Torna alla Home Page         Torna a storia e arte di Urbania         Torna a libro Casteldurante-Urbania

 

Casteldurante nel sec. XVI

Al principio del ‘500 si presenta sulla ribalta politica un tristo figuro: Cesare Borgia detto comunemente il Valentino. Costui forte dell’ incondizionata protezione di Papa Alessandro VI, dopo aver smessa la porpora Cardinalizia e datosi alle armi, gonfio di superbia e di ambizione, con mille infamie si era reso padrone della Romagna e di molte città delle Marche. Voleva ad ogni patto insignorirsi del Ducato di Urbino, non ostante le solenni promesse fatte al Duca Guidobaldo, il quale, anche nel 1502, teneva le sue milizie al servizio del Papa. Il perfido Valentino, mascherando le mosse del suo esercito, spedì duemila fanti alla volta di Cagli, dove giungendo egli stesso il 20 giugno se ne dichiarò signore. La sera stessa, per segreti messi, Guidobaldo, avvisato del pericolo, intuì subito il tradimento, e però, adunati in tutta fretta i maggiorenti di Urbino, si decise l’ immediata sua fuga oltre i confini del suo Stato. Con pochi fidi, nel buio della notte s’ avviò il Duca per le balze del Montefeltro, sfuggendo miracolosamente le mille insidie che dovunque gli aveva teso il Valentino. Dopo sette giorni di continue peripezie Guidobaldo poté riabbracciare in Mantova l'adorata consorte la quale, in previsione di pericolo, s’ era colà rifugiata. Nell’ ottobre seguente, i popoli del Ducato insorsero contro l’aborrito Borgia appoggiati dalle armi di altri signorotti anch' essi spodestati dal tiranno. Parte di queste milizie stavano pronte in Casteldurante, qualora i soldati del Valentino fossero corsi in Urbino, a frenare la scoppiata insurrezione. Nel frattempo, edotto degli avvenimenti, Guidobaldo prestamente tornava nel Ducato. Cesare Borgia a sua volta faceva avanzare i suoi soldati verso Urbino, per riconquistare la capitale perduta, ma ben presto ebbe a persuadersi che, colla violenza, avrebbe lottato a lungo e forse invano Contro popoli così affezionati al loro antico Signore, e però, giocando d’astuzia, mandò a Guidobaldo, Paolo Orsini, divenutogli fido servitore, a proporgli un capitolato pel quale sgombrando egli pacificamente lo Stato gli sarebbero rimaste le fortezze di S. Leo, Majolo, S. Agata e S. Marino, mentre egli avrebbe concessa piena amnistia ai ribelli, trattati con umanità i cittadini, né li avrebbe gravati di spese e balzelli. Il Duca nostro, vedutosi quasi abbandonato dagli alleati, dopo maturo consiglio, fece buon viso a cattiva sorte ma, prima d’accettare i patti diede ordine di atterrare tutte le rocche del suo Stato tranne quelle a lui destinate. Chiamati poscia a consiglio i migliori cittadini di Urbino fece loro intendere che non avrebbe potuto resistere al Papa e al Valentino e che, quindi, pel bene del suo popolo, si vedeva costretto ad allontanarsi una seconda volta in attesa di tempi migliori. Così la mattina dell’ 8 dicembre 1502, tra l’accoramento profondo dei sudditi, prese nuovamente la via dell’ esilio dirigendosi a Città di Castello. L’ ordine di atterrare la rocca di Casteldurante è del 30 ottobre 1502 e così suona: "Egregi dilecti nostri - Noi havremo deliberato per la experientia justa de la fedelità vostra da qui in anti in testa nostra Terra reposarne ne li cori vostri come magiore presidio quale possiamo avere per la securità nostra et vostra e stabilità et quiete del Stato nostro come inexpugnabili de omne violentia externa et di questa rocca nostra. Perché le rocche sono più presto in periculo et affanno de le terre che in custodia et salvezza remetterla a voi che la demolitate". Accenna poscia all’uso che dovrà farsi dei materiali demoliti, raccomandando di mettere in salvo tutto quello che si troverà dentro, permettendo che il luogo dove la rocca sorge resti in proprietà del pubblico, "che a noi bastarà lo presidio de la fedelità et affectione vostra - GUIDO-UBALDUS, DUS, DUX". Il 2 novembre il notaro Perusini fa l' inventario di quanto trovasi entro la fortezza, e cioè un mortaio di ferro contro l’incursione dei nemici, altro mortaio rotto, altro mortaio posto nel ceppo, due altri mortai senza ceppo, nove pezzi di artiglieria, tre mortai e code di spingarde; una campana di metallo, due piccole mole per macinare, una catena pel ponte levatoio, altra catena per lo stesso ponte con anello di ferro, duecento bombarde, una lettiera, una madia per far pane, due corazze, una scala a piuoli, un grosso catenaccio, ceppi pei prigionieri ecc. Tutte queste cose furono allora allontanate e poste in luogo sicuro, ma, per la demolizione della rocca con la sua torre, almeno per allora, non se ne fece nulla. Troppo doleva al popolo veder sparire quanto aveva di più grandioso e che per due secoli era stato baluardo di forza e di sicurezza. La duchessa, nel maggio del 1511, scriveva ai Priori durantini " Noi semo contente circa rocha de lì quanto per la felice memoria de lo Ill.mo Sig. Duca Guido nostro consorte ve fo già concesso... dimmodo voi manteniate la peschiera et el  fosso de dicta rocha cum lo pesce come era consueto tenerse per el Ma il magistrato, temendo una sommossa popolare, tergiversava. Fu solo ai primi del 1516 che il Consiglio ne decide la demolizione per 25 piedi; finalmente il Viceduca, con ordinanza del 4 ottobre 1517, rompe gli indugi: "...la roccha qual voglio tucta la ruinano et dicta mina riempire la fossa con la porta che n'è appresso.... et seguitate fino al torrion novo quale onninamente vadi  per terra fino alli corridori de sotto et intorno come di sopra usque ad terram". I durantini tergiversarono ancora, ma l’anno appresso, comminata la pena capitale ai contravventori dell’ordine dovettero ubbidire e fu allora che, dalla fortezza, si tolse il blocco di muro sul quale era affrescata l’ immagine di Nostra Donna col Bambino, quell’ istessa che vediamo anche oggi nell' oratorio del Carmine. La rocca sorgeva dove oggi è il Teatro Bramante, aveva forma quadrilatera munita ad ogni angolo di un baluardo, con due pozzi interni strettissimi ma ricchi di acqua ed una scala segreta che metteva alla porta d’ingresso. Abbiamo lasciato il Duca Guidobaldo esule per la seconda volta dal suo Stato. Il Valentino, intanto, cresceva in potenza e prepotenza, tuttavia, con Casteldurante, lo troviamo adoperare sentimenti umanitari. Il paese, prima di assoggettarsi a lui secondo il solito costume avevagli proposti alcuni capitoli: da Urbino il 15 luglio 1502 il Borgia si degna rispondere che, impigliato in gravissimi negozi, non aveva ancora potuto prendere in esame i postulati dei "suoi fedeli " durantini, ma che intanto loro permetteva di reggersi pacificamente coi loro vecchi statuti. A mostrare poi la sua clemenza verso di loro condonava ogni eccesso e delitto commesso dagli inizi del suo Principato fino al di presente, purché ogni delinquente ritorni sulla buona via". Il rescritto sovrano e fregiato di un veramente bellissimo ed autografo "Cesar Borgia ". Ma ecco all’improvviso l’ira di Dio si scatena contro il prepotente e lo abbatte quando egli men se l’aspetta: il 18 agosto 1503 muore di veleno Alessandro VI e Cesare stesso corre grave pericolo della vita. Con la morte del Papa finì la gloria e la potenza del Valentino; tutte le città cadute sotto il suo giogo gli si ribellarono e Guidobaldo tornò subito a riprendere possesso dello Stato, benedetto ed acclamato dai suoi popoli. Dopo il Pontificato di Pio III durato soli 26 giorni, sali sulla Cattedra di S. Pietro Giulio II della Rovere che quasi subito chiamò il Duca suo nipote a Roma. Mentre il Borgia era tenuto in custodia nel palazzo Pontificio, dietro reiterate istanze, umiliato e supplichevole poté presentarsi al Duca Guidobaldo ad implorare perdono e protezione. Una lettera dell’11 dicembre 1503 diretta da un teste oculare ai Priori durantini racconta che " ritrovandosi Sua Excellentia in l’antecamera dei Pontifice, sedendo in uno lecticiolo... venne el Valentino per una via coperta et come intrò subbito in l’uscio, fo cum la berretta in mano et cum li genocchi o terra fece reverentia al Signor Duca et appropinquandosi continuò cum la beretta in mano; come gionse al Signore fece un’altra reverentia sino a terra. Sua Exc. cum ambe le mane lo fece levare et sentare dandogli audentia ". Riporta poi le parole del Valentino il quale dichiarandosi oltremodo pentito, domandava umilmente perdono al Duca e si chiamava pronto alla restituzione di tutto quanto aveva usurpato al Duca. Guidobaldo, generoso com’era, gli ebbe compassione, lo confortò amorevolmente e gli promise di perorare la sua causa avanti il nuovo Pontefice. Il Duca, nella certezza ormai di non potere avere prole che gli succedesse nel ducato, in pieno accordo con la moglie, aveva già stabilito di adottare in figlio ed erede il nipote Francesco Maria della nobile Famiglia della Rovere. Papa Giulio, zio paterno di Francesco, accolse la proposta con somma allegrezza e, nel settembre 1504, spedì la bolla per l’adozione, mentre il Duca invita il Comune durantino a scegliere deputati per venire in Urbino a giurare fedeltà all’ adorato Principe. Questi, che già da tempo dimorava nella corte feltresca, era conosciuto e stimato dovunque, come figlio di Giovanni della Rovere, signore di Senigallia e Prefetto di Roma e di Giovanna " la Prefettessa " figlia, a sua volta del grande Federico di Montefeltro padre dell’adottante Guidobaldo. Nessuna meraviglia, quindi, se le genti del ducato accolsero con entusiasmo l’innesto della casa dei Montefeltro coi Rovereschi. Nel 1505 infierì sui nostri luoghi una delle più terribili carestie, cui fece seguito, com’era triste consuetudine in quell’epoca, una fiera pestilenza: molte furono le vittime per l’uno e per l’altro flagello. I codici di Riformanze o libri Consigliari per Casteldurante incominciano soltanto nel 1503 con una lacuna dal 1520 al 1542. Una lettera del 1735 accenna alla non mai abbastanza deplorata perdita del più sicuro materiale storico dei sec. XIV e XV. " ...ciò per buona gratia dei consaputo Sebastiano Rossi che con la carta disgraziato ed ignorante Segretario Comunale! Desta meraviglia come, nel primo codice di Riformanze, non si faccia menzione dei maggiori fatti politici dell’epoca. A mo’ d’esempio non é ricordata l’entrata trionfale in Urbino del grande Pontefice Giulio II avvenuta il 25 sett. 1506 con superbo e numeroso corteggio di soldati, dignitari, ecclesiastici e ventidue cardinali. Sappiamo soltanto che, un mese innanzi al suo arrivo, il Magistrato durantino impone la tassa di un bolognino per focolare per provvedere le bestie a trasportare in Urbino rami di abete per adornare le strade, a far giungere colà cento letti requisiti in Durante e contribuire con l’offerta di 25 ducati alle spese straordinarie sostenute dal Duca in quei giorni. Anche pel ritorno del Papa da Bologna in Urbino (3 marzo 1507) il Consiglio durantino s’affretta "mittere frascas ad ornatum Urbini " e ad inviar letti pel seguito papale. Tacciono i nostri libri sull’ ultima malattia del Duca Guidobaldo già da tempo podagroso, e della sua morte, nel gennaio 1508 a soli 35 anni, avvenuta in Fossombrone tra le braccia della dilettissima Elisabetta. Vivente ancora Guidobaldo venivano riconfermati gli antichi capitoli di buon vicinato tra il castello di Peglio e Casteldurante (6 marzo 1506). Era stato emanato un severo decreto contro i falsificatori di monete, e Domenica di Antonio durantina, già nutrice dell’ Ill.mo Sig. Duca veniva ascritta nell’Albo della nobiltà. Francesco Maria I, entrato nel pieno possesso del Ducato, prestò anch’egli giuramento di fedeltà e d’osservanza agli Statuti durantini il 12 sett. 1508. Durante l’anno volle mettere un freno al lusso che facevano le nostre donne (strano!) in occasione di funerali, proibendo alle stesse di andare in chiesa quando vi si portava il cadavere e volendo che, nella casa del morto, il solo capo di casa indossasse vesti lugubri e per soli 15 giorni. Pochi mesi dopo partecipato ch’ebbe Consiglio durantino l’intenzione di ammogliarsi, fu deciso fargli un onorevole donativo. La sposa - Eleonora Gonzaga - dai primi di giugno del 1510 venne in Casteldurante e vi si trattenne circa quattro mesi durante la sua gravidanza; il Comune le fece avere in dono 30 ducati e si addossò là spesa della legna venuta dall’Orsaiola per i bisogni della Casa ducale. Il 21 marzo dell’anno seguente scrisse ai Priori: "Per il presente messo nostro servitore ve advisamo come hoggi el S.Dio n’ha fatto gratia d’un Figliolo. Pregate Dio per la prosperità sua Questo primo bambino ebbe breve vita perché morì di lì a pochi giorni. Due anni dopo, e precisamente il 2 aprile 1513, nacque il secondo Guidobaldo per la quale occasione il Consiglio durantino mandò ambasciatori al Duca a congratularsi. Francesco Maria, dopo il suo matrimonio, lasciò ben presto la gaiezza della Corte per impugnare la spada a favore dello zio Pontefice il quale, impigliato in continue lotte e conosciuta la sagacità e la perizia militare del nipote, l’aveva creato generale delle armi papali. Il Duca, in ogni incontro, si mostrò all’altezza del grave compito ricevuto. Ma fu contrariato troppo spesso dal Legato Card. Alidosi che l’ aveva anche messo in cattiva luce presso il Papa. Francesco Maria giurò vendicarsi e scontratolo un giorno mentre in abito da prete cavalcava con cento uomini, accecato da subitaneo furore, gli si avventò contro con la spada e l’uccise (24 maggio 1511). Il Pontefice, a tal nuova, fremé di sdegno contro il nipote e, secondo le leggi canoniche di allora, lo dichiarò scomunicato e decaduto dal Ducato. Citato a Roma, la causa fu discussa da quattro Cardinali i quali, ponderate le gravissime ragioni, le testimonianze e i documenti inoppugnabili presentati dal Duca, con sentenza del 5 dicembre 1511 lo reintegrarono in tutti i suoi diritti e privilegi. La morte di Papa Giulio, nel febbraio del 1513, aprì nuova ferita al cuore dei metaurensi e fu pel ducato novella fonte di guai. Era salito al soglio pontificio Giovanni de’ Medici col nome di Leone X. La famiglia de’ Medici, già spodestata da Firenze, era stata assai beneficata dal Duca nostro, e lo stesso Papa doveva a lui in gran parte la sua assunzione al potere. Ma, dopo averlo confermato, il 17 aprile 1513 Capitano generale dell’esercito della Chiesa e rinnovatagli l’ investitura del Ducato, lo si vide da li a non molto cambiar rotta, destituendo anzitutto Francesco M.a dal capitanato, primo passo verso la spogliazione degli Stati, che voleva concedere al nipote Lorenzino. Colto, infatti, un pretesto qualunque, nel 1516, Leone X pubblicò un severo monitorio contro il Duca con espresso comando che subito ne andasse a Roma per discolparsi dell’ uccisione del Card. Alidosi. Francesco non azzardò mettere se stesso nelle mani del Papa, dichiaratosi palesemente suo nemico, e spedì a quella volta la piissima Elisabetta sua madre adottiva. Fu passo inutile; anzi, spirato il tempo fissato dal Monitorio, il Duca si vide condannato in contumacia, scomunicato e privato d’ ogni titolo e dignità, mentre i sudditi venivano sciolti dall’ obbedienza, si fulminava in tutte le chiese dello Stato l’ interdetto con infinito dolore dei popoli. Al qual proposito, nelle riformanze durantine, troviamo riportata la seguente lettera: " Io P. Bembo secretario di Nostro Signore fo fede come Sua Santità è contenta che tutto il Clero el quale è sotto la Badia di Castel Durante, possa rimanere e stare nelli loro luoghi senza incorrere sotto le censure contenute nello interditto nuovamente pubblicato contro el Duca de Urbino, dummodo che esso Clero in tutte le altre parti pareat prefato interdicto, havendone io di ciò ad istantia della Comunità ". Francesco Maria, vista pel momento pericolosa ed impossibile qualsiasi resistenza, imbarcato il figlioletto Guidobaldo, la moglie e la Duchessa Elisabetta e inviatili ai congiunti mantovani in previsione di peggio, si dispose anch'egli alla fuga, in attesa del tempo propizio per la riscossa. Lorenzo de’ Medici, già dichiarato Duca di Urbino e Generale della Chiesa a mezzo dei suoi condottieri s’ avanzava da ogni banda per occupare il suo nuovo Stato. Vitello Vitelli valicati gli Appennini con duemila fanti e duecento cavalli scendeva la valle del Metauro ad alloggiava al Parco di Casteldurante. I Durantini, però, tenaci nell'affetto del loro Principe, chiusero le porte decisi alla resistenza. Ma dopo pochi giorni, vista l'impossibilità di opporsi lungamente a tanto apparato di forze che li circondava, scesero a patti col Vitelli ottenendo salva la vita dei cittadini e delle sostanze. Tuttavia, poco fidandosi dei durantini, questi lasciò nella Terra una guarnigione di 300 soldati che vi ebbe stanza per tutta la durata della dominazione medicea. A castigo poi dell’opposizione fatta da principio e a togliere ogni velleità di ulteriore resistenza, il viceduca da Mercatello, il 4 ottobre 1517, mandò l’ordine ai Priori di ruinare del tutto la rocca insieme alla porta contigua oltre quella parte di mura ch’ era situata a ponente del paese. Due mesi dopo, facendo il sordo il popolo alla predetta ingiunzione, il Commissario ducale insiste ancora scrivendo " fate sollecitare quelli homini al buttar giuso le mura ". All’ordine draconiano di lasciare al tutto aperta ed indifesa la Terra, i cittadini protestarono ancora, rifiutando assolutamente di essere gli artefici della propria rovina, fino a che l’ anno successivo, comminata la pena capitale contro i riottosi, furono costretti a chinare il capo sotto la vigilanza dei soldati di guarnigione. Ecco come il nostro notaro M. Venanzi racconta il fatto: " 1518 a ultimo novembre giorno di S. Andrea: Venne in Casteldurante un Commissario del Duca Lorenzo de’ Medici con ordine di far alamare le mura di Casteldurante e rocca, come poi fece, e a tal effetto fece bando sotto pena della vita a tutti dalli 20 fino alli 60 anni di ritrovarsi a buttar giù dette mura e rocca; et in tal tempo erano Priori Ser Bartolomeo di Bio et Agostino della Ventia".  Anche Francesco M.a s’era, nel frattempo, posto al sicuro presso i Gonzaga a Mantova e di là, nel giro di pochi mesi, con energia e coraggio senza pari, radunato un agguerrito esercito ed assoldate diverse compagnie di spagnoli, si spinse come folgore per la via di Romagna, al recupero dei suoi Stati. Il Papa, peraltro, gli contrappose più numerosa oste ed egregiamente equipaggiata. Ciò non ostante il Duca nostro, facendo prodigi di valore, ruppe in diversi incontri le genti pontificie, riducendo in breve tempo tutto il ducato alla sua devozione. Ma, tradito poscia dagli spagnoli, fu costretto venire a patti coi Pontefice, il quale, tolto l’interdetto e perdonati gli aderenti a Francesco Maria, s’ebbe la cessione del Ducato, mentre il Principe si riduceva a nuovo esilio a Mantova. A reggere lo Stato di Urbino fu mandato allora, qual viceduca, Roberto Boschetto cui, il 7 marzo 1518, Lorenzino partecipa la nuova del suo matrimonio con una principessa francese, ordinando che "tutto lo Stato faccia dimostrazione di gioia ". I durantini, sempre ligi al loro antico Signore, pare non fossero troppo entusiasti pei festeggiamenti richiesti, paghi di mandare a Firenze quattro ambasciatori a congratularsi coll’intruso Duca di Urbino, deliberando altresì di presentargli un bacile d’argento con l’arme del Comune qualora il Medici fosse venuto in persona in Durante. Molti de’ nostri cittadini che avevano militato sotto le insegne di Francesco Maria, vennero richiamati in patria da un bando del Boschetto promettendo loro generale perdono, minacciando altrimenti la confisca dei beni (2 aprile 1518). Lorenzo de’ Medici godette ben poco il nuovo Principato, perché nel 1519 moriva in Firenze e, dopo pochi mesi, lo seguiva nella tomba lo stesso Leone X. Vacata la Sede Papale, Francesco Maria ritornava Signore di tutti i suoi Stati con immenso giubilo dei popoli.