“Dalla parte di Swann” di Marcel Proust (1871 – 1922) (traduzione di Giovanni Raboni)
Vi è un nastro poetico, morbidamente lanciato e teso tra le varie parti dell’opera. L’amore e il tempo (passato e presente) rivaleggiano intrecciandosi in momenti d’eternità. Ugualmente si avviluppano le vicende sentimentali del Narratore e di Swann. E se questi due temi non fossero sufficienti a dare spessore all’opera e alla vita, il giovane Narratore si addentra nelle ombrose nebbie del mito: gli adulti, la nobiltà (gli dèi appena intravisti, ovvero i Guermantes), i sentimenti e i pensieri, la vita vissuta (a volte soltanto immaginata come dietro un velo); tutto quello che va oltre la concretezza ristretta del suo “punto fisso e dolente” (pag. 12, ed. A.Mondadori). Il Narratore crea la sua lanterna magica, in cui danzano mille personaggi, creati o reali, proiezioni o archetipi.
Tormenti paralleli per i due uomini: gelosia per Swann e indifferenza per il Narratore. Le due donne, che sono madre e figlia, Odette e Gilberte, sono associate allo stesso colore: “ombrello mauve” (pag. 506), “vestito mauve” (pag. 507), “cuffietta mauve” (pag. 513) – riferiti a Mme Swann - e “un nastro mauve” (pag. 486), “una cascata di nastri mauve” (pag. 495) circonda il pacchetto che Gilberte consegna al Narratore. Stessa tonalità per la mitica duchessa di Guermantes, un’apparizione soprannaturale, con la sua “cravatta malva” (pagg. 213 e 216).
E questa di Proust è anche la ricerca di “realtà invisibili” (pag. 256), di “una realtà superiore alle cose concrete” (pag. 287), da parte di un raffinato, imprendibile “esploratore dell’invisibile” (pag. 424).
La melanconia ben presto invade la vita e le attese: “Taceva, guardava morire il loro amore” (pag. 437).
Questa lettura è “una conversazione svagata e brillante” (Giovanni Raboni) che arricchisce e illumina un tempo perduto. Alla conquista delle “terre riconquistate all’oblio” (pag. 82), il cui scopo è la “poursuite du passé” (“Projet de Préface du Contre Sainte-Beuve”), “cette substance invisibile du temps” (intervista di Proust al “Temps”, novembre 1913).
Immagini eleganti: “il velluto viola dell’aria serale” (pag. 78), “dal verde cavolo al blu susina” (pag. 209).
Puntualizzazioni sagaci: “Il suo amore per la sincerità non lo aveva reso migliore” (pag. 435), “Non si ama più nessuno quando si è innamorati” (pag. 482), “Il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante” (pag. 515 che conclude il volume).
Proust osa molto, per i suoi tempi, soprattutto nella descrizione del rapporto lesbico di Mlle Vinteuil con “una complice tanto snaturata” (pag. 200), episodio cardine che avviene a Montjouvain.
E cosa dire infine delle sue “frasi ondulatorie” come le definisce Roberto Calasso, “La letteratura e gli dèi”? Piero Citati fa riferimenti ai “periodi più onniavvolgenti della Recherche” (LaRepubblica, 26 febbraio 2010).
“Ricordare il passato, dunque, fa bene alla salute e aiuta a combattere demenza senile e infarto” sostiene Alex Haslam, docente di psicologia sociale (da un articolo di Sara Ficocelli, LaRepubblica del 25 settembre 2009).

"India segreta" di Paul Brunton (1898 – 1981)
Amo i viaggi. I viaggiatori e l’India. E chi osa esplorare l’altrove.
Nel 1930 Brunton è in India, alla ricerca di qualcosa, di sé, di una via, di un maestro. Troverà la figura di riferimento, un saggio di grande carisma e sarà un momento importante, un riconoscimento definitivo. Il suo atteggiamento – l’ho apprezzato molto - è di apertura e di accettazione, di sana incredulità mentre cerca sempre di capire chi ha di fronte a sé, unendo la razionalità occidentale ad una sincera sete di misticismo.
È “uno scrittore errante” (pag. 179) come vorrei essere anch’io. Molto interessanti i colloqui con Ramana Maharishi. Non si fanno più viaggi così, sedotti come siamo dall’attuale mordi-e-fuggi imperante. Brunton si fa guidare da intuizioni e dai consigli di molte persone incontrate, rimanendo aperto al possibile. Zigzaga così per l’intero continente indiano. Altri tempi, medesime esigenze.
Completamente assente il sentimento di conquista che spesso animava certi viaggiatori dell’epoca. Una bella umiltà.

“La nausea” di Jean-Paul Sartre (1905 – 1980)
Dopo “Lettera al mio giudice” (1946) di Simenon, mi è sembrato naturale rileggere questo testo del 1938 che avevo molto apprezzato da ragazzo. Ho ritrovato alcuni sintomi del medesimo malessere evidenziato da Simenon (“sensazione di vuoto”, “un’inquietudine vaga”, “vuoto totale”, “nausea atroce” confessa il protagonista Charles Alavoine).
"Mi sono sentito vuoto" si dice Antonio Roquentin, e anche lamenta la pesantezza di "un vuoto intollerabile". Stordito da tutto ciò che lo circonda, dalla distanza che sente separarlo dagli altri, si chiede: "è dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza?".
La rivelazione finale giunge, per Sartre, ancora più grave: "La Nausea [...] sono io stesso".

“Tristi tropici” di Claude Lévi-Strauss (1908 – 2009)
Una civiltà ne visita/studia un’altra. Lévi-Strauss, barbuto e occhialuto, ci mostra molte cose: il Brasile fondamentalmente, ma anche l’India e Birmania, Chittagong e Calcutta, Taxila e Dacca. C’è anche altro in questo libro: il futuro del’Europa, il tropico orientale e un passato di maggior equilibrio tra uomo e natura.
“Che cosa siamo venuti a fare qui?” si chiede l’autore, come farà Chatwin diversi anni dopo. Anche i grandi (ricercatori, pensatori, viaggiatori, saggi, scrittori) sono assaliti – fortunatamente – da dubbi (esistenziali, morali, filosofici), e non solo noi umili lavoratori, impiegati, operai, lettori rimasti invischiati nella lamentata decadenza (decrescita) del mondo globalizzato e culturalmente fatiscente.
“Il viaggiare è un inganno” si legge altrove, nelle tracce accennate di una commedia da Lévi-Strauss scritta in un momento di riflessione e ripensamento. I grandi viaggiatori se lo chiedono quando la confusione si genera, ed è il momento della sovrapposizione di pensieri mentali e spostamenti fisici. Lévi-Strauss ha compiuto anche un passo in direzione antitetica, scavalcando la certezza rigida del tempo, in un territorio sconosciuto, come fosse un pianeta inesplorato, inconscio primordiale, umanità interiore, sviluppo culturale delle nostre origini, specchio d’ogni possibile divenire, incompatibilità temporale. È stato capace di mantenere uno sguardo sempre umano, inconsapevolmente compassionevole nei divari sociali. E così offre a noi, distanti lettori, importanti occasioni per riflettere sulla società (moderna, occidentale) in cui viviamo.
Saranno anche tristi questi tropici, ma sono vivi, o forse è meglio dire che lo erano? Li abbiamo, a distanza di decenni, contaminati, asserviti completamente, trasformati, e indotti nella nostra tragica spirale di cieco consumismo materialista?
All’epoca l’etnologo – accade ancor’oggi? – portava con sé doni occidentali per scambi proficui con le popolazioni locali e i rappresentanti di tribù remote: “giocattoli […] specchi […] anelli e profumi”. Gli oggetti locali (anche l’“arte religiosa da paccottiglia”) finivano invece nelle teche del Musée de l’Homme, Palais de Chaillot. Lévi-Strauss, nelle sue tante peregrinazioni, aprì anche una bottega in pieno Brasile, riuscendo a vendere agli indigeni collane e altre mercanzie, ami e perle, acquistate in Canal Saint Martin e altri magazzini parigini gestiti da cechi. Pare che abbia anche dato del whisky a una scimmietta.
Un libro colmo di pensieri: una riflessione sulla “nostra immagine esotica”, un’ identità umana profonda, preziosa e anche sulla scrittura come “memoria artificiale”, ma anche e soprattutto per “facilitare l’asservimento”.
Interessante registrare, oggi in cui tutti hanno visitato Delhi e dintorni, la notazione di Lévi-Strauss sul Forte rosso: “accampamento idealizzato”.
Tra le tante popolazioni Lévi-Strauss visita e studia anche i Bororo; esiste anche una popolazione dallo stesso nome che abitano il Sahara del sud, Sahel, “pastori in cenci”; sono i Wodaabe, ritratti da Herzog in un documentario.

"Le radici del cielo" di Romain Gary (1914 – 1980)
Prendendo esempio dalla bellezza maestosa e selvaggia dei branchi di elefanti, il francese Morel – non compreso - incita alla libertà nei grandi spazi africani, primo grido di ecologia difficoltosa.
La nostalgia aleggia come una presenza informe, ingombrante e talmente naturale da indurre pensieri profondi, mentre la vita prosegue oltre la fuga dalle proprie esistenze.
Morel induce/costringe a pensare, a guardare oltre le convenzioni, le abitudini dei colonizzatori (“uno sfruttamento vergognoso”, “proteggerli […] dal veleno materialista”), che sono i noti sfruttatori del mondo altrui, del suolo, della fauna selvaggia e delle risorse tutte. Il suo è un discorso così fuori dal tempo, oltre ogni mente a lui contemporanea, che ognuno può scorgervi soltanto qualcos'altro, da ipotetiche minacce che rovinerebbero sulla società a varie rivoluzioni spaventose, e non la semplice salvaguardia dei pachidermi.
"Gli uomini hanno bisogno d'amicizia" viene detto più volte, poiché è un libro sulla libertà e sui bisogni dell’uomo (“gli uomini hanno bisogno degli elefanti” e “bisogno di protezione”). Bisogni comuni e una strana, comprensibile identificazione: "In fondo, sono anch'io un elefante".
A un livello più profondo, si capisce fin da subito che gli elefanti sono solo la scusa per parlare d’altro: l’occidente che avanza e distrugge (il libro è stato scritto nel 1956): la solitudine dell’umanità, i cambiamenti incalzanti cui è difficile adattarsi, un mondo (l’Africa e la sua antica magia) sull’orlo di scomparire, il modo in cui l’uomo da millenni ha creato sé stesso, la fragilità e le nostre mancanze interiori di uomini dell’era moderna.
Le parole scivolano come un flusso leggero. È un romanzo pieno, che ci restituisce il sano piacere della lettura, che ci permette di scorgere dietro la sincera lotta per la tutela degli elefanti un grido, sempre valido, per la rivendicazione della dignità e dei diritti dell’umanità e di ogni essere vivente.
“Germogli che tentavano di aprirsi una strada nello spessore di una rassegnazione millenaria”.

"Solaris" di Stanislaw Lem (1921 - 2006)
L'oceano del lontano pianeta Solaris è l'inconscio collettivo che crea gli "ospiti" o "creazioni F", creature che divengono man mano consapevoli, emanazioni di una massa vivente, insondabile e misteriosa, un inconscio definito come un "cieco colosso liquido", un "colosso pensante" che "viveva, pensava, agiva". Allucinazioni o immagini olografiche del passato, il proprio vissuto e i ricordi resi concreti per nuove esperienze, alla ricerca della contraddizione-impossibilità d'esistenza (ad esempio l'abito di Harey senza chiusura).
Nella comunione finale di Kelvin con l'oceano, in un avvicinamento sereno risiede la pacificazione, il perdono, la guarigione del vissuto terrestre del protagonista, libero ormai della presenza ingombrante del suo ospite, Harey appunto. Kelvin non compie azioni drammatiche, resta in attesa di altre connessioni con la “creatura viva”, lasciando ben aperta una porta per il futuro.
Le creazioni rispecchiano le immagini delle nostre elaborazioni interiori ("Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi"); forse per questo Harey, la creazione di Kelvin, muta nel tempo e nelle versioni.
Non possiamo sottrarci, nel nostro cammino di uomini, al confronto con noi stessi. E' il coraggio dell'umanità, di questa condizione esistenziale. Ricordiamo ancora di possederlo, da qualche parte?
Logico comprendere la delusione di Lem rispetto alle due trasposizioni cinematografiche (di Tarkovskij del 1973 e di Soderbergh del 2002) e anche la difficoltà oggettiva di rendere sullo schermo un testo così complesso.
Siamo nel 1961, e non dobbiamo stupirci più di tanto se Lem prevede nel futuro ancora oggetti già obsoleti per noi, approdati nel XXI secolo, quali libri cartacei, valvole e bobine.

“La morte della bellezza” di Giuseppe Patroni Griffi (1921 – 2005)
Due ragazzi, nella Napoli devastata dalla guerra e dalle ripetute incursioni aeree, si scoprono casualmente in un cinema, e iniziano ben presto a giocare con corpi e sentimenti (“l’amore, vizio supremo”). Sullo sfondo di una città che rispecchia i loro stati d’animo e la ferocia degli eventi cui dovranno far fronte, vivranno la loro “passionaccia” e matureranno nella scoperta della vita, del desiderio e del sesso. “La bellezza è una crudeltà”, mentre “le donne possono aspettare” e scoprire che l’amore (“amor-punizione”) conduce spesso allo struggimento; “Piangere? […] è il dolore che diventa materia”.
La città nella sua bellezza scopre le proprie intollerabili ferite e si prepara ad altre devastazioni future: “una città che evoca pace nella sua geografia pigra e sdraiata, e canta sollievo e spasso”. Descrizioni erotiche e poetici momenti di vita; “dove c’è il mare c’è il destino dell’uomo”.

"Una vita all'improvvisa" di Franca Rame (1929) e Dario Fo (1926)
Un'interessante rivisitazione di un vissuto ampio e artistico, arricchita da tanti disegni di Fo, davvero belli.
Scrittura densa, politica, a volte drammatica o divertente nel ripercorrere una vita e una carriera di impegno e di arte. Momenti duri, teneri e intimi (ad esempio il racconto dei sogni di primo mattino - pag. 305), e comici ("Et CIA non volet" in bocca al papa in uno dei loro spettacoli) e di viva autocoscienza ("In fin dei conti sono ancora una donna").
Così, per concludere: "Forse da grande farò la locomotiva. Pazienza."

“Una donna decapitata” di Julia Kristeva (1941)
Una poesia - filosofica a volte - accompagna questo giallo. Considerazioni e flussi di pensiero comprensibili e ben dosati, equilibrio di ragionamento. Il percorso conduce alla fonte delle motivazioni psicologiche d’un atto ("rischiosi confini delle nostre vite psichiche", Kristeva “Sole nero” - sulla Duras) o di molteplici atti criminali, che si condensano e traducono nella decollazione della vittima. Questa era una donna dotata che si circondava di incomprensioni, mentre denaro e potere generavano, lo si sa, invidia e desideri malsani.
Il medesimo influsso proustiano si trova in "Un meurtre à Byzance", insieme a un altro strangolamento tra le scene iniziali. Le tracce proustiane sono qui molto evidenziate: “Sebastian à la recherche du père perdu” (titolo, pag. 55), “sa propre recherche du temps perdu” (pag. 118), “intermittences du coeur” (pag. 131), “du côté de chez Anne” (pag. 219), “Du côté de chez Sebastian, à la recherche d’une femme” (titolo, a pag. 289); nel medesimo testo Kristeva cita anche Swann e la sua Odette (pag. 202), nonché lo stesso Proust (pag. 427). Non posso non citare un bocciolo di poesia dischiusa: "j'ai touché son vent" (pag. 170).

“La Folie Baudelaire'” di Roberto Calasso (1941)
Il testo, scritto come sempre in modo magistrale, offre molti spunti di riflessioni sull'epoca del grande poeta e sulla letteratura, svelando molti segreti degli artisti del periodo. Particolarmente accattivanti e suggestivi i commenti e le note a diversi dipinti di Degas, Ingres e altri contemporanei.
E' piacevole farsi cullare da un linguaggio ricercato, ma non troppo distante e 'di testa'. Comunica, e ciò è molto importante. E raro.

“Uomo nel buio” di Paul Auster (1947)
Ben scritto e avvincente. Altre realtà, mondi paralleli. La stessa città con due nomi differenti, e situazioni di pace e di guerra che si alternano nella esistenza di Owen Brick. Due donne, Flora e Virginia. Due professioni, la libertà e la costrizione. Siamo in piena dualità. Ci sarà la possibilità di saltare – come per Owen e Virginia – da una all’altra? È più facile rendersi liberi o finire schiavi di uomini violenti? È possibile telefonare – comunicare, quindi – come fa Virginia, similmente ai protagonisti del film “Matrix”, tra un’esistenza e l’altra? È questo descritto da Auster il futuro degli umani? Il tutto parte dalla testa di uno scrittore insonne (Brill). In questo mondo passiamo da una città in pace (Worcester) a una situazione di guerra (Wellington). Brill col suo pensiero crea la realtà corrispondente al suo stato mentale ma lui è un uomo che porta con sé una quantità di abbandoni, dolori e lutti che lo inducono a proiettare torture e morte; la sua vita è infarcita di storie tremende.
Gli orrori delle guerre, lo abbiamo constatato in film belli e tremendamente delicati come “Non desiderare la donna d'altri” (2004) di Susanne Bier, restano attaccati all’anima, e questo vale anche per chi non le vive direttamente. In un mondo sempre più globalizzato, tutti viviamo tutti gli orrori del pianeta, e i pensieri ne vengono colorati.
“Il reale e l’immaginario sono tutt’uno”.
Non facciamo che colorare il mondo. Dovremmo imparare – almeno - a farlo bene.
Il nostro passato condiziona ovviamente il pensiero presente.

“Guida galattica per gli autostoppisti” di Douglas Adams (1952 – 2001)
Un libro gradevolmente ironico, perché è importante saper ridere anche di cose che non conosciamo. Navigando nello spazio, il protagonista si imbatte nei molto ‘terrestri’ problemi di potere e sopraffazione. E umanissimo risulta, perché depresso, il robot Marvin. Molte questioni in sospeso: esiste la Domanda Fondamentale? e la sua risposta potrà mai soddisfarci? i terrestri sono effettivamente liberi? cosa ci fanno schiere di topi nei nostri laboratori? come e dove è stata creata la Terra? e i fiordi norvegesi?

“Mezzanotte tutto di giorno” di Hanif Kureishi (1954)
“Le persone si ammalano quando non vivono la vita che vorrebbero vivere” (pag. 29): difficile non definirlo un problema di tutti. La lettura dei libri di Kureishi (“Il Budda delle periferie”, “Il dono di Gabriel”, “Il mio orecchio sul suo cuore”) risulta sempre stimolante. Ci conduce nella realtà, di fronte a problemi che sono di tutti. Storie di gente vera, amanti titubanti, sedie difficili da trasportare, conversazioni impossibili e divergenti, riflessi di un passato devastante, “una spietatezza ammirevole” (pag. 140), il dolore delle relazioni – anche se a volte pare che non ci sia proprio posto per la gioia – e poi lotte, tensioni, nevrosi e varie solitudini. Ogni vicenda contribuisce a farci capire che il mondo non è “un posto sicuro” (pag. 195) – fino ad arrivare all’affermazione: “il mondo era cenere” (pag. 207).
“Alcune dipendenze si chiamano amore” (pag. 87): il linguaggio è vero, onestamente crudo.
Solo a volte non sembra ben chiaro dove voglia condurre il lettore come nei racconti “È stato allora” e “Mattina nella coppa della notte”.
C’è una ricerca dei rapporti, di intensità, di affetti, di relazioni concrete e solide. In questi tempi ne siamo tutti affamati. E la mancanza, o la consapevolezza della difficoltà o del fallimento, rendono le cose difficili. Siamo costantemente a notte fonda, la mezzanotte della vita.
Tristemente divertente l’ultimo racconto, ironico, improbabile, sarcastico. Vero?

“La morte di Bunny Munro” di Nick Cave (1957)
Un romanzo tosto e accattivante, on the road. I frutti dei Bad Seeds creano storie intense e visioni eccentriche.
Molto sesso e tanto desiderio: sono l’ossessione erotica che sprona Bunny nel suo lento scivolare verso l’annullamento - non basteranno neppure le ripetute apparizioni del fantasma della moglie.
Tre generazioni – Bunny, suo padre malato e il piccolo Bunny Junior - si fronteggiano, ma nessuno di loro si attende di guarire rapporti logorati e l’assenza di comprensione.
Buona attenzione ai colori, capaci quasi di anticipare le azioni. Ritmo cinematografico e immagine rapide. Tradotto anche in Cina e India. A causa dei desideri inarrestabili di Bunny e del linguaggio altamente colorito, si consiglia la lettura ad un pubblico adulto, Bunny Junior incluso.
“Cos’è il sogno?” […] “Sono io”.

“Lanzarote” di Michel Houellebecq (1958)
Andare in vacanza in un’isola ignota, dispersa nell’oceano e mitigata dalla corrente del Golfo può implicare possibili esiti connessi al destino. Trastullarsi con due lesbiche tedesche decisamente disinibite o aderire a una setta poi coinvolta in atti pedofili (“erotismo sacro”). Il protagonista sceglie bene, e l’anno dopo ripiega su Bali.
Belle foto – scattate durante la gita a sfondo naturalistico, prima dei sollazzi germanici.
Nel dubbio, consiglierei Ischia o Ibiza.

“Odette Toulemonde” di Eric-Emmanuel Schmitt (1960)
Racconti di donne, interessanti, densi, commoventi, veri e rigorosamente spietati come la vita: Wanda che vuole gratificare l’uomo che la introdusse nel mondo, Hélène che finirà per apprezzare ogni aspetto della vita, Odile che non riconosce neppure se stessa, Aimée che, divenuta cinica per amore, aiuta senza saperlo l’estranea Kumiko, Isabelle che tocca due volte l’abisso del dolore, Rosa principessa che fugge dalla vita lasciando una traccia indelebile, Odette che ama lo scrittore in crisi, Olga e le altre che lasciano alle loro figlie un ricordo prezioso.

“Piccoli crimini coniugali” di Eric-Emmanuel Schmitt (1960)
Celiamo la verità e manipoliamo anche (soprattutto?) i nostri referenti d’amore.
La lotta è intestina, la comunicazione si interrompe, il divario divampa, il dubbio dilaga senza sosta; la dichiarazione d’amore di lei sarà vera?
La drammaticità del termine ‘piccoli’ profila una quotidianità che ci trasforma in criminali all’interno di una “coppia come un’associazione di assassini”.

“Le confessioni di Max Tivoli” di Andrew Sean Greer (1970)
Un libro ben scritto, con un linguaggio molto curato.
L’idea credo sia presa da un racconto del 1922 di Francis Scott Fitzgerald (vedasi anche il film “The Curious Case of Benjamin Button” di David Fincher): un uomo che nasce vecchio e ringiovanisce fino a diventare bambino
Ben costruito, anche se a volte tirato un po’ per le lunghe. Ma è forse vero che non siamo più abituati ai romanzi ampi. Io mi sono affezionato ai Simenon che hanno una lunghezza giusta, il numero di capitoli adeguato alla capacità di attenzione del lettore.
È vero, ci si appassiona alle vicende, soprattutto di cuore, del protagonista, anche se la forma del suo amore cela sempre un tocco di egoismo e la mancanza di aprirsi agli altri, di certo per paura di perdere la persona amata. A volte bisogna avere il coraggio di essere sé stessi, anche se difficile (lui si dipinge come un ‘mostro’), e di non negare agli altri la possibilità di scegliere, perfino arrivare a lasciarci, per quanto doloroso possa essere per noi. Non credo che l’egoismo vinca in amore.
L’autore in finale ci vuole far credere che sia una storia vera. Altro dubbio.

"Gstaad 95-98" di Marek van der Jagt (Arnon Grumberg, 1971)
"Eppure l'umanità è buona": da questa premessa, per il protagonista non scalfibile, unita ad un'ingenuità e un ottimismo infantile - utili a coprire qualsiasi dolore - inizia la narrazione di una esistenza.
La vita e la crescita viste dalla prospettiva di un bambino con difficoltà (?), forse semplicemente immerso in un caos ordinato di "sgradevolezze". "Il mondo degli adulti è complicato"; in effetti la realtà non è facile da comprendere.
"Finché siamo pronti a scuotere energicamente l'albero della virtù le mele cadranno da sole" - sembra lo stimolo, costante e cieco, a proseguire nella sua via.
Cose che gli adulti definiscono terribili, immorali o in altri modi, vengono vissute e analizzate con gli occhi - puri, innocenti, privi del benché minimo giudizio - del piccolo François, e con la capacità di adattamento ad una situazione complessa. Potrà elaborare una teoria bizzarra connessa alla vita, e forgiata dalla sua esperienza: "Dall'ano gocciolava compassione".
Molte interpretazioni della realtà non collimano con il concetto cristallizzato degli adulti: si generano così incomprensioni pericolose. Il bambino si divide, scindendosi in personalità sfaccettate, accettate, contorte, selvagge: François Lepeltier che ha il nome di suo padre sconosciuto, Rodolpho Ceccherelli, il sorvegliante adorato, Bruno Ritter, il perfezionista freddo.
Quando si ha la consapevolezza che la vita si sta sfaldando, nella sua "inaccessibilità" o la "superfluità", non rimane che la filosofia, o in alternativa la follia. Come poter sopravvivere a tutta questa perfezione?
"Volere troppo è la via più breve per l'infelicità".
Un bell’esercizio quello di saper gestire le nevrosi, quelle degli altri e successivamente le proprie, indotte dal comportamento di coloro che abbiamo incontrato e che determinano le nostre scelte e la visione del mondo. Questo libro è una lettura stimolante, i cui componenti prevedono anche fiducia, compassione, pietà.

“Storia della mia calvizie” di Marek van der Jagt (Arnon Grumberg, 1971)
Il giovane Marek è alle prese con i significati della vita, alla ricerca di ciò che può offrire un senso, ed è vero che all’età del protagonista-narratore si crede molto, quasi ostinatamente. Lui si rifugia nell’amour fou e nella poesia. “Forse l’amore era una questione di abitudine”.
La partenza non è però delle migliori: “Volevo vendicarmi della vita”. Lui potrebbe in effetti diventare un criminale o un innamorato folle, e non per noia o qualche fraintendimento. Cresce e resta giustamente confuso, sui segreti del corpo e le storie di famiglia (nascite improbabili e morti violente, tra l’altro) a cui è obbiettivamente difficile adattarsi e sopravvivere. Al meglio, come si desume dal titolo, si possono perdere i capelli.
Le storie di famiglia pesano su tutte le vite, condizionando pensieri e generazioni. Marek opera le sue scelte, non dimentica, anzi organizza e colleziona, prosegue, sceglie, perpetuando le follie amorose di sua madre che da ragazzina vide la testa di suo padre staccata dal corpo. “Come liberarsi della propria memoria?”
La ricerca del proprio equilibrio passa attraverso l’attenzione e l’amore (fou?).
“I matrimoni migliori sono quelli d’interesse” ricorda vagamente – perdonatemi - la frase di Proust “I matrimoni infamanti sono i più stimabili di tutti” (“All’ombra delle fanciulle in fiore”).

"Lotta di classe" di Ascanio Celestini (1972)
Cos'è la lotta di classe oggi, terzo millennio? Cos'è la lotta? A cosa si è ridotta? Senza più gli orpelli della nobiltà, è divenuta momento di sopravvivenza, giornaliero combattimento per difendersi da datori di lavoro scaltrissimi ma legalizzati, onnipresenti pubblicità subliminali, rampanti arrapati e concorrenza globalizzante. Il tutto vissuto nei panni simbolici di una squattrinata Barbie al macero ovvero al macello dell'esistenza, truccata per il mercato del consumismo a ogni livello, nella serrata catena di montaggio dell'offuscamento del pensiero, come robot pilotati dalle necessità economiche dei regimi, marionette degli umilianti call center inutili, vittime di mestieri nuovi e volutamente mortificanti, in vista di una schiavitù sempre più radicata in ogni angolo della società.
In tutto questo, quattro esseri umani ci raccontano le loro esperienze, in un intreccio tenero, reale, drammatico, tristemente vero e verificabile.
“La lotta di classe è una sana alternativa alla guerra civile o, peggio ancora, alla guerra di tutti contro tutti” - da un’intervista all’autore, che ha preso a cuore la situazione dell’azienda Atesia, call center romano, il più grande d’Europa.
“ Nel 2006 l’azienda (con sede nel quartiere di Cinecittà) è finita sulle prime pagine perché, con un blitz, gli ispettori del lavoro rilevarono che i 3.600 precari co.co.pro presenti erano, in realtà, lavoratori subordinati. Una vittoria per i sindacati che da tempo denunciavano l’uso indiscriminato dei contratti a tempo.” (“Corriere della Sera”, Carlotta De Leo - 17 maggio 2010).

“La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano (1982)
Interessante; alcune parti, quelle riferite all'età più adulta e al matrimonio, sembrano meno approfondite, inserite tanto per dovere, e quindi meno sentite e troppo veloci. Insomma mi hanno dato poco.
L’amore non vissuto e l’isolamento diventano un’abitudine, il ritmo della loro vita.
L’unione con chi ti è simile non guarisce. Traumi diversi non conducono ad un avvicinamento. Non più di tanto, almeno, come nel loro caso. I ragazzi sembrano molto simili, ma le loro ‘solitudini’ non possono unirli più di tanto, è solo la proiezione del lettore che vorrebbe vederli uniti e felici.
sì mi è piaciuta la loro consapevolezza. Che tuttavia non è riuscita a far loro superare le difficoltà della vita. Oh, come capirli!
Insomma, mi spiace che le loro rispettive solitudini da 'numeri primi' non abbiano consentito loro di creare qualcosa di più intimo, completo, integrale.
Si perde un po’ nelle scene del matrimonio e in genere nell'ultima parte, parti anche troppo descrittive quando non servono più di tanto. Molto profonda è la descrizione del disagio giovanile, vero, concreto, reale. E che condiziona e ci si porta appresso per tutta la vita. Il finale? Triste, giusto.

"Invisibile agli occhi" di Wolfang Fasser e Massimo Orlandi - ed. Romena
L'esperienza degli altri può essere fonte di saggezza e comprensione. Denso di emozione è il racconto di questo vissuto, le difficoltà e le rinunce, cose che abbiamo tutti vissuto. Sappiamo bene di cosa stiamo leggendo. Importante il sostegno dei genitori mentre avviano con affetto i loro figli nel mare tempestoso della vita.
"Dio mi ha pensato così come sono" (pag. 123), afferma Wolfang. Commovente è ripercorrere molti dei momenti della sua crescita: le terapie, l'ascolto, la spiritualità, la comunione con la natura amata, l'aiuto tra persone, la riscoperta delle relazioni umane, inventarsi un mestiere, una vita. E il suo essere cieco.






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