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Gli ultimi anni del Ducato

Quando Federico aveva poco più di quattro anni, Francesco Maria stipulò un contratto matrimoniale fra lui e Claudia de’ Medici figlia del Granduca di Toscana, contratto che compiuti ch’ebbe il Principino i sette anni, venne ratificato nel giugno 1612. Ultimo rampollo roveresco, su lui posavano tante speranze dei popoli. Cresceva egli intanto, rigoglioso, intelligente e bello, ma disgraziatamente non immune da cattive abitudini e da vizi. Fin dai teneri anni ebbe a compagni giovani rotti ad ogni turpitudine e che trovarono in Federico un fedelissimo imitatore. Il padre, tutto assorto nei libri, nelle meditazioni, nelle opere di pietà, s’accorse finalmente delle prave inclinazioni del figlio, ma troppo tardi! Preghiere, rampogne del genitore non valsero a richiamarlo sul buon sentiero, anche le lacrime della pia ed amorosa genitrice caddero sterili su quel cuore di macigno. Fu allora che Francesco Maria ed il Granduca di Toscana escogitarono un ultimo mezzo a fermar Federico all’orlo del precipizio, sollecitando il già ratificato matrimonio con la Principessa Claudia. Aveva Federico sedici anni appena quando si celebrarono le nozze in Firenze ed il Ducato ne fu sossopra dalla gioia. Si fecero dovunque preparativi sontuosi ad accogliere gli sposi e quando con tutto il nobile corteggio, valicato l’ Appennino, giunsero a Casteldurante, il popolo nostro non poteva più degnamente accoglierli e festeggiarli. Ma la gioia di quei giorni ben presto annebbiò. Il Principe lo si vide quasi subito tornare ai soliti stravizi che ne fiaccarono ogni giorno più le forze, rendendolo mancipio dei più gravi disordini. Nel giugno 1623, dopo una nottata trascorsa nel teatro di Urbino tra gli istrioni, la mattina seguente (festa di S. Pietro) fu trovato steso nel suo letto freddo cadavere. Contemporanei e posteri molto hanno scritto sulle cause di quella tragica fine: noi narriamo il tristissimo evento senza commenti di sorta. Il Vescovo di Pesaro, Mons. Baglioni, portò a Casteldurante l’infausta novella al vecchio padre. Filosofo profondamente cristiano, quale egli era, alzando gli occhi al cielo, col santo Giobbe esclamò " Dominus dedit, Dominus abstutit, sit nomen Domini benedictum ". Francesco Maria costretto a riprendere la direzione dello Stato, ripristinò subito il Consiglio degli Otto, che aveva soppresso dietro pressioni di Casa Medici. Per Casteldurante e Massa Trabaria questa volta venne eletto a membro il nostro concittadino Dr. Ottaviano Leonardi. Cosi pensava il Duca di ben provvedere alla tranquillità di se stesso ed alla retta amministrazione dello Stato; ma di quanto s’ingannò. La S. Sede, cui doveva ritornare il feudo del Ducato di Urbino per mancanza di successione maschile, data l’età ormai decrepita del Duca, cominciò ad avanzare le sue pretese. Viveva in Firenze la bambina Vittoria figlia di Federico Ubaldo verso la quale il nonno addimostrava tanta affezione; si temeva pertanto che Francesco Maria fosse indotto dai Medici a qualche mossa in discapito dei diritti della Chiesa. Eppure il Duca, con lettera del 4 novembre 1623, aveva fatto conoscere al Pontefice la sua chiara intenzione. L’ anno appresso (26 aprile) la stessa Santa Sede, per maggior sicurezza, roganti tre notai, volle stipulato l’ istrumento di piena dedizione alla S. Sede, in forza del quale Francesco Maria (come scrive il Liburdi) " riconosceva solennemente esser giusto e conforme alla sua volontà che tutto lo Stato Ducale ritornasse per pacifica devoluzione alla S. Sede, da cui i suoi maggiori e lui stesso l'avevano sempre tenuto in vicaria... e finì per consentire anche alla desiderata soppressione del Consiglio degli Otto, pregando il Pontefice di affidare la suprema autorità dello Stato ad un Governatore di sua fiducia. Questi fu il bolognese Mons. Berlinghiero Gessi, a cui, tre anni dopo, successe Mons. Lorenzo Campeggi Vescovo di Senigallia". Strappato così bruscamente ad ogni affare di governo, la vita del Principe trascorse tutta nello studio, nella meditazione, nelle opere di beneficenza e di pietà. Lo si vedeva ogni tanto dai suoi privati appartamenti passare pel corridoio aperto sulle mura di ponente del paese e trattenersi lunghe ore nella sua ricca biblioteca coi dotti coi quali amava intrattenersi. Non disdegnava le preci del più umile popolano, s’ interessava personalmente delle necessità in cui si dibatteva il popolo durantino in anni cotanto carestosi. Era il padre tenero degli orfani, dei derelitti, delle povere monache e, con larghezza principesca, provvedeva alle necessità più urgenti di tutti. Ad ogni cittadino era nota la serietà della sua vita, la rigidezza dei suoi costumi, la sua pietà religiosa. Finché le forze lo sostennero interveniva con la sua nobile Corte alla processione del Corpus Domini ed a certe speciali funzioni; ogni anno passava l’intera quaresima nel Convento del Barco, preciso osservatore delle leggi ecclesiastiche relative alle astinenze ed ai digiuni. Ed ecco la ragione per la quale in Casteldurante tutto un popolo non soltanto teneramente lo amava ma lo colmava di riverenza e di venerazione. Ogni tanto nei libri di Riformanze leggiamo vive raccomandazioni del Magistrato perché non fosse turbata la pace del paese " per non amareggiare il Serenissimo Duca al quale dobbiamo ogni affetto e gratitudine ". Giunto Francesco Maria al suo 82° anno di età improvvisamente ammalò. La notizia si sparse in un baleno ; il 17 marzo si aduna il Consiglio comunale d’urgenza, e " il Duca è malato (si scrive) la tarda età di lui dà apprensioni. Noi durantini oltre il debito naturale d’ogni buon suddito verso il suo Principe, habbiamo obblighi infiniti particolarmente per tanti segnalati benefici e gratie ricevute dal nostro giustissimo e pietosissimo Principe. Non potendo far altro a bene del suo corpo, si corre alla preghiera; perciò si decide a viva voce che domani si celebrino all’altare di S. Diego, nella Chiesa del Barco, dieci messe con cera e carità che si conviene alli frati, et anco mandare dieci zitelle vergini povere e scalze al Barco a pregare il Signore Iddio e S. Diego per la salute del Serenissimo". Parve che il Cielo ascoltasse i voti dei fedelissimi, tanto che una settimana appresso il Duca poté alzarzi di letto ed in carrozza andare al Barco. Il popolo con il Clero e Confraternite in solenne processione imita il suo principe portandosi all’ altare di S. Diego a rendere le dovute grazie al Santo principale protettore del Serenissimo. Ma la vita di lui era già al suo termine. Un mese più tardi, ossia il 28 aprile 1631, Francesco Maria, munito di tutti i conforti religiosi, in piena comunione con S. R. Chiesa, assistito dalla desolata consorte " in piacevolissimo sonno - dice un cronista - senza febbre, senza catarro, senza agitazione alcuna moriva in età di 83 anni, avendo per 60 anni goduto il governo dei suoi Stati ". Ed ora lasciamo all’ Attuario di quel tempo la narrazione dei funerali riportata anche dal Paccasassi ne’ suoi "Annali " : " Il Ser.mo Sig. Duca Francesco Maria Secondo della Rovere sesto et ultimo Duca d’Urbino, dopo d’havere con somma et retta Giustizia governato li suoi Popoli per il corso di cinquantasett’anni con pace e quiete di tutto il suo Stato, rese lo spirito a Dio e se ne andò a godere tra Beati la Celeste Patria a hore 20 di lunedì li 28 Aprile 1631 in età d’ anni 83 qui in C.Durante che per sua habitatione si aveva eletto. Et partita che fu l’anima da questa terrena carcere, subito le campane nuntie di detta morte, benché a tutti fosse presaga, con il lor mesto suono riempirono di mestitia gli animi de’ poveri et afflitti sudditi, che lacrimevoli e sospiranti si facevano per ogni contrada sentire e questo lacrimoso suono durò senza punto fermarsi dallo spirare dell’ Anima, sinchè il corpo di quella compagno, fu dalla pesante pietra ricoperto nel già eletto Sepolcro ; la sua morte apportò un estremo et indicibil danno a tutto il suo Stato et in particolare a questa nostra terra della quale detto Ser.mo n’ era Signore e Padre amantissimo ; fu il suo corpo dopo d’esser stato unto con pretiosi unguenti per difenderlo dalla corruzione, vestito alla Ducale con una veste di finissimo argento in lama, che per quattro anni avanti a tale effetto l’avea fatta custodire tra li suoi più ricchi drappi, come quello che d’hor in hora sì conosceva prigioniero di morte per la cadente sua età; qual veste era fodrata di tabì con onda, di color pavonazzo, in testa havea una berretta alta di veluto negro, circondata da una corona d’ oro massiccio non di mediocre grandezza, et al collo le fu posto il Tosone d’ oro, di vari colori smaltato che mandato glielo havea Filippo Secondo Re di Spagna, quando crear lo fece Cavalliero dell’Ordine in Bologna. Così vestito con un Crocifisso d’Argento nelle mani fu dalla Camera di dove spirò trasportato nella Sala Maggiore del Palazzo Ducale nella quale di già era stato da me Cancell. infrascritto Guardarobba preparato un grande et eminente Catafalco d’otto gradini coperto tutto di coton negro sopra il quale nel mezzo vi stava un Palco con uno strato di velluto con una bellissima et ricchissima Croce superbamente ricamata d’alto rilievo d’ oro et argento con quattro Armi grandi alli cantoni della Casa della Rovere con il medesimo lavoro ricamati e di sopra posto vi fu il Corpo del nostro benignissimo Principe in una certa positura che a tutti si rendeva riguardevole, in sembianza tale che gli occhi de' riguardanti già pregni di lacrime, irrigavano a ciascheduno il petto. Al dintorno poi del Catafalco, sopra torciere diverse, di color negro dipinte, poste a proportione sopra gradili, stavano cinquanta torce di cinque libre l'una, quali più volte furono rinnovate, atteso che il corpo del morto Duca, avanti di darle l'honorato Sepolcro ivi fu lasciato stare per spatio di due giorni. Le mura della Sala erano coperte di panni lugubri dall’impostatura della volta sino al pavimento. Stavano poi sopra il Catafalco dei paggi che a vicenda si mutavano vestiti di corruccio con una bandirola in mano di taffettà negro ondeggiante, che sopra il corpo del Ser.mo Signore a tempo moveano. Si vedea ancor iu alto elevato, sopra il Catafalco un Baldacchino di velluto negro grande con quarantotto bandinelle, che magnificenza rendea al lugubre apparato. Il Mercoledì a hore 20 fu da un numeroso Clero assieme con li Padri Min. Conv.li Zoccolanti Riformati, Cappuccini e Chierici minori principiato l’ ufficio in detta Sala conforme al Rituale Romano, ordinato da due maestri di cerimonie, con un buon corpo di musica, in più Chori diviso, che durò sino a mezzora di notte, che per il concorso de’ piangenti sudditi ivi a pena capir si solea. Le Confraternite a gara fecero prova qual di loro potesse comparire più numerosa a honorare il Cadavere di un tanto giusto e santo Principe, che con tal nome veramente chiamar si puole, poiché sempre a tutti indifferentemente amministrò retta giustitia e non fu mai accettator di persona, ne il Ricco e Nobile mentr’egli governò poté opprimere l’Ignobile, e povero, anziché sempre, per il povero la teneva, dandosi a credere che il Ricco con pretesti corrompesse la giustizia, et quando li più cari et amati da quella erravano, erano di suo ordine severamente con il condegno castigo puniti. Et tornando al pietoso officio d’accompagnare il Morto Ser.mo al Sepolcro, dico, che sei furono le Compagnie laicali che prima delle Regolari processionalmente si inviarono partendosi dalla Corte verso la Chiesa di S. Chiara. Innanzi andava la Compagnia della Morte, dopo lei del Buon Gesù che seguita venia dalla compagnia di S. Catterina e poi di S. Giovanni; et in appresso camminava la Compagnia dello S. Santo, e dopo questa del Corpo di Christo, che in tutti avanzavano il numero di ducento Confratelli, con torce di sei libre; con una facola in mano non accesa per farne poi di questa ciascheduno offerta alla sua Chiesa. A questi con buon Ordine con torce accese e due facole simili alle suddette seguitavano li Rev. Padri Cappuccini al numero di 25, dopo questi li Conventuali al num. di 30 e dietro loro li Minori Osservanti, che da luoghi circonvicini per esercitare l’ officio di Misericordia in buon numero erano concorsi, et insieme per accompagnare in morte, quello che in vita gli era stato largo dispensatore d’elemosine. Il Clero che di cento e più Sacerdoti era numeroso a due a due con torce andava seguitando le di già incamminate Confraternite e Religioni con quattro Chori di musica, tre de’ quali erano formati di voci sciolte che con mesto concento rendeano a gli uditori lacrimoso l’ufficio d’accompagnare al Sepolcro il morto Ser.mo; a’ quali da un ripieno di voci in funebre canto vicendevolmente venia risposto. Et prima che fosse dalla Sala processionalmente uscito tutto il Clero, fu fatto segno a quelli che portar doveano il corpo del lor morto Signore e Principe, ch’ erano al numero di 12, quali ascesi sopra il Catafalco, tutti ad un tempo levarono in alto et posarono su le spalle una certa parte di sopra del Palco a questa funzione accomodata a somiglianza di Cataletto, ma di maggior grandezza con dello strato e corpo del defunto Signore; quale veniva coperto da un altro Baldacchino sostenuto da 12 asse che in mano si teneano 12 officiali maggiori di corte. Al dintorno accompagnato era da 10 Padri de’ Chierici Min. con torcie accese, de’ quali sempre quattro stettero assistenti e giorno e notte al Corpo morto, et il simile anco fecero l’altre Religioni ; più vicini di questi al morto Principe stavano 24 Gentilluomini in atto di portare il Cataletto tutti vestiti di corruccio, non lungi da loro si vedeano camminare li sei Paggi con le gia dette bandirole in mano per compiere l’ officio che doveano. Dietro seguiva il Magistrato con li Sig.ri Giudici, quattro feudatari, quattro Capitani e li due Medici che servir doveano detto Ser.mo; tutti con le gramaglie, che gran mestitia rendeano a’ riguardanti, per l’ abito lugubre che portavano. A questi seguitava il restante della famiglia al num. di 200 tutta vestita a lutto e dopo la moltitudine del Popolo, che concorso era a lacrimare la perdita di un sì gran Principe Suo Sig.re, che a passo lento andava camminando con torce accese di maggior e minor grandezza, dispensate da ministri ducali secondo la qualità delle persone, che per la gran quantità di lumi che risplendevano parea la notte esser mutata in giorno e senza fallo le torce passavano il numero di mille; et avanti che il defunto Sig. re fosse stato portato fuori del Palazzo, la Compagnia della Morte che furiera era di questa dolorosa funzione si trovava alla Chiesa del SS. Crocifisso dove seppellito dovea essere il Corpo di S. A. e di già scorso dovea la terra tutta per quei luoghi, che passar sogliono le processioni generali cioè dalla Corte alla Chiesa di S. Chiara, e dalla suddetta alla Chiesa di S. M. Maddalena e dopo di S. Francesco, che da quella ascende nel claustro camminava verso la Cappella che in faccia si vede e di li per la strada detta del Sig.re; che circonda la Corte, e volge alla Piazza del Borgo, che a drittura poi scuopre la Chiesa del SS. Crocifisso. Intando camminando arrivò il Corpo del Ser.mo Prencipe nella Chiesa di S. Chiara alla vista di quelle consacrate Vergini e subito si sentirono pianti dirottissimi in gran copia col batter palma a palma, accompagnati di singulti e sospiri, che discerner non si poteva il mesto canto musicale dalle voci lamentevoli e piangenti, ed in confuso s’ udia un suono che a piangere ciascheduno la perdita di così gran Signore et il danno che da quella ne sarebbe venuto a’ suoi Populi invitava. Dalla detta Chiesa fu portato alla Chiesa di S. M. Maddalena et ivi furono medesimamente da quelle Verginelle raddoppiate le voci e sparse con atto di pietà e di dolore lacrime in abbondanza convenienti all’ affetto di devotione che portavano a questo giustissimo e misericordiosissimo Principe. Et mentre la Processione con il suddetto Ordine verso la Chiesa di S. Francesco andava caminando, si vedeva ogni contrada per dove portato esser dovea il morto Sig. re ripiena di populo, che non contento d’havere più volte risguardato con occhi lacrimosi quello che in breve le sarebbe stato da un’oscura tomba per non poter mai più vedere rinchiuso, come fuori di se andava scorrendo da un luoco all’altro, per mirare il Corpo dell’amato suo Sig. re et insieme piangere l’ irreparabil danno. Così dunque seguitando sino alla Piazza del Borgo, ove si ritrovarono tutte le suddette Compagnie e parte di Religiosi che di già la Chiesa del Santissimo Crocifisso haveano visitato et indietro tornavano per ceder ad altri il luoco, atteso che in quella capir non si potea tutto il Populo, et ivi con cento e mille benedizioni, con alte voci da singulti interrotte dicevano: Anima benedetta hor vanne in pace: e con lacrime tratte dall’ intimo del cuore diedero l’ultimo sguardo al Corpo del loro morto Signore; e di dolor ripieni se ne ritornarono alle Chiese loro, havendo prima ciascheduno lasciato la sua torcia alla Chiesa del SS. Crocifisso in mano di quelli RR. PP.; che dar ne doveano poi di esse la quarta alla Badia et una certa portione alla compagnia del SS. Sacramento conforme all’ accordato. Finalmente giunto il Corpo di S. A. nella Chiesa del SS. Crocifisso, fu posto sopra un Catafalco di non molta grandezza fatto a proporzioni della Chiesa, i muri della quale erano coperti di parati funebri dalla soffitta a terra, et circondato era detto Catafalco da 12 torce non inferiori a quelle che servito haveano nella Sala a questa dolorosa funzione. All’ Altar maggiore stava un palio di Raso negro con una croce in mezzo, e due Armi dalle bande del morto Principe d’oro et argento con bello artificio ricamati; Alli due Altarini che posti sono dall’una e dall’altra parte del suddetto Altare, vi erano due paliotti con un’arme per ciascheduno della medesima matteria con l’ istesso ricamo finissimo lavorati. Cessato che fu il canto musicale e compiute l’ ecclesiastiche funzioni, con tutte le cerimonie, che alli corpi de Principi sogliono farsi, furono di nuovo dalli R.R. P.P. della suddetta Chiesa del SS. Crocifisso cantati alcuni salmi et lette più orazioni et dopo di haver asperso il Corpo con l’ acqua benedetta, et incensatolo, fu posto in una cassa di Piombo coperta di odorifero cipresso, e poi portata sul sotterraneo sepolcro da due Confratelli della Compagnia della Morte che la posarono sopra due verghe di ferro ch’in mezzo di quella sono conficcate assai alte da terra, e con tal ordine fu dato al Corpo del Giustissimo Principe quel Sepolcro che fatto fabbricare havea a tale effetto sin dall’anno 1625, d’ altezza d’ otto piedi, di lunghezza nove, e cinque di larghezza con doppia muraglia sotto il vaso dell’ acqua santa di finissimo alabastro, posto sopra una pietra di paragone assai grande di giro rotondo dentro la quale si vedono molte lettere d’ottone incastrate che formano l’infrascritta oratione: Inclina, Domine, aurem tuam.... Nella cassa di Piombo dalla parte dove posa il Capo intagliate vi sono le seguenti parole con una lastra di piombo con lettere maiuscole. Iste est Franciscus Maria Secundus Feltrius de Ruvere, Urbini Dux Sextus et ultimus, qui obiit anno MDCXXXI, etatis sue LXXXIII et regnavit annis . E si come Iddio ha tirato a se l’ anima di questo Principe a perpetuare in Paradiso, così il mondo havrà sempre il suo glorioso nome in veneratione, potendosi ragionevolmente dire, che nel Sepolcro stesso, così morto, troverà l’immortalità del nome, come vivo trovò nei cuori dei suoi sudditi fedeltà, e devotione indicibile. Il principio della fama comincia a venire dalla morte et il fin della vita è principio della Gloria, nella quale hora spenge l’ardente sete di godere l’ eternità; Preghiamolo per ciò a non si scordare delle nostre bassezze et a dare un’ occhiata a’ suoi fedelissimi sudditi e mostrare loro per l’avvenire dal Cielo, si come fece in terra viscere di vero Principe e Padre".