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Francesco Maria II

Coll’assunzione alla corona ducale di Francesco Maria (13 ottobre 1574) il paese nostro entra nel periodo più fulgido della sua storia. Segni chiarissimi di predilezione particolare ne aveva dati da Principe, vivendo buona parte dell’ anno come un fratello di mezzo al popolo nostro, interessandosi a tutti i suoi bisogni. Ora Duca, sebbene costretto ad abitare o in Urbino o a Pesaro, non lasciava passare autunno e spesso anche l’inverno che non soggiornasse in Durante con la sua Corte, tanto è vero che ogni anno veniva il furiere ducale a trovare gli alloggi e stabilirne i noli. Ad ogni pubblica necessità rispondeva prontissimo il suo aiuto, ne’ privati bisogni la sua mano si stendeva nascosta e soccorritrice. Ogni tanto si portava di persona ai due monasteri e ai tre conventi di frati per conoscere e provvedere alle loro strettezze. Quattro anni dopo il suo possesso, Francesco Maria ebbe la disgrazia di perdere il suo amatissimo zio, il Card. Giulio Feltrio arcivescovo di Urbino e Commendatario da quasi un decennio dell’ Abbazia Durantina. Aveva soltanto 44 anni: profondo fu il lutto della Corte, cui largamente partecipò il nostro popolo. Una visita inaspettata di un illustre personaggio che, vivente ancora, godeva l’aureola di santo, ebbe Casteldurante nel settembre del 1579: S. Carlo Borromeo. Un di lui fratello aveva sposata Virginia sorella di Francesco Maria, questa morendo aveva lasciato al cognato 20 mila scudi per opere pie. L’E.mo doveva essere ben a giorno dei dissapori maritali tra il Duca nostro e la moglie. S. Carlo arrivò in Durante inaspettato e privatamente, per cui i libri di Riformanze non ne danno cenno. Ma il nostro popolo ne volle quasi subito eternata la memoria in un’edicola posta dove ora troviamo il Tiro a Segno Nazionale. Il pubblico catasto, redatto già nel secolo XIV, non si sa se per incuria o dolo, era stato smarrito; nelle frequenti contestazioni di proprietà terriere si brancolava nel buio. La Comunità assegnò a quattro primari cittadini (Antonio Marra, Giacomo Terzi, Andrea Lazzari e Benedetto Perugini) il non facile compito di rifarlo. Assolsero essi il mandato con soddisfazione universale e il lavoro fu base e norma fino ai nostri ultimi tempi. Nel giro di quasi tre secoli, ai primitivi statuti datici da Mons. Durante, erano state apportate non poche variazioni e adattamenti. Una riforma era stata fatta nel 1513 dal D.r Federico de’ Berte allora nostro podestà, ma le varie leggi e decreti promulgati in appresso e le mutate circostanze avevano reso necessario un rimaneggiamento degli statuti e il formarne un codice unico che fosse guida e norma sicura al popolo ed ai giuristi. Si affidò il compito ai migliori ingegni del tempo; approvati dal Duca, ne ordinò la stampa in Urbino nel 1595. Se ne fecero 149 esemplari preceduti da un’ alata prefazione del D.r Terenzio Venanzi - uno dei più eruditi compilatori e da un carme dell’ insigne letterato durantino Sebastiano Macci. Le spese di stampa si addossarono ai notari e agli altri dottori in legge dell’epoca, che ne ebbero in compenso una copia per ciascuno. Un immane flagello desolò nel biennio 1590 -‘91 le nostre contrade. Il legale M. Venanzi ce ne lasciò questa memoria: "Per il cattivo raccolto dell’anno 1599 non solo in Italia ma quasi in tutto il mondo fu una carestia generale e sì fatta che il grano si vendette e si comprò - e non se ne trovava - doi fiorini il quarto... si fava pane con ogni sorta di biade. Il Signor Duca d’ Urbino ad istantia delle Comunità dello Stato fece venire il grano di Cecilia per mare a Senigallia che, condotto, costava meglio di doi scudi il quarto, si dava una mela piccola al quatrino, si vendeva il pane per bolletta e si dava doi fichi secchi al quatrino, e molti poveri si morivano di fame, e de più ne sarieno morti, se non fosse stato la gran providentia e le gran elemosine del Ser.mo Duca Signor Francesco Maria".  Di Casteldurante ci basti il sapere che, mentre l’ ordinaria media annuale dei defunti non oltrepassava il n.° di 70, nel 1591 arrivò a 303 e nel successivo anno a 178 il numero dei morti, senza contare quelli delle parrocchie rurali. Nei registri funebri della grande maggioranza di questi estinti si legge " morse redutto alla terra " morì cioè costretto a divorare la terra. Di fronte a spettacolo così desolante il Comune si copri di debiti, il clero, i luoghi pii, gli abbienti tutti diedero quanto essi avevano di derrate, sovvennero i famelici di denaro per comprar grano venuto da fuori, il Monte di Pietà mandò alla zecca di Pesaro l’oro e l’ argento depositato e non riscattato, di più, a sollievo degli affamati, vendette un vasto fondo, mentre poi il Duca, dopo aver concesso tre mila scudi e fatte altre pingui offerte, emanò in fine un severo decreto coi quale si espulsero " dalla Terra tutti i fuorfanti, vagabondi et simili ". Si vede che gli sciacalli usavano anche a quei tempi! Lucrezia d’ Este, da tanti anni volontariamente lontano dal marito, l’11 febbraio 1598, dopo pochi giorni di malattia, morì. Il popolo nostro che la vedeva sterile e ansiosa più delle gioie della Corte di Ferrara che delle severe stanze ducali di Urbino e di Casteldurante, non se ne rammaricò gran che e Francesco Maria ne ebbe sollievo. Però i sudditi tutti, specialmente i durantini, che oggi vedevano rifiorire la speranza della successione roveresca, ogni qualvolta il Ser.mo loro si mostrava, gli gridavano forte: " Serenissimo moglie!". Alle pressioni popolari resistette alcun poco il Duca, affacciando la sua età più che matura e qualche incomodo di salute; ma poi, alle insistenze delle Comunità dell’intero Stato, cedette e, sfuggendo di unirsi con donna forestiera e di regale lignaggio per non togliersi dalle sue pacifiche abitudini e dagli amati suoi studi, scelse un ‘ingenua e cara fanciulla sua nipote - Livia - figlia di Ippolito della Rovere. Il notaro durantino Venanzi ne lasciò il seguente ricordo fra i suoi rogiti (vol. 223). " Adi 26 Aprile 1599. Il lunedì a sera a hore 24 circa il Ser.mo Sig. Duca Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino sposò la Ser.ma Sig. a Livia figliola del Ill.mo Sig. Marchese de la Rovere in corte nella Cappella del Sig. Duca. Il sposalizio lo fece Mons.re Giulio Virgilio abbate di Casteldurante presenti li Ill.mi Sig. Uditori cioè il Sig. Minio, Beluzzi e Malatesta ".