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Casteldurante nel sec. XV

Il secolo XV segna un’ era novella pel nostro paese, la liberazione della Comunità durantina da tutte le pastoie che da oltre cento anni la tenevano soggetta ed asservita. Reggeva le sorti di tutta la Massa Trabaria il Senatore di Roma nostro compatriota Pierfrancesco Brancaleoni. Potente per censo e per alte aderenze, colto, sagace, amantissimo del suolo natale vedeva amaramente decaduta dall’antico splendore l’Abbazia di S. Cristoforo, una volta così doviziosa e legittima tutrice della libertà dei popoli dell’alto Metauro. Data in Commenda ad alte personalità ecclesiastiche forestiere, queste ne sfruttavano le tante rendite senza recare alcun vantaggio al popolo. I loro agenti facevan man bassa su tutto, lasciando perfino la Chiesa Abbaziale quasi derelitta e sfornita del necessario al culto divino. Chiusi costoro ad ogni senso di carità tiranneggiavano gli affittuari, solleciti soltanto di riscuotere gli annui canoni e ad aumentarli a loro arbitrio. Da qui liti interminabili e infinite querele del popolo angariato. Il Brancaleoni, da accorto politico, attese che il nipote Ermanno, poi Vescovo di Imola, assumesse le redini dell’Abbazia e, in pieno accordo con lui, si stabilì che il Monastero, fatta completa cessione di tutti i diritti di canoni enfiteutici e servitù tanto nella Terra come nel contado, ricevesse in compenso e finale tacitazione dalla Comunità durantina terreni situati nelle parrocchie di Monte S. Pietro e di S. Giorgio per un valore complessivo di mille fiorini d’oro, 1402-1403. Nello stesso tempo, ad accrescere lustro e dignità alla Patria e ad esimerla anche dalla giurisdizione spirituale del Vescovo di Urbino, ottenne dal Pontefice Bonifacio IX che l’Abbate durantino pro tempore godesse dignità e diritti episcopali su Casteldurante, S. Angelo in Vado e Sassocorvaro, compensando la Mensa vescovile di Urbino per tale dismembrazione con la cessione di un podere valutato mille ducati - anno 1402. Liberata così Casteldurante da ogni esterna podestà e reso civilmente ed ecclesiasticamente sui juris sembrava avesse a godere lunga prosperità e pace, ma, la morte dell’insigne Pierfrancesco Brancaleoni avvenuta intorno al 1416, fece svanire ben presto tante care speranze, per essere passata la Signoria della Massa Trabaria a Galeotto e ad Alberico nipoti del Brancaleoni. Troppo giovani, forse ed inesperti, credettero allontanarsi dalle orme sapienti dello zio, e, battendo tutt’altra strada, sfogandosi nell’ambizione e nei vizi s’ingolfarono in pazze spese costringendo i sudditi a nuovi e gravosi balzelli. Perduto il senso dell’equilibrio, anche nell’amministrazione della giustizia s’addimostrarono crudeli, di modo che le migliori famiglie si videro costrette a volontario esilio. Ne abbiamo prova nel bando del 15 marzo 1422 intimante a quanti avevano disertato il paese di rientrare in Casteldurante entro un mese pena la dichiarazione di ribellione e la confisca dei beni. Qualche moderno storico vorrebbe scagionare i due Brancaleoni dalla taccia di tirannia ma, se i documenti pubblici di quel tempo per prudenza o timore non ne fanno motto, subito dopo la loro fuga ne parlano senza ambagi. Lo conferma chiaramente l’iscrizione marmorea a caratteri semigotici che oggi vedesi nella sala maggiore del Palazzo comunale. Le famiglie durantine costrette ad allontanarsi dal Castello s’erano rifugiate in Urbino, ben accolte dal Conte Guidantonio di Montefeltro che si era acquistato nome di ottimo principe, di valoroso condottiero ed era amato grandemente dal suo popolo. A lui gli oppressi cittadini e più gli esiliati rivolsero i loro occhi come a salvatore della Patria, e lui invocarono patrocinatore presso Roma contro le vessazioni dei Brancaleoni. Il Conte di Urbino, mortagli la piissima moglie Rengarda Malatesta, era passato a seconde nozze con Caterina Colonna nipote dell’allor regnante Pontefice Martino V. Le durantine querele presentate da Guidantonio, non potevano non far breccia presso la Curia Romana. Si aggiunge poi che le relazioni tra questi fratelli Brancaleoni, dovevano essere già abbastanza scosse, quando si rifletta che essi erano stati costretti a nominare loro procuratore D. Francesco da Macerata parroco di Sassocorvaro per difendere e sostenere i loro diritti avanti il Papa o i suoi Legati ed avanti il Tesoriere Generale delle Marche. In pochi mesi le cose precipitarono. Il 17 febbraio 1424 il Tesoriere Generale della Marca citò avanti il suo tribunale Galeotto ed Alberico quali vicari pontifici di Casteldurante del pari dell’altro loro fratello Bartolomeo signore di S. Angelo in Vado e di Mercatello per non aver pagato il censo alla Camera Apostolica dovuto per le Terre predette che di pieno diritto spettano alla Chiesa romana e questa omissione averla fatta. con animo ed intenzione di frodare il diritto della Chiesa stessa e di privarla della giurisdizione che ha sulle medesime terre. Si assegnavano loro dodici giorni di tempo pel pagamento, al termine de’ quali si sarebbe proceduto a norma di legge. La situazione fu presentata quattro giorni appresso per conoscenza ai Priori ed agli Ufficiali durantini. Sembra che i prepotenti Signori nostri non se la dessero per intesa, quando, come fulmine a ciel sereno, il 12 maggio 1424 fu spedita la Bolla Pontificia con la quale, spogliati i Brancaleoni del dominio di tutta la Massa Trabaria, se ne investiva il Conte Guidantonio di Urbino. Galeotto ed Alberico, a tal nuova, si fortificarono in Casteldurante ed il Feltresco dové ricorrere alla forza dopo aver tentata ogni via per impossessarsi pacificamente del nuovo feudo. Strinse Castel Durante d’assedio e vi stette attorno cinque giorni, finché i durantini, fuggiti nascostamente i Brancaleoni per non cadere nelle mani del Conte, patteggiarono la resa il 5 settembre 1424. Nella dedizione Guidantonio sottoscrisse e fedelmente poi mantenne ventun capitoli, per mezzo de’ quali si ottennero salve la vita e le sostanze dei cittadini, restituiti senza compenso alcuno i prigionieri, concessa amnistia generale, proclamati intatti i diritti e i privilegi dell’Abbazia di S. Cristoforo, mantenuti il tribunale civile e criminale in Durante, riservando al Conte il solo diritto d’appello. Dal tempo che tutta la Massa Trabaria era passata sotto il regime dei Brancaleoni (anno 1376) questi vi avevano annesso anche Castel Durante, anzi l’avevano quasi prescelto a capitale dell’intera Provincia convocandovi talora i parlamenti o Consigli provinciali e facendovi risiedere un Commissario detto di Massa Trabaria al cui tribunale erano deferite tutte le questioni dell’intera Massa. Così la Terra nostra, tanto per dignità come per popolazione essendo dopo Urbino la prima Terra del nuovo Feudo, avuto riguardo alla fedeltà inconcussa dei durantini alla Chiesa Romana con bolla del 13 marzo 1429, fu dallo stesso Papa Martino V  innalzata a dignità di Contea, e Guidantonio, come poscia i suoi successori, dopo il titolo di Signori del Montefeltro e di Urbino, si fecero pregio chiamarsi "Conti di Casteldurante".  Giunto appena il Conte Guido alla Signoria di Casteldurante mostrò a fatti quanto gli stava a cuore il benessere dei nuovi sudditi, non solo curando la scrupolosa osservanza dei capitoli da lui sottoscritti, ma dando eziandio valido impulso al commercio e alle arti, specialmente a quella della lana. Piissimo qual era, a veder rifiorire le cristiane virtù, chiamò nel suo Stato il grande S. Bernardino da Siena che soggiornò alcun tempo nel nostro Convento del Barco dove introdusse i Francescani Riformati di cui fu energico propagatore. Gli spodestati Brancaleoni, dopo la fuga dalla nostra Terra, si erano infrattanto rifugiati e trincerati nelle rocche di Sassocorvaro, Montelocco e Lunano e di là, pare, tenessero segreti rapporti con qualche fido durantino, lor partigiano, sì che il Baldi scrisse come, nel 1429, venne scoperta in Durante una congiura contro Guidantonio. Credo che si trattasse di sospetto e non di congiura vera e propria, giacché non troviamo documento che fosse, per tal causa, inflitta alcuna pena, mentre il Conte si tenne pago di emanare una forte grida proibendo ogni relazione e contatto coi fuorusciti. L’anno seguente, e precisamente il 27 febbraio, il Conte usci da Urbino con 600 pedoni e andò in campo contro i Brancaleoni togliendo loro Sassocorvaro, Lunano e Montelocco riducendo anche questi Castelli sotto il suo dominio. I Malatesta di Rimini che avevano sposata la causa dei Brancaleoni, se non altro perché acerrimi avversari dei Montefeltro, vivente ancora Alberico, tentarono riprendere qualcosa del perduto e per alcun tempo la sorte delle armi li favori: fu il giovanissimo figlio di Guidantonio, il grande Federico che finalmente tolse ad essi ogni velleità di riconquista del perduto dominio, abbattendo al suolo Montelocco e mettendo a ferro e fuoco Sassocorvaro. I fratelli Brancaleoni perduto ogni dominio si rifugiarono a Rimini; Galeotto forse morì in qualche scontro combattendo pel Malatesta, mentre Alberico qual privato cittadino, passò di questa vita il 28 nov. 1444. Così miseramente si spense il ramo durantino della nobilissima progenie dei Brancaleoni che, per quasi due secoli, con alterne vicende era stata vanto e signore della sua terra natale. In quanto ai durantini, tranne l’insignificante episodio della grida suaccennata, nessun altro fatto oscurò in appresso le serene relazioni coi loro nuovi Principi. Quando Guidantonio pagò il suo tributo alla morte (21 febb. 1443) il popolo nostro lo pianse amaramente e gli rese solenni onoranze funebri. Gli successe subito il figlio Oddantonio che il Conte aveva avuto dalla seconda moglie Caterina Colonna. Giovane ancora di 17 anni, pieno di vita e di belle speranze: per primo atto, riconoscendosi feudatario del Pontefice, volle portarsi con nobilissimo corteo a Siena a fare atto di omaggio e di sudditanza a Papa Eugenio IV ivi dimorante. Questi restò preso da quella florida giovinezza, dalla correttezza dei modi e dalla vivacità di spirito del novello Principe, tanto che il Pontefice non solo lo ebbe graditissimo colmandolo di onori, ma, a dargli un segno dalla sua più alta benevolenza, volle innalzarlo con pubblica e fastosa cerimonia alla dignità di Duca. Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, già fiero nemico del Conte Guido, sotto precisi pretesti tanto brigò da ottenere che due pessimi soggetti si mettessero al fianco del giovane Oddantonio. Costoro in poco tempo, diventati onnipotenti presso il Principe inesperto, lo precipitarono nell’abisso di ogni turpitudine. Lungo sarebbe il narrare le infamie, i soprusi, le angherie contro il popolo, i lamenti dei sudditi e le frementi ire. Dirò solo che, tentata l'onestà di molte nobili donne urbinati tanto dal giovane Signore quanto da’ suoi perfidi consiglieri, fu ordita una congiura di dodici persone capeggiata da un certo medico Serafini. Costoro, la mattina del 22 luglio 1444, irruppero improvvisamente nella Corte, trucidarono Oddantonio ed i suoi perfidi complici e mal consiglieri, né bastando a saziare la loro brama di vendetta il crudele eccidio, sparsasi appena la notizia nella città, la rabbia del popolo fece il resto, saccheggiando il Palazzo, mentre i medesimi cadaveri dei trucidati legati a coda di cavallo vennero strascinati per le strade della città ed orribilmente dilaniati. Crudele sì ma degno castigo a un Principe che aveva manomessi i più sacri doveri dell’alta sua carica!