estratto di India 2008 (Delhi, Dharamsala, Dehra Dun)
estratto di Goccioline - un memoir
estratto di Simenon - venti5 romanzi
estratto di Creando paradisi




India 2008 (Delhi, Dharamsala, Dehra Dun)




Il viaggio inizia, in questo 16 febbraio, con uno scalo a Doha, nel Qatar, il cui aeroporto giace tra aride costruzioni invisibili nella notte. C'è un evidente senso di nulla, di non-luogo.
Il biancore accecante del giorno mostra questi stessi edifici sorprendentemente candidi, oltre il filo spinato sopra la recinzione. Siamo a un passo dal deserto che tutto sovrasta.
Questo luogo geografico ha un nome conquistato dalle rotte aeree. Non è più il tempo della via della seta o delle spezie, neppure i diamanti, forse oggi l'uranio, e ahimè soprattutto il petrolio. La magia sta svanendo dalle nostre storie, dai commerci, dalla vita di ognuno. E la Terra è più povera. A causa delle nostre abitudini che prevedono uno spreco perenne delle materie ormai rare.
Con compagni sconosciuti, alcuni dei quali diverranno nuovi amici, mi immergo nel consueto caos di Delhi. Mi stupisco dello scarso numero di indiani fermi oltre la porta di uscita dall'aeroporto, ed è anche più tollerabile il loro assalto, alle 15 di questo sabato.
Ritrovo subito lo stesso traffico e il vocio stonato dei clacson, e mi stupisco di contare solo tre carretti trainati da candidi bufali, adorni di corna regali.
Passiamo due volte sotto l'imponente statua di Hanuman, incastrato tra sopraelevate poco rispettose del divino. Siamo diretti al semplice hotel Royal Residence immerso tra viali grigi e vicoli sordidi.
Sotto cavi volanti e fatiscenti pali della luce, impettita come una sovrana moghul una madre placida e truccata, con il suo bambino ben stretto, avanza a stento su un rickshaw traballante.
Negozi invisibili, grigi, incastrati gli uni negli altri. Siamo intorno alla Saraswati Marg.

Inizia il viaggio che sarà arduo.
Il treno per Pathankot mi riserva una cuccetta in terza classe senza aria condizionata, che io chiamo quarta classe. Almeno mi trovo tra monaci tibetani che fanno il medesimo tragitto e vivaci famigliole indiane con bambini.
Su questo treno di ferro che sa di antico, in cui predomina il blu, mi sento nel bel mezzo di una massa compatta di umani.
Sui sedili laterali una donna allatta una bimba avvolta nel suo saree, e poco oltre siede un monaco tibetano dalla veste rossa. Il piccolo Raj mi sorride subito, e mi chiede l'ora. Quando rispondo scoppia a ridere, e così fa sua madre, che mostra denti corti e distanziati, la tikka rossa e un brillantino sul naso.
Lobsang apre il suo libro a fogli singoli, e anche guardandomi resta concentrato sulla recitazione. Poco prima aveva scambiato qualche battuta (in hindi?) col padre di Raj, il quale mi chiede l'ora di nuovo.
Mi faccio ripetere il nome della città dove lui e la famiglia sono diretti, ma non capisco se sia prima o dopo Pathankot. In effetti quando scendo, alle 8 del mattino dopo, la famiglia è ancora tutta avvolta più o meno insieme nelle loro coperte.
La madre di Raj mi chiede se voglio portarmi suo figlio in Italia. Avrà otto anni e dai suoi occhi vivacissimi intuisco che sarebbe anche disposto a questa proposta.
Al mattino, le porte del treno si spalancano definitivamente perché un sikh in abiti marroni, turbante incluso, si posiziona a osservare l'alba che appare tra le poche palme e la scarsa vegetazione.
I monaci si lavano i denti nel minuscolo lavandino tra i vagoni, e si rassettano la biancheria gialla. Lobsang mi guarda, ma non capisce il mio inglese, gli sorrido, risponde a stento.
È il vagone dei più poveri, ma almeno non abbiamo avuto scarafaggi e topi come ho sentito da Patrizia che ha dormito qualche carrozza più oltre.
Potrei chiedere a Lobsang qualche chiarimento su alcuni aforismi del Dhammapada che sto leggendo e interpretando con un po' di difficoltà. Magari non è lui Lobsang, ma l'altro monaco che dorme ancora nella cuccetta superiore, e ora russa, avvolto nella sua coperta color porpora.
Respiro la solidarietà degli umani, coloro che non sanno nulla di me, né io di loro; eppure mi sento vicino a loro, dopo aver condiviso per una notte il medesimo spazio.

In quella che io affettuosamente chiamo la 'piazzetta' di McLeod Ganj, tra il rutilante vorticare del traffico veicolare e umano, stazionano degli individui un po' spettrali, che ispirano ben poca fiducia. La loro caratteristica saliente pare quella di guardare torvo davanti a sé. Non capisco perché rimangano in piedi tutto il giorno. Non sembrano attendere nulla. Barboni unti, sguardi inquietanti, abiti arabi dal colore grigio-marrone molto vissuto. Alcuni con un berretto piatto. Stanno lì fermi, ruotano unicamente la testa, quasi a seguirti, chiedendoti interiormente dove stai andando e perché ti agiti. Decisamente fuori contesto. Ma in India ogni cosa convive, in questa terra di base indù, con la comunità tibetana-buddhista per eccellenza e questi sparuti figuri islamici.
La mia cena all'Ashoka Restaurant è molto piacevole: Veg biryiani piccantissimo e un mix di veg, accompagnati da un buon naan. Il bagno è al terzo piano, dove la terrazza offre uno splendido panorama sui monti, il villaggio e il tempio dorato che crea un certo contrasto con le modeste abitazioni che lo circondano.
Stasera noto una manifestazione di monaci, un lento sfilare di candele per le poche strade di questa contrada ora buia, meno attiva e frequentata, dove ogni angolo pare deserto e invece pullula di vita e di mistero. La protesta è stata causata dall'arresto di alcuni monaci in Tibet. La tensione con la Cina si fa sentire. Fra qualche giorno arriverà la notizia dell'uccisione di quattro eroi tibetani.
'Il Tibet simbolizzava per me la libertà spirituale. Quando ci arrivai lo trovai trasformato in una prigione da cui neppure Budda poteva liberarsi' - intervista a Ma Jian (scrittore cinese, nato nel 1953) - LaRepubblica, agosto 2008.
'Solo in una Cina democratica il Tibet potrà avere democrazia e autonomia' - intervista a Zhou Qing (intellettuale cinese, nato nel 1965) - L'Espresso, agosto 2008.
La situazione in Tibet, il Paese delle Nevi, è alquanto dolorosa, e questo da diversi decenni. Numerose sono le violazioni dei diritti dell'uomo e delle libertà individuali. 'Sogno un nuovo Tibet, - un paese libero, una zona di pace'. (Dalai Lama).
Il bilancio ufficiale dei moti di marzo 2008 a Lhasa è di 191 morti, 1300 feriti, 1800 monaci dispersi e oltre 5000 arresti, come riporta Naoki Tomasini di Peacereporter.net sul notiziario di Emergency n.47 di giugno 2008.


Goccioline - un memoir
'Amate acque'



La vecchia sedia a sdraio cigola, vacilla. La ricordo in un'altra casa, nel giardino di pitosfori ed eucaliptus che ampio ancora circonda il villino fatto costruire da mio nonno Guglielmo. Chissà quante volte i membri della mia famiglia si sono adagiati su questa sdraia dalla tela blu, un po' sgangherata, magari all'ombra del giovane pino piegato dal vento di mare, quello stesso albero dal tronco tormentato che mia madre, due anni prima della mia nascita, piantò vicino la semplice recinzione dal lato della ferrovia.
Ti contemplo, vasto come sei, immutabile, mai immoto, e sempre mutevole.
Apprezzo le tue profondità e la tua schiuma, quando con prepotenza amorevole ti abbatti sulla riva timida, o ti schianti sugli scogli ormai logori.
Non sei semplicemente un ammasso di acqua infinita, né un insieme disordinato di gocce preziose; non sei un mare qualsiasi, uno dei tanti che brillano su questo pianeta d'un universo in espansione. Sei il mio mare, quello che per primo ho conosciuto, quello che i miei occhi bambini hanno assaggiato, quello per il quale le mie sensazioni si sono accalcate per capirti e capirmi.
Il fragile legno sotto di me scricchiola ancora. Continua a crepitare, comunicando con me; è il suo modo di vivere. Molte delle persone che ha conosciuto e cullato non ci sono più, volate in altri più sottili reami.
Come sarai stato il giorno del nostro primissimo incontro, il nostro lontano fidanzamento? Avrai mantenuto la tua calma trasparente, col cielo all'orizzonte a confondersi con il colore della tua essenza lontana, o avrai creato miliardi di onde precipitose e giocose, scintillanti e fantasiose per mettere in scena lo spettacolo per me più esuberante che la natura conosca?
Il mio sguardo di adulto si perde ora nell'estensione di acqua che ho di fronte. Sono solo, in un freddo che mi inumidisce le ossa, e la casa non è la stessa di questi ricordi.
Da allora il mare che osservo non ha fortemente mutato le sue forme. Mio padre lo amava molto, e lo raggiungeva più spesso che poteva. Solo sentirne il profumo lo estasiava, o anche ascoltare il suo perenne ruggito. Lui, nato in un villaggio di mare, era stato dalla vita, dalle ingombranti esigenze di lavoro e da varie occasioni, condotto di qua e di là nelle regioni della penisola, ma il suo cuore non dimenticava mai il suo mare, lo Jonio calmo e potente.
Così, con la medesima intensità, io amo la Ganga di Rishikesh, la madre e la dea di tutti i fiumi. E proprio come il sacro fiume dell'India, il mare rappresenta, neppure troppo simbolicamente, l'acqua di cui i nostri corpi umani sono composti. È la madre che nutre, e il profondo sconosciuto inconscio che sottilmente ci induce ad agire. Siamo goccioline della sua stessa vastità.
Mi trovo realmente di fronte a qualcosa di eterno. Mutevole, nella forma, e nell'identità delle singole particelle, ma sempre presente come entità. A prescindere dai pesanti cambiamenti che l'uomo con le sue maldestre attivitò lo costringe a subire.
Come la vita coi suoi inderogabili principi, il mare esiste e muta poiché la vita è mutamento. Sono certo che ogni volta che tornerò, e potrà essere tra pochi giorni o tra vent'anni, è uguale, lui sarà qui ad attendermi. E nella sua clamorosa magia, potrò anche trovarmi in un altro luogo, bagnato da un mare differente, potrebbe anche essere l'oceano sconfinato e bizzarro, lui sarà di nuovo lì ad accogliermi, ad offrirmi il suo benvenuto e l'abbraccio di Poseidone.
Il mare rammenta i miti, essendo prossimo all'incanto fascinoso di storie leggendarie, a sottili utopie dell'anima, ad avventure inenarrabili ma sempre narrate per il gusto di conoscere e approfondire. Il mare cela i suoi cangianti misteri, e gli abissi indiscutibilmente ci attraggono, fucine inconsce perennemente attive.
Il villino con il pino contorto è ancora prossimo alla ferrovia. Ogni volta che mi trovo su quella tratta del treno, guardo il pino della mia infanzia curvato dal vento e dalla ferraglia dei convogli veloci, e con un miscuglio impronunciabile di emozioni eterogenee, comprendo che lui è un po' mio fratello.



Simenon - venti5 romanzi



'I fantasmi del cappellaio'
1948

Siamo di nuovo – dopo l’epopea dei Donadieu, che risale al 1936 - a La Rochelle, nelle case Louis XIII di rue du Minage, e due uomini si osservano: Léon Labbé e Kachoudas, un cappellaio e un sarto, attraverso “le finestre di fronte” (pag. 99, ed. Adelphi – 1999). Il primo è schiavo di un rito compiuto alla perfezione, con un “ordine minuziosamente studiato” (pag. 36); ancora una volta troviamo quelle “abitudini regolari” (pag.42) che spesso caratterizzano i personaggi di Simenon.
Nelle primissime pagine del romanzo questi due uomini paiono quasi confondersi, vista la simmetria della loro attitudine a osservare l’altro, i mestieri simili, la vicinanza fisica e al contempo la distanza – per provenienza e mancanza di comunicazione.
Kachoudas, il sarto armeno, “seduto a gambe incrociate sul tavolo da lavoro” (pag.12) ricorda il sarto ebreo – anche qui un uomo identificato da origini lontane – semplicemente intravisto in ‘Trois chambres à Manhattan‘ (“un ometto anziano che, seduto a gambe incrociate su un grande tavolo, passava intere giornate a cucire”, pag.63 del romanzo del 1946 – ed.Adelphi 1999).
Nell’aria si percepiscono “le sirene dei battelli” (pag.72) e “la sirena della boa” (pag.46), per ricordarci l’ambientazione di città portuale. E ritroviamo anche l’attenzione di Simenon ai colori del giorno, alle variazioni della luce: “immersa nella luce giallo oro del sole” e “il porto era di un azzurro compatto” (pag.72); affascinante è la “luna d’argento” (pag.87).
Veniamo ben presto a conoscere la verità mentre lentamente si delinea la vita di Labbé (che non ama “l’intimità degli altri” - pag.66) e della coppia Mathilde-Léon. E anche per mezzo di una semplice “occhiata alla casa di fronte” (pagg. 87 e 108), rivolta al “povero diavolo” (pag.48), “pavido” (pag.15), “povero artigiano armeno” (pag.91), Labbé ha bisogno del confronto – anche silente – con l’altro. Il giornalista Jeantet ha una funzione similare, anche se il dialogo tra loro avviene attraverso articoli di giornale. Ci avviciniamo con gradualità alla motivazione dei crimini del cappellaio, plasmati con “stile” e ordinata “simmetria” (pag.74).
“Si trattava di una necessità” (pag.98), afferma con certezza Labbé, mentre veniamo a conoscere i suoi fallimenti giovanili e le sue relazioni intime: nel passato Jeanne Binet (“impudica al massimo” - pag.109), proiettata poi nella signorina Berthe, che riceveva in rue Gargoulleau, nonché la moglie Mathilde, uccisa da sei settimane (un campanello d’allarme: “aveva cominciato ad assomigliare alla signora Binet” - pag.121), una pescivendola dei vecchi tempi (“una monella di strada” - pag.115), e infine la vittima inutile, Louise (“carogna”, pag.101; “schifosa”, pag.131; “musona”, pag.151). Mathilde Labbé ricorda per assonanza Mathilde Lannec nata Pitard, dall’omonimo romanzo, un’altra moglie mal sopportata. Al suo arrivo a Parigi negli anni ’20 Simenon è stato segretario dello scrittore Binet, o meglio Jean Binet-Valmer.
“Le odiava tutte, quelle donne […] per la vergogna […] tentazione […] impulsi criminali” - pag.107: sembra quasi una formula per capire quest’uomo “perfettamente normale” (pag.102) che arriva a “scendere molto in basso, nel fango” (pag.131).
Forse Labbé prova invidia nei confronti della vita tranquilla, rassicurante, tipicamente familiare del sarto. Il suo piano meticoloso crolla nel momento in cui Kachoudas si ammala e muore, venendo così a mancare a Labbé il sostegno invisibile dell’uomo en face (il titolo originale de ‘Le finestre di fronte’ è ‘Les gens d’en face’ che sottolinea l’importanza delle persone). “Al cappellaio faceva piacere avere almeno un testimone” si legge nel racconto preparatorio ‘Il piccolo sarto e il cappellaio’ (‘Le petit tailleur et le chapelier’, 1947).
In rue Réaumur, teatro delle vicende de ‘Il testamento Donadieu’, abitano anche il senatore Laude e la vedova Geoffroy-Lambert. A pagina 44 leggiamo: “vide spuntare le sue gambe, poi il busto, e infine la faccia” (è Labbé che scende in negozio) che ricorda il momento in cui Martine osserva sua madre andar via in ascensore – “la vide scendere, ridursi poco a poco a un busto, una testa, un cappello” (‘Il testamento Donadieu’ – pag.373).
Un film di Chabrol del 1981.
“Adesso i fantasmi mi cercano, ma non mi trovano, almeno per il momento” disse Kafka nel 1923, e “vorrei sapere se sono sfuggito ai fantasmi”.
Labbé (la “noia opprimente” - pag.69, “intorno a lui, niente era cambiato” - pag.108) crea i suoi stessi fantasmi e l’ossessione lo spinge al suo stesso annientamento.






Creando paradisi



versione aggiornata - marzo 2010
prima versione ridotta - 2009


Come teorizza Kandinsky in 'Punto linea superficie' ('Punkt und Linie zu Flache', 1926), l'esistenza (o l'essenza) della linea distrugge il punto.
Il punto (Punkt) crea la linea (Linie) ma scompare, muore, ne viene assorbito. Il punto genera il movimento, lo produce, grazie ad un preciso atto di volontà: suo o dell'artista che lo fa spostare sulla superficie (Flache) di esistenza. L'uomo (il punto) si muove sulla superficie della terra (il luogo dell'esistere, dove è ri-conosciuta la vita). Compie spostamenti di varia natura; anche le cause sono diverse: viaggi di piacere e relax, doveri vari, lavoro.
Il punto si distrugge? Come inevitabile conseguenza del movimento si viene a creare un nuovo se stesso, un altro punto al termine della linea.
B è il punto che comprende e ingloba il primo punto (A, l'inizio) e l'esperienza della linea, che è il suo tragitto; conosce il percorso effettuato (sulla superficie) e il 'contenuto' dei vari punti di cui la linea è costituita.
Da ognuno dei punti 'attraversati', che rappresentano altri sé stesso, il punto iniziale può avere nuove visioni dell'altrove.
Il punto parte da una posizione che possiamo chiamare A. Ovviamente conosce l'essenza di A poiché è la sua natura; non deve far nulla per conoscerla perché fa già parte di sé: deve solo guardarsi dentro. Ciò che è lì, è la sua verità. Se osserva nelle direzioni intorno a sé, vedrà invece il contorno di A, nelle sue distinte prospettive.
Kandinsky la definisce 'conquista della superficie'.
Il punto, nel tempo, giungerà all'estremità limite della sua corsa lungo l'itinerario (la linea percorsa). La posizione di arrivo è B. In B sarà consapevole del cambiamento avvenuto, del proprio cambiamento. È un cambiamento che coinvolge la sua essenza, il suo stesso essere.
Era in A, era A, si percepiva come A e il suo orizzonte conoscitivo coincideva con la visione della realtà (della superficie, ovvero del mondo) registrata dalla posizione A (VA). In B, l'arrivo, il punto (il soggetto, l'uomo, il viaggiatore) si renderà conto di essere B (essere divenuto, nel tempo - dove divenire e tempo sono nuovi concetti) e di un iter grazie al quale ha potuto (si è potuto) trasformare in B, e conoscere la differenza tra essere A ed essere B. Inoltre ha ora la visione (VB) della realtà osservata nelle direzioni che si dispiegano da B. In più può aver assorbito le essenze di tutti i punti (stati d'essere) che separano A da B lungo la linea; punti che teoricamente potremmo considerare in numero infinito.




le mie creazioni disponibili in Internet - foto e alcuni scritti

e anche su 'ilmiolibro.it'



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