua specialità. Quel che non sapete, quel che non potete sapere, visto che non ve l'ho ancora raccontato, è che al momento di quel rigore io e Giorgio già ci odiavamo - neanche troppo cordialmente - da qualche tempo. Come al solito, fu colpa di una donna. Forse donna è esagerato, visto che chi più chi meno avevamo tutti sedici anni, e Giorgio ancora giocava nella nostra squadra - il suo ultimo anno con noi - e ancora ci fermavamo al campo dopo gli allenamenti per la nostra gara privata di rigori. Ma noi ci sentivamo già uomini - come tutti, a quell'età - e quindi lei era una donna, dal nostro punto di vista. Inoltre era molto carina, e io credevo di esserne innamorato. A dirla tutta ero proprio cotto. Anche Carlo, ovviamente. Una sera lei si presentò sugli spalti dello stadio dove ci allenavamo. Non sapevo che avesse un appuntamento con Giorgio. Non potevo saperlo.

- Guarda, Lui' - gridò Giorgio - guarda come impallino questo passeretto... Te l'ho detto, no, che Franco non riesce mai a pararmi un rigore.

Cominciavo a innervosirmi: non mi mossi per niente, e il pallone si infilò sarcastico sotto al sette.

- Hai visto, che ti avevo detto? - continuò a gridare Giorgio.

Luisa batteva le mani ridendo. Che oca! Come avevo potuto credere di essere innamorato di una simile cretina! Raccolsi il pallone in fondo alla rete e lo lanciai a Carlo: era il suo turno. Ma era più nervoso di me, e spedì il pallone un chilometro dal palo, verso i Mari del Sud della sua fantasia.

- Guarda, Lui' - ripeté Giorgio come un disco incantato - adesso il passeretto becca la seconda fucilata.

- Smettila, per favore - gli dissi secco.

Fu allora che vidi per la prima volta il ghigno, e capii che per lui non era solo un gioco come per me e Carlo. Lui ci godeva da matti.

- Cos'è, ti brucia che non ne prendi neanche uno, eh?

- Smettila e tira questo cazzo di rigore, e poi vediamo.

- Vediamo, vediamo...

Mi fissò negli occhi, come al solito. Calciò forte e preciso: io scattai come una molla tenuta compressa troppo a lungo, mi stesi al massimo, sfiorai il pallone con la punta delle dita. Ma quel bastardo si schiantò sul palo interno e andò dentro. Giorgio scoppiò in una risata isterica.

- E due! - disse forte, in modo che quell'oca potesse ascoltare - tutto nella norma, eh?

Mi alzai dalla polvere amara e gli fui addosso con pochi lunghi passi. Ero alto dieci centimetri più di lui, ma avrei agito nello stesso modo anche se fossi stato dieci centimetri più basso - o almeno così mi piace credere. Gli mollai un cazzotto nelle gengive che, ne sono sicuro, ancora se lo ricorda. La scena rimase immobile per qualche istante: Giorgio per terra col sangue che gli colava sul mento dalla bocca, Carlo che mi guardava come se fossi Cappuccetto Rosso o un altro essere mitologico, l'oca che starnazzava gridolini neanche avessero provato a toccarle il prezioso culo.

- Che cazzo fai... - mormorò Giorgio, con lo sguardo liquido di chi ancora non ha capito cosa sta succedendo.

- Vattene via, imbecille. Anzi, vaffanculo!

Lui in fondo era un vigliacco, e se ne andò lanciandomi insulti da lontano. Fu l'ultima volta che giocammo ai rigori. Per scherzo, intendo. Perché poi l'anno dopo me lo ritrovai davanti, e non fu uno scherzo, per niente. Parlo di quindici anni fa, è chiaro: di quella volta che tenemmo lo zero a zero con i denti fino al novantesimo, per non sprofondare in terza categoria. E poi ci fu il rigore, come vi ho già detto. Cosa non avrei dato per essere come Zamora, o almeno come Jascin! Loro, ne sono sicuro, avrebbero inchiodato a terra il pallone con le loro mani che sembravano tenaglie d'acciaio inossidabile. Avrebbero smorzato in un soffio la violenza del tiro. Sarebbero stati sulla traiettoria con precisione matematica, con velocità fulminea. Avrebbero spento il ghigno di Giorgio - lo so, cercava vendetta - come si spegne la fiamma di una candela quando è ora di andare a dormire. Ero confuso e impaurito. Un cazzotto non vale una retrocessione in terza categoria, o almeno così pensavo a quel tempo. Credevo che la vendetta di Giorgio sarebbe stata implacabile e sproporzionata. Carlo, allora come adesso, cercava di infondermi coraggio. A modo suo, naturalmente:

- Ricorda le cose che ti ho detto ieri sera! - gridò da lontano, quasi dalla bandierina del calcio d'angolo - Tu sei l'Angelo. Sei l'Angelo di Gödel!

La sera prima eravamo andati a cena in un'osteria, e due ragazze, delle quali non riesco a ricordare i nomi, procuravano un certo temporaneo sollievo alle nostre solitudini intrecciate.

- L'hai capito, poi, il tuo teorema? - chiesi dopo il secondo bicchiere.

Lui mi guardò improvvisamente serio, con un'ombra negli occhi. Si divincolò con una certa fatica dalla stretta della sua accompagnatrice:

- Non dovresti prendermi in giro su queste cose: per me sono importanti, lo sai.

- Ma lo so, lo so - dissi ridendo - non volevo prenderti in giro. E chi vuole prenderti in giro... Era una domanda interessata. Più di una volta mi hai detto che il tuo teorema è collegato in qualche modo ai rigori di Giorgio, e al fatto che non riesco a pararli. Pensavo che forse potresti spiegarmi come fare. Domani giochiamo contro quell'imbecille, ricordi? Metti che l'arbitro fischia un rigore... (Nei miei momenti di superstizione - capitano a tutti - credo d'essermela tirata).

- Primo, non è il "mio" teorema: è il teorema di Gödel. E secondo, temo che non capiresti.

Credo di aver risposto un po' offeso dall'insulto alla mia intelligenza:

- Be', certo, se non ti degni neanche di provare...

Lui giocò un po' col bicchiere, col tovagliolo. Sembrava assorto, indeciso.

- Forse è solo questione di tempo... - disse a un tratto.

All'epoca ancora non avevo capito quanto le vicende dei portieri siano strettamente intrecciate alle volute del tempo, che girano loro intorno come le spire del serpente Kundalini, e quindi non risposi nulla.

- Ma ci vuole un tempo infinito! - esclamò a un tratto battendo un pugno sul tavolaccio di legno - e poi no, non basterebbe neanche quello...

Sei occhi attoniti e vagamente brilli (i miei più quelli delle due ragazze) si fissarono sul suo volto.

- Un tempo infinito...

- Se continui così, per enigmi, non ti capirò mai - dissi accendendo una sigaretta.

- Ma di cosa state parlando? - chiese annoiata la ragazza che mi sedeva accanto.

- Roba seria - sussurrai avvicinando le mie labbra al suo profumo: - matematica, filosofia...

- A me piace la matematica - esclamò felice l'altra ragazza.

- Va bene - disse Carlo estraendo la sua penna stilografica dal taschino della camicia - ma poi non venire a dirmi che non te la sei cercata. Adesso mi stai a sentire, idiota.

- Non chiedo di meglio.

- Bene - e dall'intonazione della voce si capiva benissimo che si era già calato nei panni del maestro - sai dirmi cosa significa la frase: "il tale teorema è vero"?

La domanda mi sembrava talmente facile che sospettai il trabocchetto. Perciò risposi con cautela:

- Credo... Credo che significhi che quel tale teorema è stato o può essere dimostrato.

- Hai risposto proprio come mi aspettavo. Adesso però dovresti essere così gentile da raccontarci cosa significa dimostrare un teorema.

Carlo mi ha detto tante volte che il modo migliore di spiegare una cosa a qualcuno è - paradossalmente - quello di farsela spiegare proprio da chi non la sa, lasciando che l'interlocutore trovi la sua via per mezzo di domande adatte: ma un conto è il principio generale, e su quello posso essere d'accordo, un conto è quando uno ci si trova in mezzo. Per farla breve, le sue domande mi costringevano a pensare, e quindi mi stavo innervosendo.

- Dimostrare un teorema - risposi cercando di nascondere l'irritazione - significa... Significa che uno parte da cose che già conosce, e per mezzo di deduzioni logiche arriva al teorema da dimostrare, cioè alla cosa  che ancora non conosce.

Carlo mi guardò un po' sorpreso:

- Be', non c'è male, come risposta...

- Vuoi dire che non te l'aspettavi, eh? Vuoi forse dire che mi facevi più ignorante? Guarda che sto facendo il liceo anch'io, eh, che credi? E non sono mai stato rimandato, in matematica...

- E in primo?

- Va be', in primo...

- Lasciamo stare. Allora, siamo arrivati a un punto ben definito. Tu stesso hai introdotto gli assiomi, ovvero "le cose che uno già conosce", e le regole di inferenza, cioè "le deduzioni logiche". In parole povere hai definito un sistema formale. Per esempio, l'aritmetica è un sistema formale. Mi segui?

- Come no. L'aritmetica. Uno, due, tre...

- Esattamente. Adesso ho un'altra domanda. Prendiamo l'aritmetica, tanto per andare sul concreto. Tra parentesi, il teorema di Gödel riguarda proprio l'aritmetica, anche se poi può essere applicato a qualsiasi sistema formale che... No, non divaghiamo. Prendiamo l'aritmetica. Hai appena detto che un teorema è vero se può essere dimostrato. E hai anche detto che dimostrare un teorema significa sostanzialmente riconoscere, applicando le regole di inferenza, che il suo enunciato è già implicito - certe volte molto implicito - negli assiomi di partenza, i quali altro non sono che un insieme di teoremi che uno prende per buoni senza bisogno di dimostrazione. Sei d'accordo?

- Ecco, non l'avrei detto proprio così, ma credo di essere d'accordo.

- Bene. Adesso arriva la domanda. Tutto ciò che è dimostrato, in aritmetica, è vero, e fin qui non ci piove. Ma sarà poi vero che tutto ciò che è vero può essere dimostrato? Stai attento: ricordati che per "dimostrare" stiamo intendendo "dimostrare all'interno del sistema". Cioè partire dagli assiomi, o da teoremi già dimostrati, che poi è la stessa cosa, applicare le regole di inferenza, arrivare al teorema da dimostrare.

La mia espressione forse suggerì a Carlo di spiegarsi meglio.

- In altre parole, se tu fossi un essere sovrumano... Un matematico perfetto. Un angelo. Ecco, sì, un angelo. Se tu fossi un angelo col pallino della matematica, e avessi a disposizione tutto il tempo del mondo, tutta l'eternità, e fossi così bravo - in quanto angelo - da saper applicare alla perfezione le regole di inferenza, sapresti dirmi se una certa proposizione, ovvero una certa affermazione aritmetica, è vera o falsa? Qualsiasi proposizione? Ricorda che puoi usare solo gli assiomi e le regole di inferenza.

I bicchieri nel frattempo erano di nuovo a secco. Per guadagnare tempo li riempii. Anche le due ragazze stavano seguendo attente il nostro discorso.

- Cioè mi stai chiedendo... Un angelo... Cioè un calcolatore perfetto. È questo che intendi?

Il sorriso che illuminò il volto di Carlo era dovuto solo in parte, credo, al tasso alcoolico del suo sangue:

- Bravo! Quello era il passo successivo. Allora, se io domandassi a te, angelo matematico, calcolatore perfetto: "questa proposizione è vera o no?", considerando che potrei scegliere una qualsiasi proposizione: tu saresti in grado di rispondermi? Avresti tutto il tempo del mondo a disposizione. È un sacco di tempo, se ci pensi bene.

- Io... Credo di sì. Certo. Perché no? Se fossi un calcolatore perfetto, saprei certamente dirti se una proposizione è vera o falsa. Basta applicare le regole, no? E siccome sono perfetto, e so tutte le regole e le so applicare benissimo, sarebbe solo questione di tempo. Punto.

Per manifestare fisicamente quel punto tirai una gran sorsata dal bicchiere, fiero di me stesso, sicuro di aver dato la risposta giusta.

- Quindi, senza saperlo, sei un formalista duro e puro. Hilbert sarebbe stato fiero di te.

- Chi?

- Hilbert. Era un matematico. La pensava proprio come te. Pensava che la matematica potesse essere ridotta a un programma di calcolatore, infinitamente complicato, che applicando tutte le regole di inferenza alla perfezione sarebbe riuscito a decidere la verità o la falsità di qualsiasi proposizione. All'epoca non esistevano i calcolatori, è ovvio: sto parlando dei primi decenni del secolo. Ma il concetto era quello, più o meno.

- Sono in buona compagnia, quindi - dissi ridendo.

- Ottima, ottima, certo. Sfortunatamente per voi, è arrivato il Signor Perché...

- Il Signor Perché?

- Herr Warum... Era il suo soprannome, quand'era piccolo. Kurt Gödel.

- Ah, già: finalmente arriviamo a Gödel. Be', ma cos'altro c'è da dire: la faccenda è chiusa, no?

- No.

- Come no?

- No, certo che no. Si dà il caso che Herr Warum sia riuscito a costruire una proposizione indecidibile...

Un'altra sorsata vuotò il mio bicchiere. Chiamai il cameriere agitando la brocca ormai prosciugata:

- Un'altra, per favore - e poi aggiunsi, rivolto a Carlo:

- E tu adesso, finalmente, mi spieghi cosa significa indecidibile.

- È molto semplice: incredibilmente semplice. Una proposizione indecidibile è una proposizione che non può essere dimostrata all'interno del sistema... Cioè una proposizione di cui tu, angelo matematico, calcolatore divino e perfetto, non saresti in grado di decidere la verità o la falsità. Un rigore indecidibile è un rigore che non può essere parato nemmeno dal miglior portiere del mondo... Nemmeno da un portiere angelico.

Il cameriere arrivò sollecito con i rifornimenti.

- Gödel costruì questa proposizione... Non voglio spiegarti la numerazione di Gödel, adesso, sarebbe veramente troppo complicato. Chiamiamola G, per essere originali.

E con la penna tracciò una grande G corsiva sulla tovaglia di carta che copriva il tavolo.

- Ecco, c'è questa G... e la proposizione G dice: "io non posso essere dimostrata".

Un'onda di stupore si propagò lungo il tavolo:

- Come si fa a dire una cosa del genere? - chiese la ragazza che sedeva accanto a Carlo, quella che si era dichiarata amante della matematica. E poi aggiunse confusa:

- Voglio dire... È una stupida formula, no? Stavi parlando di aritmetica. Come fa una formula a dire: "io non posso essere dimostrata"?

Carlo rise, con gli occhi che emettevano lampi di gioia:

- Certo, è una stupida formula che dice: "io non posso essere dimostrata". Può essere costruita. Esiste. Gödel ha mostrato il modo di costruirla. Non pretenderete mica che vi spieghi come, vero?

- No, no - dissi mentre intravedevo un barlume di salvezza, un modo di averla vinta su quelle fumisticherie matematiche - ci fidiamo di te, e diamo per buono che G sia una formula matematica che affermi la sua indimostrabilità: ma adesso? Va bene, abbiamo questa frase, no, questa formula, questa proposizione, insomma, che dice di non poter essere dimostrata. E allora? Perché dovremmo fidarci di quel che dice questa formula G? A quel che ne sappiamo, potrebbe tranquillamente mentire, e noi potremmo essere in grado di smascherare il suo trucco...

- Ma è proprio questo il trucco! - disse Carlo, che non riusciva più in nessun modo a frenare i suoi sorrisi. Pensavo che gli si sarebbe slogata la mascella:

- Se G mente, dice la verità! E se dice la verità, mente. È proprio come la storiella del cretese, quello che afferma che tutti gli abitanti di Creta mentono sempre...

Lo confesso: stavo per arrendermi.

- Insomma, si può provare, come Gödel ha provato, che se fosse possibile dimostrare G, allora sarebbe possibile dimostrare anche non-G, cioè il suo contrario. Cioè G implica non-G, e viceversa.

Lo dissi:

- Mi arrendo. Non ti seguo più. Lascia stare, non ci capirò mai niente.

- Ma no, non ora! Siamo quasi arrivati. Ascolta: non ti sembra un po' strano un sistema formale in cui puoi dimostrare sia una cosa che il suo contrario?

- Effettivamente - ma lo dissi solo per farlo contento.

- Certo: un sistema del genere è incoerente. In un sistema incoerente puoi dimostrare tutto e il contrario di tutto. Quindi ci sono due possibilità: o l'aritmetica è incoerente, e allora pace, in linea di principio possiamo dimostrare ciò che vogliamo, con scarsa utilità. Oppure l'aritmetica è coerente: ma allora G è indecidibile. Non potremo mai sapere se è vera o falsa. Non potrai mai parare il rigore. Se l'aritmetica è coerente, esistono proposizioni aritmetiche indecidibili. Capito?

Mi sembrava di aver capito. Soprattutto mi sembrava di essere giunto alla fine di un martirio:

- Sì, sì, ho capito: bello. Interessante.

- Ma mica ho finito.

- No?

- Certo che no... Sei tu che me l'hai chiesto: adesso sopporti in silenzio anche il resto. G è vera.

- Come?

- G è vera. Gödel ha dimostrato anche che G è vera.

- Ma... Aspetta, scusa: hai appena detto che non possiamo sapere se G è vera o falsa...

- È vero, l'ho detto. Ho barato un po'. Quel che intendevo dire è che tu, ammettendo che tu sia un perfetto angelo calcolatore... l'Angelo di Hilbert. Ecco, voglio chiamarti così. Se tu fossi l'Angelo di Hilbert non potresti mai decidere se G è vera o falsa. Sei un angelo, e hai a disposizione tutto il tempo del mondo, e un'infinita sapienza matematica. Ma è una sapienza sterile, perché non puoi uscire dal sistema. Puoi solo applicare - perfettamente, senza mai uno sbaglio - le regole di inferenza. Non potrai mai dimostrare la verità o la falsità di G. Eppure Gödel ha dimostrato che G è vera, cioè che non può essere dimostrata all'interno del sistema formale. Per dimostrare G bisogna uscire dal sistema. L'aritmetica è coerente ma incompleta. Per dimostrare G, essere un angelo non è sufficiente: bisogna essere l'Angelo di Gödel...

A quel punto avevamo esaurito anche l'ultimo goccio della seconda caraffa di vino. Una pausa prolungata era tutto ciò di cui avevamo bisogno. Lasciammo gocciolare i minuti in silenzio, e improvvisamente fu tardi, e poi ci fu il giorno dopo, e poi la partita, e poi il rigore: una cosa dietro l'altra, senza respiro. Sono passati quindici anni, ma ricordo perfettamente quella sera passata in osteria, e i nostri discorsi. Allo stesso modo in cui ricordo lo sguardo assassino di Giorgio mentre prendeva la rincorsa. L'Angelo di Gödel... Come se davvero la matematica potesse aiutare a parare i rigori. Quindici anni fa il pallone entrò in rete con disinvoltura, indifferente al teorema di Gödel. Giorgio consumò la sua vendetta in maniera fredda, da vero professionista, tradito forse solo dallo sguardo colmo di risentimento. Lo stesso sguardo che mi ritrovo davanti adesso, mentre l'arbitro finalmente si decide ad allontanare Carlo, la mia ultima ancora di salvezza. Giorgio posiziona il pallone sul dischetto: mi avvicino.

- Chi non muore si rivede, eh? - dice piano.

Poi alza lo sguardo e mi fissa dritto negli occhi col ghigno che ormai ho imparato a odiare. Capisco che una vendetta non gli è bastata: ne vuole un'altra. Non rispondo niente: tengo la mano destra chiusa a pugno davanti a lui, e lentamente sollevo il medio. Col guantone fa ancora più effetto. L'arbitro sta ancora litigando con Carlo, non può vedermi.

- Sì sì - dice il ghigno che non si spegne - stai tranquillo, te lo infilo dritto anche stavolta, ti farà male come al solito, anzi, forse di più.

L'arbitro mi caccia indietro. Torno verso la porta, torno a scavare nel solco tra i pali scrostati dal vento e dalla pioggia, e il silenzio si fa immenso. E ho ancora il tempo - quanto tempo abbiamo noi portieri: quasi tutto il tempo degli angeli - di guardare verso gli spalti. C'è un punto colorato, accanto a una sagoma grigia appena più grande: mio padre ha portato la nipote a vedere il papà che si rotola nel fango. È la prima volta che gioco una partita davanti a mia figlia. La prima e l'ultima volta, visto che poi smetto. Dopo la doccia, le andrò incontro, e lei sorridendo mi salterà in braccio. Mio padre mi guarderà con la sua faccia onesta e dura d'operaio in pensione, e non aprirà bocca, come al solito. Mia figlia riderà, e mi dirà:

- Ha ragione la mamma, giochi come i ragazzini per la strada sotto casa!

- Sì, lo sai che la mamma ha sempre ragione, gioco come i ragazzini.

- Però sei buffo con quei pantaloncini... E sei bravo, vero papà? Sei il più bravo portiere del mondo, non è vero? Io ti ho visto mentre paravi, volavi proprio come un angelo! Si è accorta che la sto guardando, agita la manina.

- Sì, volavo proprio come un angelo: me l'ha suggerito lo zio Carlo, mi ha detto che dovevo uscire dal sistema...

- E che significa, papà?

- Non lo so, amore, non lo so...

Giro la testa: Carlo e lì, oltre il disegno dell'area, muto. Giorgio, quindici metri davanti a me, è solo un ghigno odioso. Decido di guardare il pallone, undici metri davanti a me, e di continuare a guardarlo finché non sarà al sicuro nei miei guantoni, quel bastardo. Uscire dal sistema: è una parola. Che vuol dire? L'arbitro fischia, Giorgio inizia la rincorsa. Io non so niente di matematica, di filosofia, di teoremi, di angeli, di Gödel: sono solo un ragazzino troppo cresciuto che gioca a pallone. Ma una cosa, durante il tempo infinito che ha saldato il novantacinquesimo al novantaseiesimo minuto di questa partita, credo d'averla imparata: sopra l'inconcepibile danza degli atomi che mutano indosso la maschera del portiere, e quindi sono un portiere. E come un portiere fletto i muscoli delle gambe, mi abbasso, prendo lo slancio, mi tuffo: come un angelo senz'ali.




 
Zeuthen, dicembre 1997 - gennaio 1998