effetto tunnel



Un tavolo ovale in mezzo alla sala, coperto da un piano di cristallo. Un raggio di sole che passa nella fessura tra le tende. Fuori un’enormità di palazzi. Una periferia bagnata dal pomeriggio. Una noia sottile che invade la città immersa nel dopo pranzo. Un silenzio. Dentro il tavolo ovale. Le tende. Lo scherzo del raggio di sole. Un ragazzino che osserva minuscole particelle di polvere danzare nel fascio di luce. Pianeti lontani della sua fantasia. Lui, dio in sedicesimo di un universo silenzioso, osserva le traiettorie che evolvono nello spazio-tempo. Basta una nuvola leggera, l’indizio di un cumulo, il sospetto di un cirro lezioso: e l’universo si sfalda, s’annulla, torna nel possibile. La nuvola si sposta: un nuovo inizio emerge lentamente dal non essere, nuovi pianeti d’orbita caotica. Il ragazzino si chiede perché non precipitino giù, come tutte le altre cose. Quale magia li lasci levitare sospesi nel vuoto del pomeriggio. Ricorda le fotografie del suo libro preferito: le croste di Mercurio, la lucentezza di Venere, le distese azzurre della Terra, l’assurdo arancione di Marte. Altri misteri orbitanti. Non cadono, anche se il Sole, e lui lo sa bene, cerca di attirarli nella sua fornace incandescente. Anche loro, i pianeti veri, non cadono. Il ragazzino non sa il perché. Accetta il fatto. Sa che qualcuno lo ha capito: e aspetta fiducioso il momento in cui potrà finalmente guardare in faccia la cruda formula, dichiararla vinta. Avverte confusamente – senza comprenderlo veramente – un sentimento d’orgoglio. Solo molti anni più tardi capirà che la vittoria del singolo significa vittoria per l’umanità intera. Che la conquista di un solo uomo è in realtà la conquista di tutti. Comprenderà quel momento d’orgoglio. Adesso non può capire. Guarda. E basta. Guarda minuscoli pianeti – non cadono giù – danzare enigmatici nel raggio di sole. Si stacca dalla finestra, improvvisamente annoiato. Canticchia, accenna un salto, s’avvicina al tavolo, allo zio che studia. S’alza in punta di piedi. Il libro, un po’ scostato, è aperto a metà. Sul quaderno lo zio traccia strani disegni. Due righe dritte s’intersecano perpendicolari: una curva esce morbida dall’asse verticale, si alza, poi s’abbassa fino a confondersi con la riga orizzontale. Una freccia, passando sotto la collina, attraversa la curva da sinistra a destra. Indica una pallina, un cerchietto vuoto. Il ragazzino capisce che la pallina è un oggetto che corre. La freccia è la sua velocità, la sua direzione. La pallina sembra scivolare lungo il dorsale destro della collina. Si perderà lontano. Nessuno la fermerà. Cosa stai facendo, chiede il ragazzino. Studio l’effetto tunnel, risponde lo zio. E cos’è l’effetto tunnel. Lo zio posa la penna sul tavolo, si stropiccia gli occhi stanchi, gira la testa, sorride. Scompiglia i capelli del ragazzino. E’ un po’ difficile, da spiegare. Il ragazzino sembra deluso. Arriccia il naso. E provaci, dài, chiede. Provaci, zio. Lo zio sembra pensarci su. Riprende la penna in mano. La posa, si soffia il naso. Ecco, dice, hai una pallina di vetro nella tazza della colazione, quella che sembra la metà di un pallone da calcio, quella rotonda. Sì, dice il ragazzino, la tazza grande. E di palline di vetro ne ho tante. Ecco, fai oscillare la tazza, a destra e a sinistra. Che fa la pallina? Dondola, risponde il ragazzino. E a un certo punto, dice lo zio, la pallina esce fuori dalla tazza. Sì, zio, se agito la tazza abbastanza forte. Esce fuori. E perché? chiede lo zio. Perché… perché l’ho fatta andare forte, così forte che supera il bordo. Ecco, riprende lo zio, adesso immagina una pallina speciale, e una tazza speciale. La tazza si chiama atomo radioattivo, dice indicando la depressione della curva vicino alla riga verticale. La pallina si chiama particella alfa, dice indicando il corpuscolo che si sta perdendo verso l’estremità del foglio, inseguita dalla freccia. La pallina si agita dentro la tazza, ma non tanto forte da poter uscire. Non può uscire, perché la sua velocità non è abbastanza grande. Hai capito? Certo, zio. Ecco: la pallina non può uscire. Eppure a un certo punto esce lo stesso, dice indicando il puntino inseguito dalla freccia. Non può scavalcare il bordo: è come se scavasse un buco nella tazza. Entra nel buco ed esce, anche se la sua velocità non è abbastanza alta. Scava un tunnel nei fianchi della tazza, e lo usa per evadere. E’ l’effetto tunnel. E come fa a scavare il tunnel? chiede il ragazzino. Questo non lo sa nessuno, risponde lo zio. Lo fa e basta. E allora tu cosa stai studiando? Lo zio sospira. Anche se non sappiamo come, risponde, sappiamo che lo fa, con che probabilità esce. Possiamo rispondere a tante altre domande. Usare queste risposte per costruire cose. Che funzionano: anche se non sappiamo tanto bene come.

Il ragazzino se ne va imbronciato. Getta ancora uno sguardo alla miriade di minuscoli pianeti che danzano impazziti nel raggio di sole, senza cadere giù. Prende una pallina di vetro nella sua scatola dei giochi. Va in cucina, si arrampica su una sedia, trova la tazza rotonda dentro lo scolapiatti. Fa oscillare la pallina, sperando di vederla evadere attraverso il tunnel. Fuggire verso l’infinito. Ancora non lo sa, ma una certa parte del suo destino è segnata per sempre.