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Le Maioliche Durantine

Dopo tutto quello che è stato scritto e pubblicato dagli storici tanto antichi che moderni su quest’ arte che assicurò così larga rinomanza al nostro paese, mi sento dispensato a trattarne d’ avvantaggio. Riassumo pertanto in breve quanto i nostri archivi ci hanno lasciato in merito. Fin dal sorgere di Casteldurante si parla di vaserie e di vasari, il che addimostra essere quasi innata ed istintiva la propensione dei nostri al lavoro della vaseria, che nel primo secolo e mezzo si limitò soltanto alla fattura di vasi a solo uso domestico e paesano senza pitture di sorta. A metà del ‘400 i durantini, oltre l’ impianto di diverse fabbriche, presero a condurre ne' vasi con molta grazia e maestria bassorilievi ed arabeschi che man mano andavano abbellendosi col progressivo raffinamento della creta. Circa questo tempo capitava in Durante certo Benedetto da Siena buon artista in maiolica e molto capace nella pittura dei vasi. Questi, stretta società con Angelo di Meo sellaro uno dei più vecchi e valenti figoli durantini, per qualche tempo lavorarono insieme, ma poi, venuti fra loro a questione, ricorsero in tribunale, ove ognun di essi mise in luce le proprie ragioni e benemerenze: finirono per andarsene ognuno per la propria strada aprendo entrambi bottega per conto proprio. Il toscano sostenne che la società fu sempre " ad utilitatem magistri Angeli ut bene addisceret a dicto Benedicto artem suam". E infatti il senese aveva prestato non soltanto destrezza e valentia nel disegno, ma eziandio molta capacità nel dipingere vasi, valendosi dei cartoni dei grandi pittori toscani dell’ epoca (1461). Da questi tempi le vaserie nostre, dilatandosi e perfezionandosi sempre più, fecero si che Casteldurante paese prima d’ allora quasi ignorato e negletto acquistasse grido e rinomanza tale da vedere giungere messi non soltanto dalle Marche e dalla Toscana ma da ogni parte d’ Italia (non esclusa la lontana Sicilia) a commettere vasi istoriati di ogni genere. Di più, come i nostri documenti lo provano, furono i durantini quelli che l’arte figulinaria trapiantarono in lontani paesi, sì che ebbero essi rinomate fabbriche a Venezia, in Toscana, a Roma e finanche nelle Fiandre ove stabilitosi Guido di Luca Savini con la sua numerosa figliolanza, sparse poi in Germania e nella Francia settentrionale il prodotto dell’arte sua che ancor oggi forma l’ ammirazione degli intendenti ed è vanto e ricchezza artistica di quelle contrade. Ricordiamo ancora il durantino Orazio di Guido Fontana vasaro e dipintore di vasi, che dopo la morte del padre, si stabili in Urbino dove ebbe fabbrica rinomatissima di maiolica e i suoi lavori corsero per le superbe corti di Re e Imperatori e le aule sontuose dei Principi e Cardinali. I serenissimi Duchi di Urbino protessero e favorirono sempre i nostri bravi maiolicari e fu sotto Guidobaldo II, Principe dedito più degli altri alle grandi opere della pace, che si moltiplicarono le botteghe (così erano dette allora le fabbriche di maiolica) e l’ arte raggiunse l’ apice della sua perfezione. Nelle più rinomate fiere di Toscana e delle Marche venivano di continuo esposte le vaserie durantine comprate sempre a moneta aurea, né accadeva mai restassero invendute tanta n’era la maestria del disegno e la vaghezza del colorito. Durante il lungo principato dell’ultimo duca sembrò l’ avita arte decadere e affievolirsi. Alla fine del secolo XVI erano morti i migliori maestri di stecco e di pennello, come Francesco del fu Pietro Figolo (1571), Simone della Dina (1581), Giorgio Picchi, Luzio Dolci, Girolamo Giglietti e lo stesso trattatista della ceramica Cipriano Piccolpasso (1579). Alcuni figli loro abbracciarono sì l’ arte paterna, ma o non ne ebbero il genio o non emularono il valore e la tenacia al lavoro dei loro avi. Vi influirono certamente le quasi continue carestie, il deprezzamento della merce ed anche la concorrenza di altre fabbri. che consimili, sorte nelle città vicine specialmente in Urbino e Città di Castello, ove erano passati molti eccellenti artisti nostri. Pur tuttavia, anche nei primi decenni del ‘600, non s’era spenta la geniale fiamma dell’arte maiolicara nella quale uomini di prima nobiltà si esercitavano. Dalla relazione di una causa agitatasi in tribunale nel 1606 vediamo che in quel torno erano nove le fabbriche di vaseria nel paese e precisamente quella di Raffaelli Gabriele vasaio, stuccatore e pittore non dispregevole; quella di Sparagnini Giammaria dove dipingevano vasi Savini Gianfrancesco e Girolamo Supercline; la bottega di Giulietti Orazio coi pittori Guidangeli Durante, Curzio Magini e Mambrini Battista; l’altra di Tanini Antonio con Savini Giampaolo e Gureri Gianluca dipintori; quella di Piergiovanni della Dina cogli artisti Gaspare Basoja e Curzio Agolanti. Così Francesco Amati dipingeva vasi nell'officina di Federico Episcopi; Arcangelo Petrucci e Cesare di Guidobaldo in quella di Cesare della Dina e nelle due botteghe dei Ragionatelli Giulio del Fratino e Giulio di Gianfrancesco dichiaravano, come gli altri di sopra di essere pittori e attendere a pinger vasi. La morte di Francesco Maria (1631) diede il colpo mortale alla lucrosa e nobile professione. Mancò allora il Mecenate che tanto aveva favorito la maiolica durantina; le non poche famiglie nobili, venute tra noi per far corona alla Corte, presero il volo dal Castello, seco asportando ricchezze di stoviglie; i migliori artisti si allogarano presso altre fabbriche in città vicine e lontane dove l’arte prosperava ed era lautamente retribuita. Sopravvissero sì alcune botteghe, ma furono pallidi raggi di un sole occiduo. Nel ‘700 possiamo dire che la fiaccola del genio maiolicaro, un dì così splendente, erasi al tutto spenta, ed il paese rimasto senza risorse, gemette tra la più squallida miseria.  Passato ai più nel 1820 l’ultimo gesuita portoghese P. Giovanni Peixotti, il palazzo pontificio (già Corte ducale) fu acquistato dalla nobile famiglia Albani - Castelbarco e qui, mercé l’ interessamento dell’Em.mo Card. Giuseppe Albani, si risuscitò la lavorazione della maiolica, aggiungendosi quella della porcellana. Urbania sentì allora nuovo sangue affluire nelle sue vene, per cui tanti operai ebbero lavoro e pane onorato, e con essi si occuparono altri artisti come fabbri, legnaiuoli, muratori e facchini. Nel 1829 ne era stato chiamato Direttore Damiano Bernardi distaccato dalla sua fabbrica di vasellami in Vicenza con la retribuzione annua di 200 scudi. Allorquando nel 1835 venne a morte il Card. Albani, fu ad un pelo la chiusura della fabbrica. All’appressarsi pertanto lo spettro della disoccupazione e quindi della fame, il Comune nostro fece del suo meglio per impedire tanta pubblica disgrazia, e più d’ogni altro il Vescovo Mons. Parigini interpose il suo valido appoggio scrivendo pressanti lettere al Card. Rivarola per scongiurare il disastro che avrebbe al tutto rovinata la città ripiombandola nella più cruda miseria. Le pubbliche raccomandazioni e le vive istanze del Prelato ottennero, dopo alcuni mesi di sospensione, il ritorno al lavoro, e da quei giorni, per più di mezzo secolo, la fabbrica stoviglie Albani prosperò divenendo vera fonte di salute cittadina. Ma nel 1892, per gravi cause interne, l’opificio, cotanto stimato in patria e fuori, dovette chiudere le sue porte definitivamente. Le più forti istanze rivolte al Principe Carlo Castelbarco dalla città e dal municipio ad ovviarne la chiusura, non approdarono a nulla.