l'assenza



Mi trovavo sul terrazzo e guardavo il lento sciogliersi del tramonto dietro un velo di nuvole appiattite dalla prospettiva. Il suono del citofono mi ha risvegliato: e delle contemplazioni che occupavano la mia mente non saprei ora recuperare il senso. Preso dal difficile travaglio di pensieri inutili, sono andato ad aprire il portone senza neanche rispondere, così come mi trovavo, in mutande, col bicchiere di vino in mano. 

Dopo, quando ho aperto la porta, ho capito subito. Luisa non s'era mai avvicinata, prima, a casa mia. Neanche per sbaglio. Ho indovinato forse dallo sguardo tirato e fisso, dalle occhiaie virate al viola, dall'ostinata incapacità di piangere. Ho pensato che non l'avevo mai vista così bella. Ho provato subito un moto di pentimento, non appena l'ho vista cedere per un attimo: un movimento impercettibile della spalla, e la borsetta è crollata giù. È rimasta a penzolare dal braccio come un impiccato. 

Giorgio, ha detto poi inutilmente con un filo di voce. Giorgio è morto. Senza rendermene conto, ho cominciato a fissare l'attenzione su particolari irrilevanti: il movimento oscillatorio della borsetta di Luisa, la posizione obliqua del tappetino davanti la porta di casa, la pianta sul pianerottolo che aveva bisogno di acqua e di luce, alcune macchie d'umidità, proprio sopra la porta dell'ascensore, che sembravano assumere le forme fantastiche di un'armata a cavallo lanciata contro il nemico, scrostature rugginose sulla ringhiera delle scale. Ma gli occhi di Luisa mi squadravano inesorabili, e sono stato costretto a guardarla; a ripetere meccanicamente: è morto; è morto. Poi ho detto entra, un momento e sono pronto. 

Ho sentito la mia voce chiedere in un tremito: e Carlo? Carlo è lì. Non siamo riusciti a smuoverlo. Sai com'è fatto. Ha passato tutta la notte seduto in poltrona, in soggiorno: così almeno mi ha detto la madre di Giorgio. Il suo sguardo mi evitava mentre cercavo di infilare alla meno peggio la camicia dentro i pantaloni, subito prima di stringere la cinghia. 

Appena scesi in strada ho cercato di accendere una sigaretta, senza riuscirci. Mi tremavano le mani. Luisa ha detto sono qui con la macchina. Poi ti riaccompagno. Ho scosso la testa come a dire sì, grazie, respirando fuori il fumo della prima boccata, sollevato al pensiero di non dover guidare. Mi ha portato attraverso Roma: i lampioni cominciavano ad accendersi, circondati dal silenzio. I marciapiedi erano pieni di gente, e in testa mi giravano due sole parole: è morto, è morto. Luisa guidava attenta, meticolosa, senza correre. Nessuno, in ogni caso, ci stava aspettando. 

Giorgio abitava a Monteverde, e da casa mia c'è voluto un quarto d'ora buono, nonostante il traffico svogliato. Luisa ha trovato parcheggio proprio sotto casa di Giorgio. Appena arrivati davanti al portone ho detto no, non adesso, non ce la faccio, ho bisogno di camminare, andiamo, andiamo da qualche parte. In realtà non avevo nessuna voglia di andare da nessuna parte. Dovevo solo camminare. Non mi spaventava stare in piedi: un minimo di concentrazione era sufficiente. Mi terrorizzava l'immobilità. Riuscivo a camminare senza fatica, ritrovando una specie di equilibrio nella dinamica del movimento. Un passo, e poi un altro, un piede avanti, e poi l'altro, senza fine. Ma l'idea di stare fermo in piedi, fermo, piantato sulla terra con le mie gambe ferme, mi riempiva il cuore di angoscia. Era molto più facile camminare, e camminare, sempre più velocemente: Luisa ha dovuto strattonarmi per un braccio. Non ha detto una sola parola: ha infilato la mano tra le costole e il braccio, mi ha afferrato, ha trattenuto il mio accenno di corsa come un domatore. E io ho capito: dove stai scappando, ha detto la sua mano. Non puoi scappare. Ho cercato di andare più lento, e più i miei passi rallentavano e più accelerava il mio cuore, e i miei pensieri si addensavano sulle due parole proibite. Siamo finiti in un bar, abbiamo preso un Martini, e io ho evitato accuratamente i suoi occhi.

 Alla fine tutti gli espedienti si sono rivelati largamente inutili, e ci siamo ritrovati di nuovo davanti al portone. Due amici di Giorgio che conoscevo di vista e che prima non avevo notato leggevano il Corriere dello Sport e discutevano con garbo di non so quale superflua sostituzione al novantesimo. Li ho salutati alzando la mano, e loro hanno risposto con un cenno comprensivo e muto della testa. E subito dopo Luisa ed io salivamo le scale nello stesso silenzio irreale che ci aveva accompagnato fin da casa mia. I colpi secchi delle nostre scarpe sul marmo risuonavano nel vuoto, e all'improvviso mi sono reso conto che Luisa era lì accanto a me, indifesa, stanca, triste: e che sarebbe bastato un gesto, più lieve di una carezza, e la distanza che ci separava, che ci aveva sempre separato, sarebbe svanita in un soffio. Un gesto, un tocco leggero sulla spalla, e sarebbe finalmente planata tra le mie braccia. Avrei stretto il suo corpo scosso dai singhiozzi, in precario equilibrio sulle scale buie: le avrei passato una mano tra i capelli, sulla nuca, sulle guance rigate dalle lacrime. Avrei respirato l'odore del suo collo, le avrei detto sottovoce parole dolci all'orecchio, forse l'avrei baciata sulla fronte. 

Il sogno è svanito non appena una zia di Giorgio, lo sguardo duro e cattivo di chi ha la coscienza a posto, di chi avrebbe scommesso due anni di pensione su come sarebbe andata a finire, ci ha aperto la porta. Non sono riuscito a immaginare nemmeno una lacrima sul suo volto rancido di zitella. Dentro la casa si avvertiva un odore di vecchio, di stantio, di carta strappata alla polvere da un'inutile accumulazione di fatica. L'ingresso sembrava la scena di un film, tanto era grande e pieno di luce. Il volto della zia di Giorgio si è animato un secondo nel salutarmi con deferenza e nello sciogliermi il cappotto dalle spalle: poi è ripiombato nel grigiore del ve l'avevo detto, io. Dal soggiorno arrivavano singhiozzi di Carlo. Piangeva senza ritegno, come un bambino colpito nelle sue illusioni più care. Bisogna farlo bere, ho detto a Luisa, pensaci tu. Lei si è sfilata la giacca e ha detto vai, vai, non ti preoccupare. 

Mi sono addentrato per il lungo corridoio (conoscevo bene quella casa), ho scavalcato senza quasi rispondere i saluti sommessi di alcuni parenti di Giorgio, ho svoltato a sinistra, sicuro di trovarlo nella sua camera, senza che nessuno me l'avesse detto. Infatti era lì. Mi sono affacciato nella stanza in penombra: sul letto più lontano dalla porta Giorgio cominciava il suo lento cammino verso l'eternità silenziosa. Sul letto di fronte, quello lasciato sempre libero nell'improbabile caso in cui il fratello di Giorgio avesse deciso di tornare all'improvviso, la madre guardava l'ombra che si andava allungando attraverso le persiane semichiuse, dondolandosi meccanicamente e stringendo nelle mani ossute un rosario. 

Giorgio sembrava galleggiare nell'oscurità, tanto era pallido e distante. Mi sono fatto forza e sono entrato, ma sono stato subito costretto a sedermi sul letto accanto alla madre. Lei si è girata verso di me e ha sorriso dello stanco rassegnato sorriso dei vecchi: ho preso le sue mani tra le mie senza dire niente. Avrei voluto fare qualcosa, tradurre in gesti la mia angoscia: sfiorare la fronte di Giorgio, parlargli finalmente come a un fratello vero, tentare di svegliarlo dal suo sonno inconcepibile. Invece sono rimasto lì, fermo, con un senso di vertigine che m'inghiottiva, con una magrezza di mani chiuse nelle mie mani e un braccio della croce del rosario che mi pungeva il mignolo. 

Mi sono ritrovato a cercare di contare gli anni di Giorgio, e con raccapriccio mi sono reso conto che erano stati pochi e magri, come le mani che stavo stringendo nelle mie. Ero in una stanza ormai buia, in cui l'oscurità sembrava venir su dal pavimento come una massa informe di marmellata andata a male, e nello stesso tempo mi ritrovavo nella confusione smodata di una festa di capodanno, Carlo vestito di chiaro e Giorgio in un completo spezzato che amava perché regalo postumo di un padre ormai dimenticato. Mi piaceva uscire con Carlo e Giorgio, assistere alla manifestazione chiassosa del loro amore duro di carne e sangue, e al contempo tenero come solo gli amori adolescenti sanno essere. Quanto più la loro amicizia mi era rimproverata, tanto più mi accorgevo di desiderare la loro presenza, le loro serate fatte di un nulla condiviso: di cui forse loro (sì, ho la presunzione di crederlo) non avrebbero mai saputo niente, se non fosse stato per me. Li guardavo vivere, mi contentavo del riflesso della loro vita, l'amplificavo e la rendevo vera ai loro stessi occhi. 

È stata Luisa a complicare le cose. Senza colpa, forse. Era facile, troppo facile amare Giorgio, la sua contorta ingenuità, i suoi silenzi improvvisi e carichi di presagi. Carlo ha capito subito: senza farsi da parte né inscenare tragedie ha accettato una posizione intermedia, reclamando di tanto in tanto, con discrezione ma non senza fermezza, i suoi diritti naturali di precedenza. Per me è stato più difficile accettare la bellezza di Luisa. Uscivamo spesso in quattro, giocando a fare le coppie: e forse tutto, per me, come al solito, è cominciato come un gioco incosciente di cui non intuivo i pericoli. Quando mi sono accorto dei lacci che mi stringevano al collo era ormai troppo tardi per tornare indietro e fare finta di nulla. 

Mi ha scosso un rumore di sedie spostate in una stanza vicina. La madre di Giorgio ha sospirato forte, si è liberata dalla mia stretta disperata e lentamente, con i gesti di chi ormai non aspetta più niente di nuovo, ha acceso una lampada sul comodino. La luce improvvisa, per quanto fioca, mi ha ferito gli occhi. Sono stato costretto a guardare il volto scavato di Giorgio, le mani pallide e lunghe incrociate sul petto, le scarpe nere, lucidate per l'occasione. Ho chiuso gli occhi e l'ho rivisto mentre ballava con Luisa sotto lo sguardo attento di Carlo. Ho rivisto i suoi movimenti fluidi di ballerino naturale, la risata facile di quando beveva troppo, l'ostinazione con la quale riusciva a lasciarsi vivere, a farsi scorrere il tempo sulla pelle senza mai pensare un secondo a sé stesso, alle incognite del futuro, senza mai aggrapparsi a nessuna speranza, a nessuna illusione, a nessun rimpianto. La facilità con cui riusciva a conquistare l'affetto e l'amore degli altri mi sorprendeva ogni volta, e ogni volta, alla luce degli intrecci che si susseguivano, riconsideravo con ammirazione e tenerezza l'incrollabile fiducia di cui Carlo lo circondava, mentre lo affidava al mondo sicuro che il mondo gliel'avrebbe restituito intatto. Di Luisa invece ammiravo sopra ogni altra cosa il solidissimo senso della realtà, la sua capacità di non lasciarsi fuorviare da niente e nessuno nell'interpretazione delle cose. Per lei ogni cosa era univoca, e aveva un rapporto uno a uno con gli elementi dello schema di cui si serviva per inquadrare il mondo. La mia ammirazione derivava senz'altro dal contrasto con la mia straordinaria capacità di perdermi in esegesi poetiche, laddove anche la prosa sarebbe stata più che sufficiente. I miei sterili tentativi di trovare un senso riposto nel mondo, un'analogia illuminante che collegasse ogni cosa a ogni altra cosa (la tigre alla rosa, ed entrambe ai loro rispettivi nomi) si risolvevano sempre in una fuga inarrestabile dalla realtà. 

La madre di Giorgio ha sospirato ancora una volta, in piedi davanti a me. E' stato impossibile sottrarmi all'attrazione gravitazionale dei suoi occhi umidi e dolorosi. Ha cominciato a parlare con lenta, inesauribile disperazione: aver immaginato questa scena tante volte, ha detto compostamente, senza nemmeno battere le ciglia, non la rende meno cruda e meno irreale. Averlo saputo da tempo, averlo già immaginato lì dov'è ora, disteso, immobile, indifferente. Ha portato un fazzoletto alla bocca e finalmente ha chiuso i pozzi neri dei suoi occhi: finalmente ha emesso qualcosa di simile a un singhiozzo, a una nota stonata. 

Sono riuscito ad alzarmi in piedi solo a costo di una grande fatica. Non senza imbarazzo, ho circondato le sue fragili spalle di vecchia con le mie braccia. Lei per un momento è sembrata rannicchiarsi, come a voler sparire. Subito dopo Luisa s'è affacciata alla porta. Andiamo, ho detto alla madre di Giorgio, venga di là con noi. Lei si è lasciata guidare docilmente. Seguiva, credo, il cammino di minimo dolore, cercando di non opporre resistenza a nulla: di lasciarsi trasportare dall'inerzia lungo la geodetica di una vita che non chiedeva ormai altro che oblio e pace. 

Poco lontano dalla camera in cui Giorgio veniva sommerso da ondate di oscurità silenziosa, un flusso discreto di persone mormorava condoglianze uscendo di casa. Nel soggiorno rimaneva solo Carlo, bicchiere barcollante in mano e bottiglia ormai vuota sul tavolino accanto: l'acidità della zia che aveva accolto Luisa e me lo osservava con lo sguardo attento dell'entomologo che infila lo spillo nel corpo già insensibile della farfalla da collezione. Lo portiamo a casa, ho chiesto sottovoce a Luisa. Lei mi ha guardato di sottecchi. Si sta per addormentare, lasciamolo qui. Ha lanciato uno sguardo muto alla madre di Giorgio, che ha risposto annuendo con la testa. 

Subito dopo, quasi senza che me ne accorgessi, eravamo fuori: un vento teso, imprevedibile, ha cominciato a schiaffeggiarmi la faccia, a seccarmi gli occhi: e io lo bevevo avido di vita. Siamo saliti in macchina, e io ho detto a Luisa non ho voglia di tornare a casa. Neanch'io, ha risposto lei. Ha cominciato a guidare lentamente attraverso vie che conoscevo benissimo ma di cui stentavo, nella mia mente, a ricostruire la topologia. Continuavo a chiedermi cosa è cambiato: e non riuscivo a trovare una risposta ragionevole. Poi siamo entrati in un locale buio e pieno di fumo: in un angolo una band mormorava con circospezione un jazz d'atmosfera. Luisa ha scelto un tavolino defilato: abbiamo ordinato due tramezzini, due birre scure. Luisa mangiava lentamente, con attenzione, dondolando la testa al ritmo della musica. Io ho lasciato il panino nel piatto: ho finito la birra con tre o quattro rapide sorsate, mentre rivedevo Luisa in altri locali, sotto luci molto più intense, sfiorare con le anche le gambe di qualche partner occasionale, del possibile amante di una sera. Ho sentito l'improvviso bisogno di strizzare gli occhi per cercare di cacciare le immagini che si accavallavano nel mio cervello. A cosa pensi, mi ha chiesto. A niente, ho risposto, ma lei, ne sono sicuro, ha capito che non era vero.

 Ha sorriso con quel suo strano modo di sorridere, che somigliava a una bestemmia, a un colpo di vento, a una dichiarazione di guerra. Che farai adesso, le ho chiesto. Che intendi, ha risposto abbassando gli occhi, nell'improvviso spegnersi del sorriso. Cosa vuoi che faccia. Continuerò a vivere. Ha fatto sparire l'ultimo rimasuglio del suo tramezzino, e al contempo ha afferrato il mio. Tanto tu non lo mangi mica, ha detto: lei conosceva già tutte le risposte, anche quelle senza domanda. Ho fermato il cameriere e ho chiesto un'altra birra. 

La mattina dopo ero solo. La notte appena trascorsa mi sembrava lontana come un orizzonte osservato attraverso le lenti di un binocolo rovesciato. Erano passati mesi, oppure anni, dalla morte di Giorgio. Subito dopo ho sentito l'odore di Luisa sul cuscino, un tenue residuo di calore - ma forse l'ho solo immaginato - tra le lenzuola: ho cercato di ricostruire l'impronta del suo corpo sul mio, ma non ci sono riuscito. Neanche la minima traccia, a parte forse il suo odore sul cuscino, rimaneva a testimoniare la disperazione con cui avevo trovato il suo abbraccio. Senza nessuno sforzo, invece, ho assistito alla proiezione del funerale che si sarebbe svolto di lì a poco. Ho visto me stesso, sguardo duro e concreto, sorreggere Carlo, smorzare i suoi singhiozzi infantili con la fermezza della mia nuova solidità, ascoltare la predica annoiata del prete di turno, evitare con cura il nonsguardo della madre di Giorgio, seguire a piedi il carro funebre fino al cimitero, piegarmi sulle ginocchia per osservare da vicino l'eterno oscuro antro in cui la bara sarebbe stata calata. Per sempre. Nessuno, tranne me, si sarebbe accorto dell'assenza di Luisa. 

Mi sono alzato su gambe malferme, sono andato in bagno e poi in cucina. Sulla credenza era posato un foglio piegato in due. Ho preparato la caffettiera, l'ho messa sul fuoco lento, mi sono seduto. Non avevo nessuna fretta di leggere il foglio. Sapevo già tutto.