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FONTI |
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Qui
di seguito trovate i brani del Don Chisciotte riferiti agli
episodi citati nello spettacolo di Franco Branciaroli |
L'INIZIO
DEL ROMANZO |
CAPITOLO
I
DELLA
CONDIZIONE E DELLE OPERAZIONI DEL RINOMATO IDALGO DON CHISCIOTTE DELLA
MANCIA.
Viveva,
non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come
si chiami, un idalgo di quelli che tengono lance nella rastrelliera,
targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia. Egli consumava tre
quarte parti della sua rendita per mangiare piuttosto bue che castrato,
carne con salsa il più delle sere, il sabato minuzzoli di pecore mal
capitate, lenti il venerdì, coll'aggiunta di qualche piccioncino nelle
domeniche. Consumava il resto per ornarsi nei giorni di festa con un
saio di scelto panno di lana, calzoni di velluto e pantofole pur di
velluto; e nel rimanente della settimana faceva il grazioso portando un
vestito di rascia della più fina. Una serva d'oltre quarant'anni, ed
una nipote che venti non ne compiva convivevano con esso lui, ed
eziandio un servitore da città e da campagna, che sapeva così bene
sellare il cavallo come potare le viti. Toccava l'età di cinquant'anni;
forte di complessione, adusto, asciutto di viso; alzavasi di buon
mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il
soprannome di Chisciada o Chesada, nel che discordano gli autori
che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può
presupporre che fosse denominato Chisciana; il che poco torna al
nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta
non ci scostiamo un punto dal vero.
Importa bensì di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era
ozioso (ch'erano il più dell'anno), applicavasi alla lettura dei libri
di cavalleria con predilezione sì dichiarata e sì grande compiacenza
che obbliò quasi intieramente l'esercizio della caccia ed anche il
governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla manìa
d'erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a spropriarsi
di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di
cavalleria. Di questa maniera ne recò egli a casa sua quanti gli
vennero alle mani; ma nissuno di questi gli parve tanto degno d'essere
apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva, la
nitidezza della sua prosa e le sue artifiziose orazioni gli sembravano
altrettante perle, massimamente poi quando imbattevasi in certe
svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava
scritto: La ragione della nissuna ragione che alla mia ragione vien
fatta, rende sì debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della
vostra bellezza. E similmente allorché leggeva: Gli alti cieli
che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro
influssi, vi fanno meritevole del merito che meritatamente attribuito
viene alla vostra grandezza.
Con questi e somiglianti ragionamenti il povero cavaliere usciva del
senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato che lo
stesso Aristotele non avrebbe mai potuto deciferare, se a tale unico
oggetto fosse ritornato tra i vivi. Non gli andavano gran fatto a sangue
le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che di buon
diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste
impresse e vestigia e cicatrici, per quanto accuratamente foss'egli
stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l'autore perché chiudeva
il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche
stimolato le molte volte dal desiderio di dar di piglio alla penna per
compiere quella promessa; e senz'altro l'avrebbe fatto giungendo allo
scopo propostosi dal suo modello; se distratto non l'avessero più gravi
ed incessanti divisamenti. Ebbe a quistionar più volte col curato della
sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato
miglior cavaliere o Palmerino d'Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era
peraltro d'avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niuno al
mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se
qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galeorre fratello
di Amadigi di Gaula, da che nulla fu mai d'inciampo alle sue ardite
imprese; e non era sì permaloso e piagnone come il fratello, a cui poi
non cedeva sicuramente in valore. In sostanza quella sua lettura lo portò
siffattamente all'entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì,
il dì dalla notte; di guisa che pel soverchio leggere e per il poco
dormire gli s'indebolì il cervello, e addio buon giudizio. Altro non
presentavasi alla sua immaginazione che incantamenti, contese,
battaglie, disfide, ferite, concetti affettuosi, amori, affanni ed
impossibili avvenimenti: e a tal eccesso pervenne lo stravolgimento
della fantasia, che niuna storia del mondo gli pareva più vera di
quelle ideate invenzioni che andava leggendo. Sosteneva egli che il Cid
Rui Diaz era stato bensì valente cavaliere, ma che dovea ceder la palma
all'altro dall'ardente spada, il quale d'un solo manrovescio avea
tagliati per mezzo due feroci e smisurati giganti. Più gli piaceva
Bernardo del Carpio per avere egli ucciso in Roncisvalle l'incantato
Roldano, valendosi dell'accortezza d'Ercole allorché soffocò fra le
sue braccia Anteo figlio della Terra. Celebrava il gigante Morgante
perché discendendo egli da quella gigantesca genìa, che non dà che
scostumati e superbi, pure egli solo porgevasi affabile e assai ben
creato. Dava però a Rinaldo di Montalbano sopra ad ogni altro la
preferenza, e segnatamente quando lo vedeva uscire dal suo castello, a
far man bassa, di quanto gli capitava alle mani, derubando in Aglienda
quell'idolo di Maometto che era tutto d'oro secondoché riferisce la sua
storia. Avrebbe egli sacrificata la sua serva, e di vantaggio pur la
nipote alla smania che tenea d'ammaccare a furia di calci il traditor
Ganelone.
In fine perduto affatto il giudizio, si ridusse al più strano
divisamento che siasi giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e
necessario per l'esaltamento del proprio onore e pel servigio della sua
repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo
scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli
esercizii tutti dei quali aveva fatto lettura. Il riparare qualunque
genere di torti, e l'esporre sé stesso ad ogni maniera di pericoli per
condursi a glorioso fine, doveano eternare fastosamente il suo nome; e
figuravasi il pover'uomo d'essere coronato per lo meno imperadore di
Trebisonda in merito del valore del suo braccio. Immerso in tali
deliziosi pensieri, ed alzato all'estasi dalla straordinaria
soddisfazione che vi trovava, si diede la più gran fretta onde porli ad
esecuzione. Applicossi prima di tutto a far lucenti alcune arme di cui
si erano valsi i bisavoli suoi, e che di ruggine coperte giacevano
dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che
gli fu possibile, poi s'accorse ch'era in esse una essenziale mancanza,
perocché invece della celata con visiera, eravi solo un morione; ma;
supplì a ciò la sua industria facendo di cartone una mezza celata, che
unita al morione pigliò l'apparenza di celata intera. Egli è vero che
per metterne a prova la solidità trasse la spada, e vi diede due colpi
col primo dei quali, in un momento solo, distrusse il lavoro che l'aveva
tenuto occupato una settimana; né gli andò allora a grado la facilità
con cui la ridusse in pezzi; ma ad oggetto che non si rinnovasse un tale
disastro, la rifece consolidandola interiormente con cerchietti di
ferro, e restò così soddisfatto della sua fortezza che senza metterla
a nuovo cimento rinnovando la prova di prima, la ebbe in conto di celata
con visiera di finissima tempra.
Si recò da poi a visitare il suo ronzino, e benché avesse più
quarti assai d'un popone e più malanni che il cavallo del Gonella —
che tantum pellis et ossa fuit — gli parve che non gli
si agguagliassero né il Babieca del Cid, né il Bucefalo di Alessandro.
Impiegò quattro giorni nell'immaginare con qual nome dovesse chiamarlo,
e diceva egli a sé stesso che sconveniva di troppo che un cavallo di
cavaliere sì celebre non portasse un nome famoso; e andava perciò
ruminando per trovarne uno che spiegasse ciò che era stato prima di
servire ad un cavaliere errante, e quello che andava a diventare. Era
ben ragionevole che cambiando stato il padrone, mutasse nome anche la
bestia, ed uno gliene fosse applicato celebre e sonoro; e quindi dopo
aver molto fra sé proposto, cancellato, levato, aggiunto, disfatto e
tornato a rifare sempre fantasticando, stabilì finalmente di chiamarlo
Ronzinante, nome a quanto gli parve, elevato e pieno di una sonorità
che indicava il passato esser suo ronzino, e ciò ch'era per diventare,
vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo.
Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s'applicò
fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto
giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu
detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima
storia, che debba essa chiamarsi indubitamente Chisciada e non Chesada,
come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro
eroe che il valoroso Amadigi non erasi limitato a chiamarsi Amadigi
semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della
patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula.
Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere decise d'accoppiare
al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte
della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e
la patria, e davale onore col prendere da lei il soprannome.
Rese di già lucide l'arme sue, fatta del morione una celata, stabilito
il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui
non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere
errante senza innamoramento è come arbore spoglio di fronde e privo di
frutta; è come corpo senz'anima, andava dicendo egli a sé stesso. —
Se per castigo de' miei peccati, o per mia buona ventura m'avvengo in
qualche gigante, come d'ordinario intraviene ai cavalieri erranti, ed io
lo fo balzare a primo scontro fuori di sella, o lo taglio per mezzo, o
vinto lo costringo ad arrendersi, non sarà egli bene d'avere a cui
farne un presente? laonde poi egli entri, e ginocchioni dinanzi alla mia
dolce signora così s'esprima colla voce supplichevole dell'uomo domato:
— Io, signora, sono il gigante Caraculiambro, dominatore
dell'isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza
celebrato cavaliere don Chisciotte della Mancia, da cui ebbi comando di
presentarmi dinanzi alla signoria vostra, affinché la grandezza vostra
disponga di me a suo talento. Oh! come si rallegrò il nostro buon
cavaliere all'essersi così espresso! ma oh quanto più si compiacque
poi nell'avere trovato a chi dovesse concedere il nome di sua dama! —
Soggiornava in un paese, per quanto credesi, vicino al suo, una
giovanotta contadina di bell'aspetto, della quale egli era stato già
amante senza ch'ella il sapesse, né se ne fosse avvista giammai, e
chiamavasi Aldolza Lorenzo; e questa gli parve opportuno chiamar signora
de' suoi pensieri. Dappoi cercando un nome che non discordasse gran
fatto dal suo, e che potesse in certo modo indicarla principessa e
signora, la chiamò Dulcinea del Toboso perché del Toboso appunto era
nativa. Questo nome gli sembrò armonioso, peregrino ed espressivo, a
somiglianza di quelli che allora aveva posti a sé stesso ed alle cose
sue. |
L'EPISODIO
DEI MULINI A VENTO |
IL
RITROVAMENTO DEL LIBRO DI DON CHISCIOTTE |
SANCIO
LEGA LE ZAMPE A RONZINANTE |
L'AVVENTURA
DEL RAGLIO DELL'ASINO |
LA
FOLLIA DI DON CHISCIOTTE |
L'INCANTAMENTO
DI DULCINEA |
LE
FRUSTATE DI SANCIO |
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DEL
FORTUNATO COMPIMENTO CHE DIEDE IL VALOROSO DON CHISCIOTTE ALLA
SPAVENTEVOLE E NON MAI IMMAGINATA AVVENTURA DEI MULINI DA VENTO (VIII)
Ed
ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si
trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse
al suo scudiere: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi
non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono
manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di
azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle
loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire
Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove,
sono i giganti? disse Sancio Pancia. — Quelli che vedi laggiù,
rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d'essi le
ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse
Sancio, che quelli che colà si discoprono non sono altrimenti giganti,
ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle
ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. —
Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure;
quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in
orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.»
Detto questo, diede de' sproni a Ronzinante, senza badare al suo
scudiere, il quale continuava ad avvertirlo che erano mulini da vento e
non giganti, quelli che andava ad assaltare. Ma tanto s'era egli fitto
in capo che fossero giganti, che non udiva più le parole di Sancio, né
per avvicinarsi arrivava a discernere che cosa fossero realmente; anzi
gridava a gran voce: «Non fuggite, codarde e vili creature, che un solo
è il cavaliere che viene con voi a battaglia.» In questo levossi un
po' di vento per cui le grandi pale delle ruote cominciarono a moversi;
don Chisciotte soggiunse: «Potreste agitar più braccia del gigante
Briareo, che me l'avete pur da pagare.» Ciò detto, e raccomandandosi
di tutto cuore alla Dulcinea sua signora affinché lo assistesse in
quello scontro, ben coperto colla rotella, e posta la lancia in resta,
galoppando quanto poteva, investì il primo mulino in cui si incontrò e
diede della lancia in una pala. Il vento in quel mentre la rivoltò con
sì gran furia che ridusse in pezzi la lancia, e si tirò dietro
impigliati cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare buon tratto
per la campagna.
S'affrettò Sancio Pancia a soccorrerlo quanto camminava il suo asino, e
quando il raggiunse lo trovò che non si poteva movere; così fieramente
era stramazzato con Ronzinante. «Dio buono! proruppe Sancio, non
diss'io alla signoria vostra che ponesse mente a ciò che faceva, e che
quelli erano mulini da vento? Li avrebbe riconosciuti ognuno che non ne
avesse degli altri per la testa. — T'acqueta, amico Sancio, rispose
don Chisciotte; le cose della guerra sono più delle altre soggette a
continuo cambiamento; massimamente perché stimo, e così senza dubbio
dev'essere, che il savio Frestone, il quale mi svaligiò la stanza e
portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per
togliermi la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l'inimicizia
ch'egli mi porta! ma alla fine dei conti non potranno prevalere le male
sue arti contro la bontà della mia spada. — Faccia il signore quello
che sia per il meglio,» rispose Sancio Pancia, e l'aiutò ad alzarsi ed
a montare sopra a Ronzinante che stava mezzo spallato.
Quindi proseguendo il ragionamento sulla seguìta vicenda si avviarono a
Porto Lapice, dove don Chisciotte diceva che non
sarebbero mancate avventure, per esser luogo di gran passaggio: se
non che gli dava gran pensiero quel trovarsi privo della lancia; e
facendone parola collo scudiere, gli disse: «Ben mi sovviene di aver
letto che un cavaliere spagnuolo, chiamato Diego Perez di Vargas,
essendosegli rotta in un combattimento la spada strappò da una quercia
un pesante ramo, o forse il tronco, e con esso operò tai prodigi in
quel giorno e schiacciò tanti Mori, che gli fu posto il soprannome di Schiaccia;
e per tal guisa sì egli che i suoi discendenti si chiamarono da
quel giorno in poi Vargas e Schiaccia. Ciò ti dico perché dalla prima quercia o rovere in cui
m'abbatta, voglio staccare un ramo sì forte come se lo figura la mia
immaginazione, e tentare con esso tali prodezze che tu abbia a chiamarti
ben avventuroso che ti sia dato in sorte di vederle e di essere
testimonio a cose che mai saranno credute. — Alla buon'ora, disse
Sancio, io credo quanto vossignoria mi dice: ma di grazia, si raddrizzi
un cotal poco, che sembra ch'ella pieghi soverchiamente da questo lato;
forse per effetto della sua caduta. — Così è veramente, rispose don
Chisciotte, e se non mi lagno del dolore che sento, egli è perché non
è lecito ai cavalieri erranti il dolersi per nessuna ferita,
quand'anche uscissero loro le budella dal corpo. — Se la cosa è a
questo modo non so che replicare, rispose Sancio; ma sa Dio che io non
troverei punto sconveniente che vossignoria si lagnasse quando è
addolorata nella persona. Io per me, le dico che mi lagnerò di ogni
piccolo male, se già non s'intende che al pari dei cavalieri erranti
anche i loro scudieri si debbano astenere dal lamentarsi.» Non lasciò
di ridere don Chisciotte della semplicità del suo scudiere, e gli
dichiarò che potea lamentarsi a suo grado, e comunque gli tornasse in
acconcio, non avendo letto negli ordini di cavalleria proibizione alcuna
sopra di ciò. Sancio avvertì il padrone che si avvicinava l'ora del
pranzo, ed esso gli rispose che non ne avea voglia per allora ma che
mangiasse pure a suo grado. Ottenuta questa licenza, Sancio si accomodò
il meglio che poté sopra il suo giumento, e cavando dalle bisacce la
provvisione di cui le aveva riempite, andava dietro al suo padrone
camminando e mangiando molto posatamente; e di tanto in tanto attaccava
la borraccia alla bocca con soddisfazione sì grande da mettere invidia
anche nel meglio provveduto oste di Malaga: e così bevendo a quel modo
erangli uscite di mente le promesse del suo padrone, né gli pareva più
faticosa professione; ma piuttosto una specie di passatempo andare
cercando avventure, per quanto pericolose si fossero.
In fine passarono quella notte in mezzo agli alberi, da uno dei quali
staccò don Chisciotte un ramo secco, che gli potea in qualche modo
servire di lancia, appiccandovi il ferro di quella spezzata che gli era
rimasto. Non dormì in tutta la notte un momento solo, tenendo sempre il
pensiero alla sua signora Dulcinea per non iscostarsi un puntino da ciò
che aveva letto nei libri suoi, che i cavalieri passassero le notti
vegliando nelle foreste e nei deserti, trattenendosi colla memoria delle
loro signore. Non la passò però in questo modo lo scudiero Sancio
Pancia, che avendo lo stomaco pieno e non già d'acqua di cicoria,
consumò la notte intiera, in un sonno solo, e se il suo padrone non lo
avesse chiamato, non lo avrebbero potuto svegliare i raggi del sole che
lo ferivano nel viso, né il canto dei molti uccelli che giocondamente
salutavano il nascere del nuovo giorno. Nell'alzarsi stese la mano alla
sua borraccia, e trovandola assai più leggiera di prima se ne afflisse
molto, sembrandogli che la strada allora battuta non dovesse condurlo sì
tosto dove poter di nuovo riempirla. Don Chisciotte non volle assaggiar
nulla, perché, come s'è detto, erasi già pasciuto delle dolci
rimembranze della sua diva. |
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RITROVAMENTO
DEL LIBRO DI DON CHISCIOTTE (IX)
Questo
pensiero mi scaldava la fantasia, e facevami sempre più desideroso di
saper con ogni leal verità la intiera vita e i prodigi del nostro
famoso spagnuolo don Chisciotte della Mancia, luce e specchio della
mancega cavalleria, ed il primo che nell'età nostra e in tempi sì
disgraziati si applicasse all'esercizio ed al travaglio dell'arme
cavalleresche, a disfar torti, a soccorrere vedove, a difender
fanciulle, di quelle s'intende, che armate dello scudiscio sui loro
palafreni andavano di monte in monte e di valle in valle con tutta la
loro verginità; e se non era qualche malvagio cavaliere o villano
armato o smisurato gigante che le oltraggiasse, benché nel corso di
ottant'anni alcune non dormissero mai una volta al coperto, pur
sembrerebbero morte intatte come la madre che le aveva partorite. Dico
dunque e per questo e per molti altri rispetti, che il nostro don
Chisciotte è degno di memorabili ed eterne lodi; le quali a me pure
sono dovute per averne con tanta cura ricercata la dilettevole vita.
Ringraziato sia il cielo e la buona fortuna, senza il cui favore al
mondo sarebbe mancato lo squisito diletto che potrà gustare per quasi
due ore chiunque voglia leggere con qualche attenzione. Or ecco in qual
maniera mi riuscì di scoprirla.
Trovandomi un giorno nella strada di Alcanà in Toledo, capitò un
giovanotto a vendere scartafacci vecchi ad un mercante di seta ed io che
ho per costume di leggere ogni pezzo di carta, anche di quelle che
ritrovo per via, tratto da questo mio istinto presi uno degli
scartafacci che il ragazzo vendeva, e vidi che era scritto in caratteri
che riconobbi essere arabici. Ma non sapendo leggerli, mi posi in
attenzione per vedere se passasse per quella strada qualche Morisco
spagnolizzato né mi fu difficile ritrovare siffatto interprete;
perciocché andandomene in cerca ne avrei trovati anche di quelli per
una lingua più antica e più santa. In fine la sorte me ne presentò
uno al quale spiegai il mio desiderio nell'atto di consegnargli il
libro, egli lo aperse, e leggendone un poco si mise a ridere. Gli
domandai perché ridesse ed egli mi rispose che era per causa di una
annotazione scritta in un margine. Lo pregai che mi facesse sapere; che
cosa diceva ed egli, ridendo ancor più soggiunse: “In questo margine
è scritto così: Si dice che questa Dulcinea del Toboso, nominata sì
spesso nella presente opera, avesse miglior mano di ogni altra donna
della Mancia nell'insalare i porci. Quando intesi dire Dulcinea
del Toboso rimasi attonito e fuori di me, persuadendomi immantinenti
che in quegli scartafacci si contenesse la storia di don Chisciotte. Con
questa bella idea nella mente, pregai subito subito il morisco che mi
leggesse il principio del libro; ed egli assecondando il mio desiderio,
e traducendo l'arabico in castigliano, disse, che stava scritto: Storia
di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cid Hamet Ben-Engeli, storico
arabo. Durai molta fatica a dissimulare il contento che provai nel
sentire il titolo di quel libro; e togliendolo di mano al setaiuolo,
comprai dal ragazzo tutti i fogli e gli scartafacci per mezzo reale: che
se quegli avesse potuto conoscere a fondo il mio desiderio, me li
avrebbe fatti pagare anche sei reali.
Ridottomi con quel Morisco nel chiostro della chiesa maggiore, lo
ricercai che mi traducesse in lingua castigliana tutto ciò che
riguardava don Chisciotte, senza farvi la menoma alterazione,
offrendogli quella mercede che avesse chiesta. A prezzo di cinquanta
libbre d'uve passe e di due staia di grano mi promise di farne una buona
e fedel traduzione, ed in tempo assai breve; ond'io per agevolar
quest'affare e non lasciarmi sfuggir di mano sì bella fortuna, lo
condussi a casa mia, dove in poco più di un mese e mezzo tradusse la
storia al modo stesso come qui vien riportata.
Trovavasi nel primo scartafaccio dipinta al naturale la battaglia di don
Chisciotte col Biscaino, e in attitudine, come parla il libro, di tener
la spada in aria, l'uno coperto colla rotella, e l'altro col guanciale;
e la mula del Biscaino espressa al vivo per modo da scorgere anche a un
tiro di balestra ch'era mula da vetturino. A piede del Biscaino stava
scritto: don Sancio d'Aspezia, ché doveva esser questo il
suo nome, e in un altro cartello leggevasi a piè di Ronzinante: don
Chisciotte. Vedevasi Ronzinante dipinto meravigliosamente tutto
lungo, stirato, estenuato, debole con il filo della schiena, sì
asciutto ed etico dichiarato a tal punto, che mostrava a tutta evidenza
con quanta ponderazione e proprietà gli fosse stato posto il nome di
Ronzinante. A lui dappresso stava Sancio Pancia, che tenea l'asino pel
capestro, ed appié dello stesso eravi la iscrizione: Sancio Zanca, essendo
ciò derivato perché teneva, a quanto mostrava la dipintura, una grossa
pancia, statura piccola, stinchi lunghi, ond'è che fu chiamato Panza
e Zanca; ed appunto con questi due soprannomi vien talvolta
menzionato nella storia.
Avrei da notare alcune altre minuzie, ma sono di poca importanza, e non
risguardano la relazione veritiera della storia, che non può essere
cattiva se contien verità; e se pure vi fosse qualcosa da opporre alla
veracità sua, non potrà ciò derivare se non se dall'essere arabo
l'autore che l'ha scritta, essendo la bugia assai propria di quella
nazione; benché, come dichiarata nemica nostra, è da credere che abbia
detto piuttosto poco che troppo. Ed io sono appunto di questo avviso,
perciocché quando doveva quell'autore impegnar la sua penna nelle lodi
di sì buon cavaliere, sembra anzi che maliziosamente ne taccia; cosa
mal eseguita e peggio pensata, dovendo gli storici avere la verità per
primo scopo, e non lo spirito di parzialità: e l'interesse, il timore,
l'odio e l'affezione non debbono sviarli dal sentiero della verità, la
cui madre è la storia emula del tempo, deposito delle azioni umane
testimonio del passato, esempio e specchio del presente, e
ammaestramento per l'avvenire. Ed io so che in questa si troverà tutto
ciò che d'aggradevole puossi desiderare; e se vi mancasse qualche cosa
di buono sarà per colpa del cane del suo scrittore, non per mancanza
mai del soggetto. In fine, la sua seconda parte, stando attaccati
alla traduzione, cominciava in questa maniera: [In pratica Cervantes
racconta la fine dell'episodio che stava narrando come se fosse
contenuto nel libro che ha trovato, quindi crea un libro nel libro, come
se la fine l'avesse fornita l'aver ritrovato quel libro]
Inalberate le taglienti spade quei valorosi e inveleniti
combattenti pareva che minacciassero il cielo, la terra e l'abisso: sì
eccessivi erano l'ardire e lo sdegno di cui avvampavano. Il primo a
scaricare il suo colpo fu l'inviperito Biscaino, e fu sì grave e
furioso che se non avesse piegata per aria la spada, bastava quel solo a
dar fine a sì acerba contesa e ad ogn'altra ventura del nostro
cavaliere; ma la buona sorte, che lo riserbava a fatti più luminosi,
piegò la spada del suo nemico in guisa che sebbene cadesse sull'omero
sinistro, non gli produsse altro male che di lasciarlo disarmato
interamente da quel lato, tagliandogli gran parte della celata, e con
essa metà dell'orecchio. Tutto questo cadde per terra con ispaventevol
rovina, e don Chisciotte rimase malconcio. Deh, chi sarà mai che possa
pienamente descrivere la rabbia ch'entrò allora nel cuore del nostro
Mancego vedendosi a tale ridotto? Basti dire che si rizzò nuovamente
sopra le staffe, e prendendo la spada a due mani tempestò con sì gran
furia sopra il Biscaino, cogliendo in pieno sul guanciale e sulla testa
che ad onta della sua buona difesa, come se gli fosse caduta sul capo
una montagna, cominciò a perdere il sangue per le narici, per la bocca
e per gli orecchi, ed a barellar con la mula, da cui sarebbe caduto se
non si fosse aggrappato strettamente al collo. Gli uscirono però i
piedi dalle staffe, poi sciolse anche le braccia; laonde la mula
impaurita pel terribile colpo, si pose a correre per la campagna e a
tirar calci, e dopo alquanto barcollare stramazzò insieme col suo
padrone. Stavasi don Chisciotte con molta gravità guardandolo, ma come
lo scorse a terra smontò da cavallo, e lestamente a lui appressatosi,
nel presentargli la punta della spada agli occhi, gli disse che
s'arrendesse, o che gli verrebbe troncata la testa. Il Biscaino tutto
confuso non potea risponder parola, e sarebbe finita male per lui, tanto
il furore aveva acciecato don Chisciotte, se le signore del cocchio, che
fino a questo punto aveano veduto con grande spavento quella contesa,
non gli fossero corse incontro, e non lo avessero pregato con ogni
istanza che per grazia e per loro intercessione donasse la vita a quel
povero scudiero. E don Chisciotte con tono grave e maestoso rispose:
“Sono assai soddisfatto, belle signore, di compiacervi, ma a patto però
che questo cavaliere mi dia parola di recarsi al Toboso, di presentarsi
per parte mia alla signora Dulcinea, e di lasciarla arbitra del suo
destino.” Le impaurite e sconsolate signore, senza cercare
d'intendere, quello che don Chisciotte volesse dire, e senza domandare
chi fosse questa Dulcinea, gli promisero che lo scudiere avrebbe
eseguito a puntino i comandi suoi. “Ebbene, soggiuns'egli, sulla fede
di questa promessa io non gli farò altro male, benché se lo abbia
assai meritato.”
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SANCIO
LEGA LE ZAMPE DEL CAVALLO (XX)
“In questi dintorni, per l'indizio che ce ne danno queste freschissime
erbe, deve, senza dubbio, trovarsi o una fonte o un ruscello che le
inverdisca; e sarà bene, diceva Sancio, che camminiamo un poco; ché
noi troveremo certamente il mezzo di estinguere la sete orribile che ci
crucia e ci strazia assai più della fame.”
Piacque a don Chisciotte il consiglio, e prendendo egli per le redini
Ronzinante, e Sancio, il suo asino pel capestro, dopo averlo caricato
degli avanzi della cena, si posero a camminare a tastone qua e là per
lo prato, poiché l'oscurità della notte non lasciava loro discernere
cosa alcuna. Non ebbero fatto duegento passi, quando giunse loro
all'orecchio un gran rumore d'acqua che pareva precipitasse da qualche
balza. Questo rumore grandemente li rallegrò; e fermatisi per
accertarsi d'onde partiva, un altro ne udirono d'improvviso, ma di
natura tale che fece obbliare l'allegrezza dell'acqua scoperta,
specialmente a Sancio che per sua natura era timido e di poco cuore.
Consisteva in certe botte a battuta, accompagnate da stridore di ferri e
catene, che frammisto al furioso rombazzo dell'acqua, avrebbe messo
paura in ogni altro cuore che non fosse stato quello di don Chisciotte.
Era, come si è detto, oscura la notte, e il caso li portò fra alberi
altissimi, le cui fronde, mosse dal vento, producevano un altro mormorio
piacevole e pauroso ad un tempo; di qualità che tutt'insieme la
solitudine, il sito, l'oscurità, il susurro delle acque, lo stormir
delle foglie, tutto cagionava orrore e spavento. E tanto più poi
considerando che né le botte cessavano, né il vento taceva, né il
giorno era vicino, né oltre a questo sapevano in che luogo si
trovassero.
Don Chisciotte però, animato dall'intrepido suo cuore, salì sopra
Ronzinante, e imbracciando la rotella dié di piglio al suo lancione,
dicendo: — Sancio mio, hai da sapere che io nacqui per favore del
cielo in questa età nostra di ferro per fare rivivere quella dell'oro o
l'età dorata siccome noi siamo soliti nominarla. Quegli son io a
cui riserbati sono i perigli, le alte imprese ed i memorabili
avvenimenti; quegli son io cui si aspetta di far rinascere i tempi della
Tavola Rotonda, dei dodici paladini di Francia, dei nove della Fama;
quegli per cui debbono essere obbliati del tutto i Platiri, i Tablanti,
gli Olivanti, i Tiranti, i Febi ed i Belianigi con tutta la caterva de'
famosi cavalieri erranti della antica età, facendo in questa nella
quale mi trovo tanto grandi azioni, tanto straordinarie cose e fatti
d'arme da oscurarne i più celebri finora uditi.
Poni ben mente, fedele ed accorto scudiere mio, alle tenebre di questa
notte, al suo silenzio profondo, al sordo e confuso rombare di questi
alberi, allo strepitoso mormorare di quell'acqua che siam venuti
cercando, e che sembra precipitarsi dagli alti monti della luna, ai
colpi incessanti che ci feriscono con tanta pena gli orecchi; cose tutte
qui raccolte, ognuna delle quali saria bastante da per sé sola metter
tema, paura e spavento nel petto istesso del dio Marte, e tanto più
dunque in quello di chi non è avvezzo a così fatti avvenimenti ed
incontri. Or bene; tutte queste cose che io ti vengo mettendo in
considerazione, sono incentivo e stimolo all'animo mio; e già il
cuore mi si gonfia nel petto pel desiderio che ho di affrontare
quest'avventura per quanto pericolosa si mostri; perciò
restringi un poco le cinghie a Ronzinante, poi rimanti con Dio, ed
aspettami qua non più di tre giorni; compiti i quali, se non mi rivedi,
torna alla nostra terra, e giunto che vi sarai, ti prego per favore e
per grazia di recarti al Toboso, dove dirai alla incomparabile signora
mia Dulcinea, che il cavaliere suo schiavo è morto per essersi accinto
ad imprese che lo rendessero degno di chiamarsi suo prigioniere.”
Quando Sancio sentì parlare in tal guisa il padrone, si mise a piangere
colla maggior commozione del mondo, e gli disse: — Signore, io non so
perché mai vossignoria voglia mettersi a sì tremendo cimento; adesso
è notte, qua non si trova anima viva, e noi possiamo andare per
un'altra strada e schivare il pericolo, a costo di camminare tre giorni
senza trovare una goccia d'acqua per bere; e poiché non v'è chi ci
vegga, meno vi sarà chi ci accusi codardi e poltroni. Sovvengomi di
aver sentito parecchie volte predicare il curato della nostra terra, ben
conosciuto da vossignoria, e dire che chi si espone nel pericolo, nel
pericolo cade; né è bene stuzzicare il cane che dorme e mettersi in un
cimento da cui l'uomo non possa uscire se non per mero prodigio; e le
basti quello che ha fatto il cielo preservandola dall'essere, come
avvenne a me, sbalzato per aria colla coperta, e concedendole vittoria
sopra quei tanti nemici che accompagnavano il morto; e quando tutto
questo non bastasse a movere l'indurato suo cuore, lo mova almeno il
pensiero che tosto vossignoria si sarà di qua allontanata, a me uscirà
l'anima per la paura e mi resterò qua tutto basito. Sono partito dal
mio paese, ho abbandonato la moglie e i figliuoli per venir a servirla,
pensando di dover diventarne da più e non da meno: ma siccome il
soprappiù rompe il sacco, così mi veggo tolte le speranze quando io le
nutriva più vive, di pervenire al governo di quella malaugurata isola
infelicissima che le tante volte mi fu proposta da vossignoria; e in
cambio e in compenso ora ella si determina di abbandonarmi in un sito
così appartato dal genere umano? La prego per carità, padrone mio, di
non lasciarmi desolato e deserto, o se non vuole la signoria vostra
desistere, rimetta per lo meno il suo viaggio fino alla mattina; che per
le cognizioni ch'io ho preso sin da quando era pastore, non possono
mancare tre ore all'alba; perché la bocca dell'Orsa minore sta sopra la
testa della croce e fa la mezzanotte in braccio sinistro. — Come puoi
tu Sancio, disse don Chisciotte, vedere dove sia questa linea né dove
questa bocca o questa collottola che vai dicendo, mentre la notte è sì
oscura, che non si scorge pur una stella nel cielo? — La cosa è
com'io l'ho detta, rispose Sancio, e la paura ha molti occhi e giunge a
vedere fino sotterra allo stesso modo come vede fino al cielo; ed è il
fatto che poco ci manca allo spuntare del giorno. — Manchi quello che
può mancare, replicò don Chisciotte, non si dirà mai di me verun
tempo che lagrime o preghiere tolto mi abbiano dall'eseguire il debito
di cavaliere; perciò pregoti, Sancio, che altro tu non soggiunga, perché
Dio che mi ha posto in cuore di imprendere senza ritardo una non più
veduta e ardimentosa avventura, mi guiderà a salvezza e conforterà il
tuo dolore; assetta bene le cinghie a Ronzinante, e rimanti qui, che,
vivo o morto, presto sarò a te di ritorno.” Vedendo Sancio la
decisa volontà del padrone, e le sue lagrime, i suoi consigli e i suoi
prieghi essere inefficaci, si avvisò di correre all'astuzia per tentar
pure ch'egli aspettasse il giorno; e così nello stringere le cinghie al
cavallo, con avvedutezza e senza fare il menomo strepito legò colla
cavezza del suo asino i piedi di dietro di Ronzinante, di maniera che
quando don Chisciotte si accinse di partire gli fu impossibile perché
il cavallo si moveva soltanto a salti. Vedendo Sancio il buon successo
dell'arte usata, disse: — Ecco, o signore, che il cielo commosso dalle
mie lagrime e dalle mie preghiere ha disposto che Ronzinante non possa
moversi, e se ella perfidierà a voler che cammini a furia di sproni e
di percosse, sarà uno stancare la fortuna e, come suol dirsi, dar
delle pugna all'aria.” Disperavasi don Chisciotte, e più che
spronava il cavallo meno lo faceva muovere; laonde senza sospettare
della legatura, tenne per il più savio partito di mettersi in quiete ed
attendere che facesse giorno e che Ronzinante potesse moversi; né mai
pensando che quell'inciampo provenisse dalla malizia di Sancio, gli
disse: — Poiché, o Sancio, Ronzinante non può muoversi, sono
contento di aspettare lo spuntar dell'alba, benché io pianga questo
tempo che ho da perdere fin ch'ella sorga. — Qui non c'è da piangere,
rispose Sancio, perché io intratterrò vossignoria col racconto di
qualche novella finché si fa giorno, se pure non volesse ella piuttosto
smontare e mettersi un po' a dormire su quest'erba, alla maniera de'
cavalieri erranti, per trovarsi più agile domattina e più forte a
sostenere l'incomparabile avventura che nuovamente lo aspetta. — Che
parli tu di scendere o di riposare? disse don Chisciotte. Son io forse
di que' cavalieri che cercano riposo prima di affrontare i pericoli?
Dormi tu, che sei nato per dormire, o fa quello che ti piace, ch'io mi
applicherò a quanto esige la circostanza in cui mi ritrovo. — Non si
adiri per questo vossignoria, rispose Sancio, che io non ho parlato a
tal fine.” Ed accostandosi a lui pose una mano sull'arcione dinanzi e
l'altra sul posteriore per modo che abbracciò la coscia sinistra del
suo padrone, senza osare di staccarsi un puntino da lui; e ciò fece per
lo spavento da cui fu colto udendo nuovo strepito con nuovo alternar di
percosse. Don Chisciotte gli disse che raccontasse qualche novella per
trattenerlo secondo la sua promessa; e Sancio rispose che fatto
l'avrebbe se glielo permettesse la paura di quello che sentiva. —
Contuttociò, soggiunse, mi sforzerò a contare una storia, che se potrò
dirla, e me la lasciano dire, sarà trovata la più bella del mondo.
Stiami attento vossignoria, e do principio.
“Era ciò ch'era, il bene non viene per tutti e il male per chi ne va
in cerca; ed avverta vossignoria che gli antichi non principiavano le
loro favole all'impazzata, ma fu una sentenza di Caton Zonzorino
romano, che dice: E venga il malanno a chi se lo va a buscare,
che qui torna a proposito come anello al dito, e tanto più a
proposito quantoché vossignoria dovrebbe star qui fermo e non andar in
cerca di guai; anzi piuttosto mutiamo strada, da che nessuno ci obbliga
a seguire questa ch'è piena di tanti spauracchi.
— Prosegui il tuo racconto, disse don Chisciotte, e lascia il pensiero
a me della strada da battere.
— Dico pertanto, proseguì Sancio, che in un paese della Estremadura
vi era un pastore capraio, dir m'intendo di quelli che guardano capre,
il qual pastore capraio, come sto raccontando, chiamavasi Lope Ruiz, e
questo Lope Ruiz era innamorato di una pastorella, nominata Torralva, la
qual pastorella nominata Torralva, era figliuola di un ricco pastore, e
questo ricco pastore...
— Se tu vai narrando a questo modo la tua novella, disse don
Chisciotte, e vuoi ripetere due volte tutto quello che dici, non ti
basteranno due giorni: raccontala di seguito e da uomo di giudizio, o
diversamente non dir altro.
— Nella stessa maniera che la racconto, rispose Sancio, si raccontano
nel mio paese tutte le novelle, né io so fare altrimenti, né mi pare
ben fatto che vossignoria mi costringa di prendere nuove usanze.
— Dilla come t'è a grado, rispose don Chisciotte, e seguita pure,
giacché vuol la mia stella che io resti ad ascoltarti.
— Ora dunque, o signore dell'anima mia, proseguì Sancio, come di già
le ho detto, questo pastore era innamorato di Torralva, ch'era una
giovane piuttosto rozza e selvatica, ed aveva un poco dell'uomo, perché
le spuntavano un po' di mustacchi, che mi sembra propriamente di averli
sott'occhio.
— La conoscesti tu? disse don Chisciotte.
— Io veramente non la ho conosciuta, rispose Sancio, ma chi mi ha
fatto questo racconto, mi assicurò che questa cosa era indubitabile e
che, facendone io ad altri il racconto, potrei affermare e giurare di
averla veduta tal quale. Ora dàlli un giorno, dàlli un altro, il
diavolo che non dorme e che va imbrogliando ogni cosa, fece in modo che
l'affetto che portava il pastore alla giovane si cambiasse in odio e
trista volontà; e ciò nacque (a quanto ne sparsero le male lingue) da
un poco di gelosia che ella gli diede, e tale che passando il segno
produsse tanto odio nel pastore verso di lei, che per non vederla
si tolse da quel paese per andare dove i suoi occhi non la vedessero più.
La Torralva che si vide sprezzata da Lope, cominciò a volergli bene più
che mai.
— Questo è naturale istinto nelle donne, disse don Chisciotte,
sprezzar chi le ama, e amar chi le odia; ma tira pure innanzi, o Sancio.
— Accadde, disse Sancio, che il pastore eseguì ciò che avea
determinato di fare, e mettendosi alla testa delle sue capre, s'incamminò
verso le campagne della Estremadura con intenzione di passare nel regno
di Portogallo. La Torralva che lo seppe, gli tenne dietro a piedi scalzi
da lontano, portando in mano un bordone ed al collo un paio di bisaccie
nelle quali aveva posto, a quanto vien detto, un pezzo di specchio, un
mezzo pettine, e non so che vasetto di empiastri pel viso; ma si
portasse pure quello che meglio le pareva, ch'io non voglio stare adesso
a cercarne conto; il fatto si è che il pastore arrivò colla sua mandra
al passaggio del fiume Guadiana, il quale era sì gonfio in quella
stagione che non si trovava né barca né battello, né battelliere per
tragittare né lui né la sua mandra. Di che provò molto fastidio,
perché già le pareva di avere alle calcagna la Torralva ad annoiarlo
colle sue preghiere e colle sue lagrime: andò nondimeno guardando finché
trovò un pescatore che aveva una barca tanto piccola che appena potea
capirvi una persona e una capra, ma con tutto questo fece contratto con
lui perché lo tragittasse colle trecento capre che conduceva con sé.
Entrò il pescatore nella barchetta e tragittò una capra; tornò e ne
tragittò un'altra; ritornò ancora e tornò a tragittarne un'altra...
Tenga conto vossignoria delle capre che il pescatore va tragittando,
perché se una gliene scappa di mente terminerà la novella, e non sarà
possibile di proseguirla. Io proseguo dunque il racconto, e dico,
che la riva opposta del fiume era piena di fango e sdrucciolevole molto,
sicché tardava il pescatore ad andare e tornare; contuttociò tornò
per tragittare un'altra capra e poi un'altra e un'altra poi...
— Fa conto che sieno passate tutte, disse don Chisciotte e non ti
perdere a dire così pel minuto ogni andata ed ogni ritorno, ché non
finiresti di farle passare in un anno.
— Quante ne sono passate finora? disse Sancio.
— Come diavolo vuoi tu ch'io lo sappia? rispose don Chisciotte.
— Ah! poveretto di me, disse Sancio, la ho pure avvertita di tenerne
esatto conto, e adesso come farò ad andare avanti?
— E come può darsi ciò? rispose don Chisciotte; tanto essenziale è
a questa istoria di saper per l'appunto quante capre erano passate, che
sbagliandone il numero non possa andar avanti la storia?
— No, signore, a verun patto, rispose Sancio; perché come io
dimandando a vossignoria quante capre erano passate, ella mi rispose che
non lo sapeva, così in quel punto stesso scappò a me di mente quanto
mi restava da raccontare, ch'era pure fino e gustoso!
— Dunque, disse don Chisciotte, è compita la storia?
— Compita come mia madre, rispose Sancio.
— Per dirti il vero, replicò don Chisciotte, tu mi hai sciorinato uno
de' più nuovi racconti, istorie o novelle che si possano immaginare al
mondo, ed una forma di raccontarlo e di finirlo come la tua non ha
esempio, ma altro non dovea attendermi dal tuo bel modo di ragionare; e
poi non me ne maraviglio perché questi colpi che non cessano mai
debbono averti turbato l'intelletto.
— Sarà vero, rispose Sancio, ma io so che niente si può aggiungere
alla mia istoria che termina dove comincia a perdersi il conto del
passaggio delle capre.
— Non importa, replicò don Chisciotte; vediamo se Ronzinante si può
movere.”
Tornò a dar degli sproni, e quello a far nuovi salti senza movere un
passo: tanto bene l'avea Sancio legato. Frattanto, o per il freddo della
mattina che s'accostasse, o perché Sancio avesse mangiato a cena
qualche cosa di lenitivo, o perché naturalmente fosse chiamato (ciò
ch'è più verosimile) gli venne voglia di fare ciò ch'altri non potea
fare per lui; ma tanto grande era la sua paura che non osava scostarsi
un passo dal suo padrone. E poiché gli era impossibile di non servire
alla sua stringente necessità, per conciliare ogni cosa, levò via la
mano diritta dell'arcione di dietro, e sciolto di cheto un cappio
scorsoio con cui teneva allacciati i calzoni, alzò il meglio che poté
la camicia per fare le sue occorrenze. Ma parendogli poi di non poterne
riuscire senza far qualche strepito che lo tradisse, cominciò a
stringere i denti e a raggricchiarsi nelle spalle, trattenendo il
fiato il più che poteva; e tuttavolta non valse a impedire che nascesse
un cotal rumore diverso da quello che gli aveva messa già tanta paura.
Lo sentì don Chisciotte, e disse: — Sancio, che strepito è questo?
— Nol so, rispos'egli; qualche altra novità, perché le avventure e
le disavventure non vengono mai sole:” e nel dire queste parole il
povero Sancio si trovò libero del fardello che gli aveva recato tanto
fastidio. Siccome don Chisciotte avea sì perfetto il senso dell'odorato
come quello dell'udito, e Sancio gli era sì vicino e tanto immedesimato
che quasi per la linea retta salivano in su i vapori, non poté impedire
che questi non gli entrassero per le narici; si affrettò di turarle
bene con due dita, e parlando così nel naso, disse: — Parmi, Sancio,
che tu abbia gran paura. — Per l'appunto, diss'egli; ma donde arguisce
vossisignoria ch'io tema più adesso che prima? — Perché adesso più
che prima mandi un odore che non è d'ambra, rispose don Chisciotte. —
Così può ben essere, replicò Sancio; ma non è mia la colpa, bensì
della signoria vostra che mi fa seguitarla in ore insolite e per queste
strade deserte. — Tirati in là tre o quattro passi, amico, (disse don
Chisciotte senza levar le dita dal naso) e da qui innanzi ricordati di
quel rispetto ch'è dovuto alla mia persona, né la molta domestichezza
trapassi in noncuranza. — Scommetterei, disse Sancio, che vossignoria
crede ch'io abbia fatto qualche cosa fuor del dovere. — Meglio sarà
non rimescolare questa faccenda, rispose don Chisciotte.
In questi somiglianti ragionamenti, padrone e scudiere passarono la
notte; ma vedendo Sancio che il giorno si avvicinava, cheto cheto slegò
Ronzinante e si allacciò di nuovo i calzoni. Quando Ronzinante si trovò
sciolto, benché di natura non punto furioso, parve che si risvegliasse,
e cominciò a battere i piedi, che di corvette (con buona pace) non ne
sapeva far troppe. Vedendo don Chisciotte che Ronzinante si moveva,
l'ebbe per buon augurio e come un segnale di doversi accingere alla
pericolosa avventura. L'alba intanto finì di spuntare e scorgendosi
distintamente le cose, vide don Chisciotte che trovavansi allora tra
alti castagni, l'ombra dei quali era molto opaca, e sentì pure che non
cessava il rumore dei colpi. Senz'altro indugio die' degli sproni a
Ronzinante, e tornando a prendere commiato da Sancio, gli ordinò di
aspettarlo in quel sito tre giorni al più, come gli aveva detto già
prima; dopo il qual tempo se non lo avesse riveduto, tenesse per certo
che il cielo avea disposto ch'egli lasciasse la vita in quella
perigliosa avventura. Tornò a ripetergli l'ambasciata che far dovea da
sua parte alla sua signora Dulcinea, e che quanto al pagamento dovuto ai
servigi suoi non si prendesse pensiero, mentre avea fatto il suo
testamento prima di partire dal paese, in vigore del quale si troverebbe
compensato di ciò che gli doveva a titolo di salario secondo il tempo
che aveva impiegato a servirlo; ma se per favore del cielo uscisse
vittorioso da quel pericolo, tener per cosa fuor d'ogni dubbio il
possedimento dell'isola che gli avea promessa.
Sancio si mise di nuovo a piangere, udendo le sconsolate parole del suo
buon signore, e deliberossi di non abbandonarlo fino al termine,
qualunque fosse per essere, di quella ventura. — Da queste lagrime e
da questa onorata risoluzione di Sancio Pancia cava l'autore della
presente istoria argomento per credere ch'egli fosse uomo ben nato, o
almeno cristiano vecchio. Quell'affezione commosse anche il suo padrone,
ma non sì però che mostrasse debolezza alcuna; anzi dissimulando alla
meglio cominciò a camminare verso il luogo da cui gli parve che
partisse il rumore dell'acqua e dei colpi. Sancio seguitavalo a piedi
tenendo al solito per la cavezza il giumento perpetuo compagno della sua
prospera e contraria fortuna; ed essendosi buona pezza inoltrati fra
quei castagni e le altre ombrose piante giunsero in un praticello sotto
un'alta balza da cui precipitava un grandissimo volume d'acqua. Stavano
pure a pie' della balza pochi rustici casolari mal costrutti, che
sembravano rovine di edifizî anziché case, dall'interno dei quali si
accorsero che partiva il formidabile fracasso di quelle botte che pur
non cessavano.
Si spaventò Ronzinante al rumore dell'acqua e dei colpi, e don
Chisciotte, facendogli carezze, a poco a poco lo avviò verso le case,
raccomandandosi di tutto cuore alla sua signora, e supplicandola che in
quella terribile giornata ed impresa non gli mancasse di favore, e nel
tempo medesimo si mise sotto la protezione del cielo. Sancio procurava
di non istargli lontano allungando quanto poteva il collo e gli occhi
tra le gambe di Ronzinante per vedere la causa di quel fracasso che
incuteva sì gravi sospetti e spaventi. E dopo un altro centinaio di
passi allo svoltar di una roccia apparve chiara e patente la causa (ché
altra non poteva essere) di quanto la scorsa notte gli avea tenuti sì
altamente sospesi e impauriti. Procedeva dunque (se hai voglia, o
lettore, di venirne a cognizione) da sei magli di gualchiere i quali
coll'alternare dei colpi producevano tanto strepito. Quando don
Chisciotte conobbe ciò ch'era ammutolì e parve basito da capo a
piedi. Sancio lo guardò, e si accorse che tenea la testa china,
confessando di essere stato troppo corrivo. Don Chisciotte ancora guardò
Sancio, e vide che avea gonfie le gote per la voglia di ridere con
evidente segno di dar presto in un grande scoppio. Ciò, ad onta del suo
rincrescimento, lo sforzò a ridere egli medesimo. E Sancio, veduto che
il suo padrone lo secondava, proruppe in tali scrosci che dovette
stringersi i fianchi colle pugna per non iscoppiarne davvero. Quattro
volte si ristette, ed altrettante tornò a ridere con la veemenza di
prima, lo che fece poi incollerire don Chisciotte, in cui si accrebbe
la stizza, vedendo che Sancio in atto di quasi deriderlo, ripeteva le
parole: Hai da sapere, amico Sancio, ch'io nacqui per favore del
Cielo in questa età di ferro per far rivivere quella dell'oro: quegli
son io cui son riserbati i pericoli, le grandi imprese, gli strepitosi
avvenimenti; e qui tornava a ripetere quanto il padrone aveva detto
la prima volta che uditi si erano gli spaventevoli colpi. Ma don
Chisciotte vedendo che Sancio si burlava di lui, montò in tanta furia
che, alzato il lancione, gli diede con esso due sì grandi picchiate che
se, come le ricevette nelle spalle, gli fossero arrivate alla testa, non
avrebbe riscosso altro salario, ma sarebbe toccato ai suoi eredi.
Conoscendo Sancio che quella beffa gli costava troppo cara, e temendo
che il suo padrone non andasse anche più avanti, gli disse umilmente:
— Si quieti la signoria vostra, ché le giuro ch'io burlava. — E se
tu burli, io faccio davvero, rispose don Chisciotte; vien qua, ser
burlone, pare a te che se questi non fossero stati magli di gualchiere,
ma una nuova pericolosa ventura, io non avessi però mostrato cuore
bastante, da imprenderla e gloriosamente condurla a fine? Sono io forse
obbligato per essere cavaliere, di conoscere e distinguere ogni fracasso
e sapere quali sono quelli di gualchiera o d'altro? E potrebbe anche
darsi (com'è in fatti) che io non avessi vedute altre gualchiere,
mentre tu ne avevi già vedute altrove, per essere un villano nato e
allevato tra queste basse cose. Del resto, fa se puoi, che questi sei
magli si trasformino in sei giganti; che vengano uno per volta, o tutti
uniti, meco a battaglia, e se io non li farò tutti volare in aria,
allora ti permetterò di farti beffe della mia persona. — Non vada
altro avanti, signor mio, replicò Sancio, che confesso di essermi
troppo abbandonato alla mia allegrezza; ma dicami la signoria vostra;
ora che ci siamo rappacificati (e Dio la faccia uscire da tutte le
avventure che fossero per accaderle sano e salvo com'è uscito da
questa) dicami non fu cosa da ridere o da raccontare la gran paura che
abbiamo provata, od almeno quella che ho provata io; mentre, so
benissimo che la signoria vostra non conosce né sa che cosa sia paura?
— Non voglio negare, rispose don Chisciotte, che la non sia cosa da
ridere; non però è degna da raccontarsi, che tutti pigliar non sanno
le cose pel giusto verso. — Ben seppe, rispose Sancio, la signoria
vostra pigliare pel giusto verso il lancione, drizzandomelo alla testa e
misurandolo sulle mie spalle; e sien grazie al Signore, ch'io sono stato
a tempo di schermirmene, ma tutto andrà a luogo suo, ché intesi dire:
chi ti fa piangere ti vuol bene; oltreché sogliono i grandi signori far
seguitare il regalo di un paio di calzoni ad un rabbuffo dato ai loro
servitori. Non so poi quello che loro soglion donare dopo averli
bastonati; ma potrebbe essere che i cavalieri erranti compensassero le
bastonate col donativo d'isole o regni nella terraferma. |
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L'AVVENTURA
DEL RAGLIO DELL'ASINO (XXV)
Don Chisciotte spasimava di
sentire le maraviglie che il portatore delle armi aveva promesso di
raccontargli. Andò a cercarlo dove l'oste gli disse che si trovava; e
tosto gli espose che era assai voglioso di sapere quello che avesse a
narrargli intorno alle vicende accennate durante il cammino. Quell'uomo
gli rispose:
— Con comodo e non su due piedi si ha ad udire un racconto ch'è molto
singolare; lasci, cortese signor mio, che io termini di governare la mia
bestia, e le dirò poi cose che la faranno stupire.
— Non si metta indugio per questo, disse don Chisciotte, che io vi
aiuterò a compiere le vostre faccende: e lo fece in effetto
vagliandogli la biada e nettandogli la mangiatoia: umiltà che impegnò
quell'uomo a soddisfare di tutto buon cuore la sua curiosità. Sedutosi
pertanto su di un muricciuolo, e don Chisciotte, accanto a lui, avendo
per uditore il giovane, il paggio, Sancio Pancia e l'oste, cominciò in
tal guisa a parlare.
— Hanno a sapere, vossignorie, che al giudice di un paese quattro
leghe e mezza di qua discosto, per accortezza ed inganno di una ragazza
sua fante (e questa sarebbe cosa lunga da dire) mancò un asino, né più
fu potuto trovarlo per quante diligenze avesse usate. Dovevano essere
passati quindici giorni da che l'asino mancava, quando standosene sulla
piazza detto giudice, un altro giudice dello stesso paese, gli disse:
— Datemi la mancia, compare, ché il vostro asino si è ritrovato.
— Ve la darò, e buona, compare, l'altro rispose; ma a buon conto
vorrei prima sapere ove fu ritrovato.
— Io lo vidi, soggiunse l'altro, in questa mattina sul monte che
aggiravasi per la selva senza bardella o altro arnese, e così
assottigliato che moveva pietà a guardarlo: gli passai dinanzi per
fermarlo e ricondurvelo, ma si è fatto tanto selvatico ed intrattabile,
che quando gli giunsi addosso si diede a fuggire, e si nascose nel più
folto del bosco: ora se vi piace che ci rechiamo tutti e due a cercarlo,
lasciate prima che rimeni a casa questa mia asinella, e io vi sarò
compagno nel viaggio. — Ne avrò gran piacere, disse quello
dell'asino, e mi studierò di compensarvi di eguale mercede. Con tutte
queste circostanze, e uguale in tutto a questo mio racconto, è quanto
depongono tutti coloro che sono informati della verità del fatto. In
sostanza i due giudici, marciando a piedi a poco a poco giunsero alla
montagna, ed arrivati al sito dove credevano di trovar l'asino, nol
rinvennero punto, né per diligenza che si facesse si poté mai vedere
in tutti quei contorni. Poiché dunque non si trovava, quel giudice che
avealo veduto disse all'altro: — Badate a me, compare, che mi è
venuto in testa un modo d'imbatterci infallantemente in questo animale,
quand'anche si fosse cacciato nelle viscere della terra non che in
quelle della selva; ed il modo è questo: io so ragliare a perfezione, e
se voi ancora ne sapete un poco vi do la cosa per bella e fatta. — Se
ne so un poco? disse l'altro; per vita mia, compare caro, che non la
cedo a nessuno, e neppure agli asini stessi. — Dunque alla prova,
rispose l'altro: io ho fatto pensiero che voi ve n'andiate per una parte
della montagna ed io per l'altra, in maniera che l'attornieremo e
gireremo tutta; e di tratto in tratto raglierete voi e raglierò io, e
sarà impossibile che l'asino, se sta sulla montagna, non ci senta e non
ci risponda.”
Disse il padrone dell'asino: — Sono persuaso, o compare, che ottimo
sia il modo da voi trovato, e degno della vostra gran mente.” Si
separarono ambedue giusta l'accordo fatto, ed avvenne che ragliarono
entrambi quasi ad un tempo stesso, ed ingannato ciascuno dal raglio
dell'altro corsero a cercarsi, pensando che già l'asino si fosse
trovato: e nel rivedersi disse quegli che lo aveva perduto: — Com'è
possibile, compare, che il raglio che ho inteso non sia stato quello del
mio asino? — Non lo fu, e sono stato io, rispose il secondo
giudice. — Vi dico bene in verità, soggiunse il primo, che da voi ad
un asino, compare, non passa alcuna differenza, perché non udii in
tutta la vita mia un ragliare più al naturale. — Queste lodi ed
esagerazioni, rispose quello della invenzione, quadrano meglio e più
convengono a voi, compare, che a me; e per quel Dio che mi ha creato,
che voi potete dare due ragli di vantaggio al più esperto ragliatore
del mondo, poiché il suono acuto che vi esce di gola, la voce sostenuta
a battuta, le cadenze molte e preste, e in somma tutto è tale ch'io mi
do per vinto, e vi lascio la bandiera in questa sorta di abilità. —
Or bene, disse il padrone dell'asino, d'ora innanzi mi terrò uomo da
qualche cosa, poiché ho in me sì felice disposizione e sì buon garbo:
io già sapevo di ragliare bene, ma non avrei mai creduto di essere
giunto a quell'apice che voi dite.
— Oh sappiate, rispose il secondo, che nel mondo si trovano dei
begl'ingegni che non sono stimati, e talvolta si vedono mal collocate le
grazie in chi non ne sa profittare.
— Le nostre, rispose il padrone dell'asino, non ci possono esser di
giovamento se non in occasioni simili a questa, e Dio voglia che anche
in questo caso ci sieno proficue.” Detto ciò, tornarono a dividersi e
tornarono ai ragli, e ad ogni tratto s'ingannavano, e tornavano a
riunirsi, fino a tanto che si diedero per contrassegno che per intendere
ch'erano essi e non l'asino, avrebbero ragliato due volte di seguito.
Fatto questo accordo, raddoppiando ad ogni passo i ragli, girarono tutta
la selva senzaché il giumento rispondesse in modo alcuno. Ma come potea
rispondere il meschino e malcapitato, se poi lo trovarono nel più folto
di un bosco quasi divorato dai lupi? Nol vide appena il suo padrone che
disse: — Mi meravigliava io bene che non rispondesse; che se non fosse
stato morto avrebbe senza dubbio ragliato se ci avesse sentiti, o non
sarebbe stato asino: basta, compare, poiché ho sentito voi a ragliare
con tanta grazia, fo mio conto di aver bene spesa la fatica sostenuta
cercandolo, quantunque adesso lo trovi morto e mangiato.
— Così dico anche io, compare, l'altro rispose; che se il prete canta
bene non si porta male né anche il chierico.”
Sconsolati e rauchi ritornarono ambidue al loro paese, e raccontarono
agli amici, vicini e conoscenti ciò ch'era accaduto cercando
dell'asino, esagerandosi dall'uno la grazia dell'altro in ragliare, il
che si riseppe e andò per le bocche di tutti nei luoghi circonvicini.
Il diavolo poi che non dorme, come desideroso di seminare e spargere
rancori e discordie ove può, e di mettere chimere e triste voglie nei
cervelli fece che le genti degli altri paesi al vedere qualcuno del
nostro paese ragliassero, quasi volendo rinfacciare il raglio dei nostri
giudici. Se ne accorsero anche i ragazzi, e la fu una disperazione,
perché sempre più il raglio si diffuse di uno in altro paese, di
maniera che sono adesso distinti i naturali del nostro paese dal raglio
come sono differenziati i mori dai bianchi: e tanto innanzi andarono le
pessime conseguenze di questa beffa, che più volte coll'arme alla mano
e in ben ordinato squadrone i burlati sono venuti in zuffa coi burlatori
senza che abbiano potuto apporvi rimedio né re, né rocco, né timore,
né vergogna. Credo che dimani o l'altro abbiano ad uscire in
campagna i miei paesani, che sono quelli del raglio, contro quelli di un
paese discosto due leghe dal nostro, e ch'è appunto il paese che più
ci perseguita; ora per armare bene i combattenti io porto queste lancie
e queste alabarde. Ed ecco, o signore, le meraviglie che ho promesso di
raccontarvi; che se non vi paiono tali io non ne so di altra sorta.”
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(la
follia di Don Chisciotte)
LETTERA
DI DON CHISCIOTTE A DULCINEA DEL TOBOSO.
“Sovrana
ed alta signora!
Il
ferito di punta d'assenza, ed il piagato nelle tele del cuore, dolcissima
Dulcinea del Toboso, t'invia quella salute che affatto a lui manca. Se mi
dispregia la tua bellezza, se il tuo merito non si rivolge a favorirmi, se
gli sdegni tuoi sono il mio annichilimento ad onta che sia esemplare la
mia sofferenza, non mi prometto di sostenermi più a lungo in questa
infelicità; che oltre all'essere aspra fuor di misura, minaccia di essere
di una intollerabile lunghezza. Sancio, mio fedele scudiere ti darà piena
relazione, o bella ingrata, o adorata nemica mia, dello stato in cui per
tua colpa mi trovo. Se ti piacerà di porgermi aita sarò tuo; se no, fa
pure quanto ti è a grado, che col terminare di mia vita io avrò
soddisfatto alla tua crudeltà e al mio desiderio.
Tuo fino alla morte
Il cavaliere dalla Trista Figura”
— Per l'anima di mio padre, disse Sancio udendo la lettera, che questa
è la più gran lettera ch'io abbia mai intesa. Oh corpo di Bacco! come la
signoria vostra chiaramente dice ciò che desidera, e come ci affibbia
maravigliosamente nella sottoscrizione Il Cavaliere dalla Trista
Figura! Dico il vero: vossignoria è lo stesso diavolo in persona, né
vi ha cosa ch'ella non sappia.— Tutto questo è necessario, replicò don
Chisciotte, per adempiere compiutamente il carico che mi sono imposto. —
Su via, disse Sancio, scriva in quest'altra carta l'ordine per i tre asini
e lo firmi nettamente sicché non succedano difficoltà. — Ben
volentieri, disse don Chisciotte: e quando ebbe finito di scrivere lesse
quanto segue.
“Piacerà a vossignoria per questa prima di asini, signora nipote, di
consegnare a Sancio Pancia mio scudiere, tre dei cinque che ho lasciati in
mia casa affidati alle sue cure; i quali tre asini gli si daranno per
altrettanti qua ricevuti di contante, e ritirandone la ricevuta saranno
ben consegnati.
Fatta
nelle viscere di Sierra Morena nel giorno 17 di agosto dell'anno
corrente.”
— Va bene, disse Sancio, ed
ora la sottoscriva vostra signoria. — Non occorre, disse don Chisciotte;
basta soltanto ch'io vi apponga la mia cifra, che per tre asini e per
trecento ancora è bastante. — Io mi rimetto a lei, rispose Sancio, ed
ora mi permetta che vada a sellare Ronzinante, e vossignoria si apparecchi
a darmi la sua benedizione che ho divisato di partire subito subito senza
vedere le pazzie che ella ha da fare, ma dirò di averne veduto a far
tante che nulla più. — Almeno, o Sancio, io desidero, ed anzi è
necessario che tu mi vegga ignudo a fare una o due dozzine di pazzie, che
le farò in meno di una mezz'ora: perché avendole tu vedute cogli occhi
tuoi potrai nelle altre che vorrai aggiungere di più giurare in buona
coscienza; e posso assicurarti che non ne dirai tante quante sono quelle
che penso mandare ad effetto.
— Per amore di Dio, mio signore, non faccia ch'io la vegga ignudo,
perché non potrei per gran compassione trattenermi dal piangere; e dopo
il pianto che ho sparso nella scorsa notte pel mio asino, ho ancora sì
gran male alla testa, che non mi trovo ora in grado di sgorgare nuove
lagrime. Se vuole vossignoria ch'io vegga alcune delle sue pazzie le
faccia bello e vestito, sien brevi, e come più le torna a comodo; ma già
non occorrono con me queste cerimonie; e tanto più che questo farebbe
ritardare il mio ritorno a lei, che dovrà seguire col recarle nuove quali
le brama e le merita. Io la prevengo che se mai la signora Dulcinea non mi
rispondesse a dovere, giuro per tutti i miei santi avvocati che le caverò
dallo stomaco una buona risposta a calci e a pugna; perché come si può
tollerare che un cavaliere errante tanto celebre come la signoria vostra
impazzisca senza verun motivo, e non per altro che per una?... Non me lo
lasci dire la signora... ch'io son tale da non tenerla fra i denti,
tuttoché ciò sia molto prudente. Ella non mi conosce bene: che se
sapesse chi io mi sia, tremerebbe a sentirmi nominare.
— Affé, Sancio, disse don Chisciotte, tu non sei troppo più savio di
me. — Non sono tanto pazzo, bensì più iracondo: ma lasciamo a parte
queste cose, e mi dica di grazia: di che si ciberà ella fino al mio
ritorno? pensa forse di andare alla strada come Cardenio? — Non ti
pigliare siffatte brighe, rispose don Chisciotte, perché quand'anche
fossi fornito di vettovaglie non mangerei se non erbe e frutta di questi
prati e di questi alberi: giacché il merito della mia risoluzione non
consiste nel pascere il ventre, ma nel patire.” A questo rispose Sancio:
— Sa ella, vossignoria, di che temo io? temo di non saper trovare la via
da tornarmene a lei per essere questo un luogo troppo fuori dell'abitato e
deserto! — Poni mente a' segnali; che io avrò cura di non allontanarmi
da questi contorni, disse don Chisciotte, ed anzi procurerò di mettermi
nelle alture di queste balze per veder se ti scopro quando ritornerai: e
poi, la più diritta sarà, affinché tu non erri e non ti scosti dal
cammino, che io ti fornisca di queste ginestre, che, come vedi, qua non ne
mancano, e tu le spargerai come segnali ad ogni tanti passi, finché ti
troverai in campagna aperta, ed esse ti serviranno di guida al ritorno, a
guisa del filo usato da Perseo nel labirinto. — Così farò, rispose
Sancio;” e tagliandone alcune e domandata la benedizione al suo signore,
prese da lui licenza non senza sparger molte lagrime l'uno e l'altro. Montò
Sancio su Ronzinante, che gli fu raccomandato dal padrone come un altro se
stesso, e si pose subito in viaggio spargendo di tanto in tanto i rami
delle ginestre, a tenore del consiglio datogli dal suo signore; e così se
n'andò benché don Chisciotte lo pregasse da capo che stesse a vedere
qualche sua segnalata pazzia.
Non si era Sancio scostato cento passi, che tornato indietro disse a
don Chisciotte: “Capisco o signore, ch'ella disse benissimo che per
poter giurare senza aggravio della coscienza di averla veduta a fare delle
pazzie, sarà bene che gliene vegga a far una, quantunque una potesse
dirsi anche quella della sua risoluzione di restarsene qua solitario. —
Non tel diss'io? soggiunse don Chisciotte: attendi: attendi, o Sancio, che
in un momento te le farò vedere.” E trattisi immantinente gli abiti
diede due sgambettate, e fece due capriole con le gambe per aria; e Sancio,
volte le redini a Ronzinante, si mostrò contento e soddisfatto di poter
giurare che avea veduto di fatto una delle pazzie del padrone. Noi lo
lasceremo adesso andare per la sua strada, fino al suo ritorno che sarà
in breve.
CONTINUAZIONE DELLE PRODEZZE CHE FECE LO
INNAMORATO DON CHISCIOTTE IN SIERRA MORENA (XXVI)
E continuando il
racconto di ciò che fece il cavaliere dalla Trista Figura quando si trovò
solo, dice la storia che dopo avere fatto i capitomboli, e rivoltatosi
mezzo ignudo e mezzo vestito, e dopo aver veduto che Sancio s'era partito
senza curarsi di essere presente a nuove pazzie, salì sopra la vetta di
un alto masso, ed ivi tornò a volgere in pensiero ciò che altre volte
aveva ideato, ma senza averne mai pigliata una ferma deliberazione.
Pensava se fosse stato per lui più a proposito l'imitare le straordinarie
follie di Orlando o le celebri malinconie di Amadigi; e ragionando fra sé
medesimo così diceva: — Se Orlando fu cavaliere sì degno, come tutti
vogliono far credere, che meraviglia? alla fine dei conti egli era
incantato, né avrebbe potuto essere ucciso da chicchesia se non
cacciandogli un sottilissimo spillo nella pianta di un piede; per questo
poi usava di portare sempre le scarpe con sette suola di ferro, benché ciò
poco gli giovasse a fronte di Bernardo del Carpio, il quale, avvedutosi,
lo soffocò in Roncisvalle colle proprie braccia. Ma senza parlare del suo
valore passiamo a considerarne la pazzia, che fu verissima in lui per
avere saputo degli amori di Angelica con certo Medoro, moretto, ricciuto
di capelli e paggio di Agramante.
Ora s'egli tenne questo fatto per vero, o se la
sua signora gli fe' sì grave torto, non è gran cosa ch'egli abbia dato
in frenesia: ma io come potrò imitarlo nelle follie se manco della causa
che in lui si mosse? io potrei giurare che la mia Dulcinea del Toboso non
vide mai in tutta la sua vita alcun moro vivo e parlante, e che essa è
innocente come una bambina; e le farei offesa manifesta se altrimenti
presupponendo mi applicassi al genere di pazzia professata da Orlando
Furioso. Veggo pure dall'altra parte che Amadigi di Gaula, senza perdere
il giudizio e senza farneticare, si meritò tanta celebrità d'innamorato
da non aver pari; e quello che fece, secondo che la istoria racconta, il
fece solo per vedersi rifiutato dalla sua signora Oriana, la quale gli
avea comandato di non comparirle dinanzi finché a lei non fosse piaciuto:
per la qual cosa si ritirò nel Pegnapobre in compagnia di un eremita, ed
ivi non lasciò di piangere, finché piacque al cielo di trarlo dai suoi
travagli e dalle sue infelicità. Se questo è vero, come è verissimo,
perché debbo io darmi fastidio collo spogliarmi adesso ignudo ed
importunare questi alberi che non mi recarono danno alcuno? E perché
intorbiderò la limpid'onda di questi ruscelli che debbono somministrarmi
di che estinguere la sete allorché io n'abbia d'uopo? Viva pure la
memoria di Amadigi, e don Chisciotte della Mancia lo imiti in tutto per
quanto si può: e si dirà di lui ciò che si disse dell'altro, che se non
operò gran meraviglie seppe però morire per intraprenderle: e se io non
sono né disprezzato né discacciato dalla mia Dulcinea, basterà, come ho
detto, che me ne stia lontano da lei. Orsù dunque, mano all'opera:
tornatemi a mente, o gesta di Amadigi, ed insegnatemi ciò che debbo
eseguire per imitarvi: la maggiore delle sue occupazioni era il fare
orazione, e così farò anch'io.” Si mise allora don Chisciotte a
pregare, valendosi per rosario di certe gallozze di sughero che infilzò a
dieci a dieci. Gli doleva di non trovare un altro eremita che lo
confessasse e con cui consolarsi: e però limitavasi a passeggiare pei
prati scrivendo e intagliando nelle cortecce degli alberi e nella minuta
arena molti versi analoghi alla sua tristezza ed alle lodi della sua
Dulcinea. Quelli che si trovarono interi e si poterono leggere non furono
che i seguenti.
“Alberi, erbe e piante; che siete in questi luoghi sì elevati
verdeggianti e splendidi, se non vi diletta il mio male, ascoltate le mie
sante querele. Il mio dolore non mi nuoca per quanto sia terribile; poiché
in premio del soggiorno qui pianse don Chisciotte la lontananza da
Dulcinea del Toboso.
E questo è il luogo dove il più leale amante della sua donna si
nasconde, venuto a tanta sventura senza saper come o perché. Un amore
avverso lo travaglia e si piglia giuoco di lui; e però don Chisciotte
sparse qui tante lagrime da empirne una botte piangendo la lontananza da
Dulcinea del Toboso.
Mentre egli andava cercando avventure per aspre roccie maledicendo un
cuore più aspro di quelle, senza trovare fra i rischi e balze altro mai
che infortunii, lo sferzò Amore tanto aspramente che don Chisciotte qui
pianse la lontananza da Dulcinea del Toboso!” |
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L'Incantamento
di Dulcinea e le frustate di sancio (XXXV)
Intanto a cadenza di soavissima musica videro che avanzavasi un carro di
que' che si chiamano trionfali, tirato da sei mule bigie coperte di
bianca tela; e sopra di ognuna stavasene un disciplinante, vestito pure
di bianco e con in mano grande torcia di cera accesa che lo rendea
risplendente.
Era il carro due o tre volte volte maggiore dei già descritti, e tutt'all'intorno
v'eran seduti altri dodici disciplinanti, bianchi come la neve e tutti
con torce accese: apparato che recava abbagliamento e stupore insieme.
Sopra elevato trono era collocata una ninfa ammantata tutta di vesta di
tocca argentina assai brillante e con in testa infinite foglie d'oro
falso, che la rendevano, se non ricca, almeno di superbo aspetto, e
teneva il viso velato da mezzo zendale così trasparente che lasciava
scorger al di sotto bellissima faccia di donzella, la cui vaghezza ed età
tra i diciassette e i venti anni, chiaramente apparivano mercé lo
splendore dei tanti lumi. Stavale accanto altra figura vestita di
zimarra, di quelle lunghe e strascinanti fino ai piedi, e coperta il
capo di nero velo.
All'istante in cui arrivò il carro dirimpetto ai duchi e a don
Chisciotte, cessò la musica dei pifferi e subito dopo quella delle arpe
e dei flauti; ed alzatasi la figura dalla zimarra lasciatala sciolta dai
due lati, ed indi toltosi il velo dalla faccia, scoprì patentemente
ch'era la figura della morte scarnata e brutta: figura che dispiacque
assai a don Chisciotte, che infuse spavento in Sancio, e che lasciò
fingere anche nei duchi un senso di vero timore. Rizzatasi questa Morte
viva, con voce come sonnolenta, e con lingua non molto sciolta, in
questa guisa si espresse:
“I' son Merlin ch'ebbe a padre il diavolo,
(Se non menton l'istorie: e se pur mentono,
Degli anni il corso accreditò la favola)
Sommo della magia monarca e principe,
Archivista del senno zoroastrico,
Rival del tempo e degl'ingordi secoli,
Che l'alte geste d'oscurar procacciano
De' cavalieri erranti, razza intrepida.
Per la qual proprio mi disfaccio in zucchero.
E benché ne' stregoni e ne' malefici
E ne' seguaci lor perversa l'indole
Appaia sempre e il cuor crudele e perfido,
Io però dolce son, soave, affabile,
E a tutti cerco riuscir benefico.
Mentre là negli oscuri spechi d'Erebo
Stommi con l'alma assorta, e tutto m'applico
In formar certi rombi e arcane cifere,
Ratto mi giunse della bella ed unica
Dulcinea del Toboso il mesto gemito.
Seppi la sua sventura e l'incantesimo,
Che di dama gentil cambiolla in zotica
Paffuta villanzona. Dolor presemi
E tosto dell'orribil metamorfosi
Mi diedi ad indagar l'occulta origine;
E poiché stetti centomila a svolgere
Tomi
ripieni del saver diabolico,
Ecco che a sì reo duolo, a mal sì critico
Or acconcio rimedio a porre accingomi.
O tu, gloria e splendor di quanti vestono
Lucido acciaro e adamantine tuniche,
Lume, fanal, sentiero, polo e mentore
Di quanti abborron di poltrir nell'ozio
E il grave uffizio degli Erranti imprendono;
A te annunzio, o baron, non mai qual meriti
Lodato assai, a te del par magnanimo
Che saggio don Chisciotte, onor di Mancia,
Di Spagna stella, che se brami rendere
Al primiero esser suo la bella ed unica
Dulcinea del Toboso, è necessario
Che Sancio tuo scudier tremila diasi
Trecento scudisciate in sulle solide
Chiappe scoperte all'aria, e con tale impeto
Che si ammacchin, si rompano, si scuoino.
Sol con questo avverrà che in fumo vadano
Quanti del mal di lei fùro gli artefici.
È questo, miei signor', verace annunzio.”
— Per la vita mia, soggiunse subito Sancio, non tremila frustate, ma
tanto io me ne darei tre sole come tre pugnalate. Ché il canchero roda
l'inventore di questo bel modo di trarre d'incanto: e viva Dio che non
hanno niente a che fare gl'incantesimi colle mie natiche innocenti; e se
questo signor don Merlino non ha altre strade per disincantare la
signora Dulcinea del Toboso, io per me non mi oppongo ch'ella vada
incantata anche in sepoltura.
— Oh la finirà, disse allora don Chisciotte a Sancio Pancia, che io
ti piglierò, pezzo di villano distruttore di agli, e ti legherò ad un
albero, nudo come sei nato; e se non bastano tremila e trecento, ben
seimila e seicento frustate ti regalerò, e sì sode che varranno per
tre mila e trecento strappate; né mi stare a replicare sillaba, se non
vuoi che io ti cavi il cuore.”
Merlino allora soggiunse:
— No, non ha ad essere così, perché le frustate debbono essere
ricevute dal buon Sancio volontariamente e giammai per forza, e nel
tempo che più gli tornerà a grado, che non gli si prescrive termine
fisso: gli resti anzi concesso che volendo ridurre alla metà il
travaglio di questa flagellazione, possa lasciarsela affibbiare per mano
altrui, purché la mano sia pesante.
— Né per mano altrui, né per propria, né pesante, né da pesare,
replicò Sancio, e nessuno mi toccherà. Sono forse stato io che ho
partorito la signora Dulcinea, perché il male che hanno fatto i suoi
occhi abbia ad essere pagato dal mio corpo? Questo è debito del mio
padrone, questa è parte sua, a lui tocca, a lui, che ad ogni passo la
chiama vita mia, anima mia, mio sostegno, mia
sicurezza. Egli si faccia frustare per lei, e faccia quanto è
necessario affinché si disincanti; ma che io frusti me? abernunzio.”
Non avea appena terminato Sancio di dire queste parole, che rizzatasi in
piè l'argentata ninfa che stava accanto allo spirito di Merlino, e
toltosi il sottil velo dal viso, si lasciò a tutti vedere, tale che
parve più che mezzanamente bella e di grazia piuttosto virile. Con voce
non molto donnesca, rivolgendo il discorso direttamente a Sancio, gli
disse:
— O malavventurato scudiere! animalaccio, cuore di sughero, viscere di
macigno, di acciaio! Se ti fosse comandato, o ladrone, o prepotente, di
gittarti dall'alto al basso di una torre; se si esigesse da te, nemico
dell'uman genere! che avessi ad ingoiarti una dozzina di rospi, due
ramarri e tre serpenti; se ti avessero persuaso di ammazzare tua moglie
e i tuoi figli con truculenta ed acuta scimitarra, non sarìa maraviglia
che ti mostrassi schifo e restìo; ma reca bene sorpresa e sdegno e
terrore al pietoso animo di chi ti ascolta e di quanti vivranno dopo di
noi, l'udire che tu muovi difficoltà, e ti dai gran pensiero di tremila
e trecento frustate, mentre non vi ha bambino di dottrina, per
furfantello che sia, che in ogni mese non ne pigli altrettante! Volgi, o
miserabile e indurito animale, volgi, ripeto, quei tuoi occhi di muletto
ombroso, nelle pupille di questi miei, che sono tante roteanti stelle, e
li vedrai a filo a filo, a matassa a matassa, sgorgare lagrime, facendo
solchi, carriere e sentieri pei campi delle mie gote. Muovati, volpone e
mostro malintenzionato, questa fiorente età mia, che sta nella decina e
nella unità, non avendo ancora venti anni, e vedila come si consuma e
appassisce sotto la scorza di razza villana. Ella è sola mercede
segnalatissima del signor Merlino, che qua è presente, ch'io tale non
sembri per solo fine d'intenerirti colla mia vaghezza, mentre le lagrime
di beltà desolata convertono in bambagia le rupi e le tigri in agnelli.
Ah batti, batti quelle tue carnacce, bestione indomito: spoltra quella
tua anima, che pare nata per mangiare e per divorare; inclinati una
volta a dare libertà a queste liscie mie carni, alla soavità del mio
spirito, alle attrattive del mio sembiante, e se io non valgo ad
addolcirti ed a condurti a termini ragionevoli, fallo almeno per quel
misero cavaliere che ti sta accanto: fallo per quel tuo padrone, che
tiene l'anima attraversata alla gola e non lontana dieci dita dai
labbri, e che non aspetta altro fuorché barbara o dolce risposta per
uscirgli dalla bocca o ritornargli dentro allo stomaco.” Dopo questi
rimproveri, don Chisciotte si tastò la gola, e volgendosi al duca,
disse:
— Giuro, o signore, che Dulcinea ha detto la verità, mentre io tengo
appunto l'anima attraversata alla gola, come una noce di balestra.
— Ebbene, soggiunse la duchessa a Sancio, che rispondete voi adesso?
— Io rispondo, egli disse, quello che ho già detto, che alle frustate
abernunzio.
— Abrenuncio, dovete dire, Sancio mio, replicò il duca.
— Per carità, la grandezza e celsitudine vostra mi lasci stare,
rispose, che ho altro adesso per la testa che badare a sottigliezze, o
se le lettere vadano a puntino al proprio luogo. Costoro mi fanno stare
tutto sconvolto, e queste frustate che vogliono affibbiarmi o che debbo
regalarmi da me medesimo, sono faccenda tale, che io non so più né
quello che mi dica né quello che mi faccia. Ma vorrei sapere dalla mia
signora Dulcinea del Toboso, chi è stato colui che le insegnò questi
modi di pregare? Vuole che io mi diserti le carni a frustate, e in
aggiunta mi favorisce dei titoli di animalaccio, di bestione indomito,
con una sequenza di perfidi nomi che non li tollererebbe il demonio?
Crede ella ch'io abbia le carni di bronzo? che importa a me ch'ella
s'incanti o si disincanti? e poi che compenso mi dà? dov'è almeno una
cesta di biancheria o di cuffie o di calzette (quantunque io non ne
porti) che possa mitigarmi, senza passare da uno in altro vituperio? Si
sa bene il proverbio che un asino carico d'oro monta leggermente sopra
una montagna: che i donativi spezzano i sassi; che aiutati che io ti
aiuterò; che più vale un prendi che un ti do: e il mio
signor padrone, che dovrebbe lisciarmi la coda e incoraggirmi perché mi
facessi di lana o di bambagia scardassata, aggiunge ancora egli che se
mi piglia, mi lega nudo ad un albero e mi raddoppia la pietanza delle
frustate! Dovrebbero considerare, questi sconsolati signori, che non
solamente ora dimandano che si frusti uno scudiere, ma un governatore, e
che questo non è mica bere un bicchiere di vino di visciole. Imparino,
imparino, in loro malora, a saper pregare, a saper domandare e ad avere
creanza: che i momenti non sono uguali, né gli uomini si trovano sempre
di buon umore. Io sono qua coll'anima tutta amareggiata per vedere in
brani il mio vestito verde, e vengono a dimandarmi che mi frusti di
quella piena volontà che non ho e non avrò mai!
— In verità, amico Sancio, disse il duca, che se non v'intenerirete
più che fico maturo, non arriverete mai a mettere le mani sulle redini
d'un governo. Sarebbe egli giusto che io mandassi ai miei isolani un
governatore di animo crudele, di viscere pietrine, che non si commuove
al pianto delle sconsolate donzelle, né ai prieghi dei discreti,
imperiosi ed antichi incantatori e savi? In sostanza, mio Sancio, o
dovete frustarvi o dovete lasciarvi frustare; senza di ciò non
diventerete mai governatore.
— Signor mio, ripigliò Sancio, non mi si potrebbe dare due giorni di
termine per pensar al mio meglio?
— No, in verun modo disse Merlino: questo è affare che va deciso
subito, in questo istante e in questo luogo medesimo: o Dulcinea tornerà
alla grotta di Montésino, ed al suo pristino stato di villana, oppure
sarà portata, nella forma nella quale ora sta, ai Campi Elisi, ed ivi
starà attendendo che compiasi l'intera flagellazione.
— Or via, Sancio buono, disse la duchessa, buon animo e buona
corrispondenza al pane che vi ha dato a mangiare il vostro signor don
Chisciotte, cui noi tutti dobbiamo servire e piacere per le sue
eccellenti qualità e per le sue esimie cavallerie: pronunziate il sì,
figliuol mio, di questa frustatura; si sperda il diavolo e muoia la
viltà, ché forte cuore, come voi ben sapete, scaccia la mala
ventura.”
Dopo queste insinuazioni, Sancio si rivolse a Merlino, e così lo
interrogò:
— Mi dica la signoria vostra, signor don Merlino, quando è venuto qua
il diavolo corriere, e fece al mio padrone l'ambasciata del signor Montésino,
ordinandogli da parte sua che lo attendesse in questo sito, disse che
sarebbe venuto egli stesso a ordinar quanto occorreva per disincantare
la signora Dulcinea del Toboso, ma sino ad ora non si è veduto né Montésino,
né niente che lo somigli.
Merlino gli rispose:
— Il diavolo, amico Sancio, è un ignorantone ed un grandissimo furbo.
L'ho mandato io stesso in traccia del vostro padrone non con l'imbasciata
di Montésino, ma a nome mio, perché Montésino sta sempre nella sua
grotta, credendo vicino, o a meglio dire, aspettando il suo disincanto,
né altro gli resta tuttavia che la coda da scorticare. Se qualche cosa
vi dee consegnare, o voi avete di che trattare con lui, io nel trarrò
fuori, e lo farò arrivare dove più vi piaccia, ma per adesso finite di
dare il sì di questa disciplina, e credetemi che ridonderà
a grande vostro giovamento, tanto per l'anima, atteso l'atto
caritatevole che siete per eseguire, quando pel corpo, perché io so che
siete di complessione sanguigna e non potrà recarvi nocumento il
levarvi un poco di sangue.
— Gl'incantatori sono forse anche medici? replicò Sancio. Orsù,
giacché tutti vanno ribattendo il chiodo sebbene non vi concorra la mia
volontà, dirò che sarò contento di darmi le tremila e trecento
frustate, a condizione per altro che me le darò come e quando mi verrà
voglia, senza che mi sia segnalato limite nei giorni e nel tempo. Io
procurerò d'uscir del debito il più presto che per me si potrà,
affinché goda il mondo della bellezza e vaghezza della grande signora
donna Dulcinea del Toboso, che per quello che s'è veduto, tuttoché io
ne pensassi diversamente, ella è bellissima. Io voglio poi un altro
patto, ed è che io non posso essere obbligato a disciplinarmi a sangue,
e che se mi darò qualche frustata per cacciare via le mosche, mi si
dovrà porre a conto: item che se sbagliassi nel numero il signor
Merlino, che sa tutte le cose, ha da aver cura di contare le frustate e
di dirmi o quante ne manchino o quante ne avanzino.
— Dell'avanzo non occorrerà avvisare, disse Merlino, mentre compito
il prescritto numero, seguirà d'improvviso il disincanto della signora
Dulcinea, la quale, mossa da gratitudine, si recherà in traccia del
buon Sancio a ringraziarlo ed anche a premiarlo per la eccellente opera
che avrà compita. E perciò non occorrono scrupoli sull'avanzo, ma
stare attenti al mancamento, che non ingannerò mai alcuno al mondo, se
bene si trattasse d'un pelo della testa.
— Ebbene alle mani disse Sancio: io consento al mio malanno, e
voglio dire che accetto la penitenza colle condizioni sopraccennate.”
Non aveva appena Sancio terminato di proferire queste ultime parole,
che tornossi a sentire suoni di pifferi e di tamburi e a sparar infiniti
archibugi, e don Chisciotte abbandonatosi al collo del suo scudiere, lo
baciò mille volte in fronte e nelle guancie. La duchessa, il duca
ed i circostanti tutti diedero segno di avere provato sommo contento: il
carro riprese il cammino, e la vezzosa Dulcinea, passando, inchinò la
testa dinanzi ai duchi e fece a Sancio una profonda riverenza.
Già venia per le poste l'alba lieta e ridente; i fiorellini nei campi
spuntavano e germogliavano, e i liquidi cristalli dei fonti, collo
scorrere mormorando tra bianca e bigia ghiaia, andavano a dare tributi
ai fiumi che li attendevano. La terra allegra, il cielo placido, l'aere
puro, la luce serena, ognuno di per sé e tutti congiuntamente
mostravano ad evidenza che un giorno preceduto da sì vaga aurora, bello
e risplendente dovesse riuscire.
Soddisfatti i duchi della caccia e della felice e avveduta riuscita del
loro divisamento, tornarono al castello, proponendo seco medesimi di
procedere nelle burle, in paragone delle quali non poteva esservi cosa
fondata sul vero, da cui ritrarre potessero maggior diletto. |
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LE
frustate di Sancio
(LXIX )
— Tu hai ragione, amico Sancio, rispose don Chisciotte, e
Altisidora si è portata male assai nel non darti le promesse camicie, ma
pensa che la virtù che possiedi è gratis data, perché non ti
costò veruno studio, ché non si vuole studio di sorta per farsi
martoriare la persona: ti dirò ben io che se tu avessi voluto essere
pagato per le frustate indispensabili al disincanto di Dulcinea, io ti
avrei dato il più generoso guiderdone, quando però non mi fosse venuto
il sospetto che il premio non avesse resa inefficace la medicina: ma già
mi pare che non si perderà niente a farne la prova. Orsù, veniamo a
patti, Sancio mio caro, guarda quanto pretendi, e frustati subito e pagati
in moneta sonante, giacché tu hai i miei danari nelle tue mani.” Sancio
spalancò gli occhi ed allungò il collo a questa offerta, ed in cuor suo
stabilì di frustarsi di molta buona voglia, sicché disse al padrone: —
Penso di dare gusto a vossignoria in quello che desidera con mio utile;
perché l'amore che porto a Teresa Pancia ed ai figliuoli è causa che mi
abbia a dimostrare interessato. Ora mi dica a quanto mi pagherà ogni
frustata. — Se ti avessi a pagare, o Sancio, rispose don Chisciotte,
nella misura che merita la grandezza e qualità di questo rimedio,
sarebbero poca cosa i tesori di Venezia e le miniere del Potosi, ma fa
conto su quello che tieni di ragion mia, e metti tu stesso la tassa ad
ogni frustata. — Sono, rispose Sancio, tremila trecento e tante: cinque,
me ne ho date a conto, e restano le più; e entrino tra le tante le
cinque, e riduciamoli a tremila e trecento, che ad un quarticello per una
(che non ne vorrei meno se tutto il mondo me lo comandasse) ammontano, per
le tremila, a tremila quarticelli che sono mille e cinquecento mezzi
reali, che vengono a formare settecento cinquanta reali, e le trecento
fanno centocinquanta mezzi reali, che vengono ad essere settantacinque
reali, i quali aggiunti ai settecentocinquanta, sono in tutto ottocento
venticinque reali. Questi io li diffalcherò da quelli che tengo di
ragione di vossignoria, e provveduto e contento tornerò in casa mia,
comunque bene frustato; ché già non si può avere il male senza le
mosche. — O Sancio benedetto! Sancio amabile! rispose don Chisciotte, oh
quanto ci troveremo obbligati, Dulcinea ed io, a servirti nei giorni tutti
che ci donerà il cielo di vita! Se torna Dulcinea al primiero suo essere
(che non è possibile che non torni) fortuna si potrà dire la sua
disgrazia, felicissima e trionfante la mia passata sconfitta. Ora pensa tu
quand'è che vuoi dare principio alla disciplina, che io per abbreviarne
il termine ti aggiungo dieci reali. — Quando? disse Sancio: in questa
notte senza alcun fallo; e procuri vossignoria che ci troviamo in campagna
a cielo scoperto, che io diserterò queste mie povere carnGiunse la notte
attesa da don Chisciotte colla maggiore ansietà, sembrandogli che le
ruote del carro di Apollo si fossero fracassate e che si allungasse il
giorno oltre l'usato; al modo appunto che accade agli innamorati, i quali
non aggiustano mai la partita dei loro desiderii. Penetrarono finalmente
in un albereto poco distante dalla strada maestra, dove lasciando vôta la
sella e la bardella di Ronzinante e del leardo, si coricarono sulla verde
erba, e cenarono della provvisione che seco portava Sancio; il quale,
facendo del capestro e della cavezza del leardo una forte e pieghevole
disciplina, si scostò dal suo padrone intorno a venti passi, e andò
presso alcuni faggi. Don Chisciotte che lo vide andare con animo risoluto
ed ardito, gli disse: — Bada, amico, di non maltrattarti soverchiamente;
lascia tempo tra una frustata e l'altra, né accelerarne troppo il corso,
affinché sul bel mezzo non ti venga a mancare il fiato; e voglio dire che
le frustate non sieno tanto terribili che ti abbia a mancare la vita prima
che si compia il numero stabilito: ma perché tu non pecchi nel troppo né
nel troppo poco, io starò qui in un canto e conterò con questa corona le
frustate che ti darai; ed ora il cielo ti secondi conformemente al merito
della tua buona intenzione.
— Al buon pagatore non gli dolgono i pegni, disse Sancio, ed io penso
di disciplinarmi in maniera da sentire il dolore, ma senza ammazzarmi, che
in questo appunto deve consistere la sostanza del miracolo.” Si spogliò
dalla cintola all'insù, e acchiappata la funicella, cominciò a
flagellarsi, e don Chisciotte a noverare le frustate. Doveva aversene date
Sancio intorno a sei o otto, che gli parve troppo brutto il giuoco e
troppo vile il prezzo, e fermandosi un poco disse al padrone, che
protestava di essersi ingannato, perché ognuna di quelle frustate
meritava mezzo reale, e non un solo quartuccio. — Tira pure innanzi
Sancio mio, non perderti di animo, gli rispose don Chisciotte, che
raddoppierò la posta. — Se così è, disse Sancio, piovano le
frustate;” ma il volpone in vece di battersi le spalle andava battendo
gli alberi, e mandava di tanto in quanto certi gemiti sì lunghi che ad
ognuno di essi pareva che l'anima dovesse scappargli fuori. Don Chisciotte,
ch'era tenero di cuore e timoroso che Sancio non lasciasse la vita, e in
conseguenza non potesse egli giungere al suo intento per la imprudenza
dello scudiere, si fece a dirgli: Per vita tua, amico, non tirare più
innanzi, che questa medicina mi pare crudele, e sarà bene dar tempo al
tempo, che Roma non si costrusse in un'ora: ti sei date, se non ho contato
male, più di mille frustate, e bastino queste per ora, ché l'asino
sopporta il carico, ma non il sopraccarico. — No, no, signor mio non
voglio che si dica di me: Chi paga innanzi è servito dopo; si scosti un
poco, e mi lasci dare non meno di altre mille frustate, ché a due levate
di queste avremo saldata la partita ed anche ne sopravanzeranno. — Poiché
sei in sì buona disposizione, replicò don Chisciotte, il cielo ti aiuti,
e continua pure che io mi metto d'accanto.” Tornò Sancio al suo giuoco
con tanto fervore, che aveva già levata la corteccia al tronco
dell'albero: sì grande era la violenza con cui frustava; ed una volta con
voce sonora dando una fortissima scudisciata ad un faggio, disse:
— Qua morrai, Sansone, e quanti sono con te.”
All'udire questo doglioso accento, e al colpo della strepitosa percossa
volò don Chisciotte e prendendo il torto capestro che servì a Sancio per
istrumento di disciplina, gli disse:
— Non permetta la sorte, o Sancio amico che per soddisfar me, tu perda
una vita che deve servire per sostentare la tua moglie e i tuoi figliuoli;
aspetti pure Dulcinea migliore congiuntura, che io mi conterrò nei limiti
di una propinqua speranza, e attenderò che nuove forze tu riacquisti,
perché abbia termine questo negozio con soddisfazione di tutti i noi.
— Poiché così piace a vossignoria, rispose Sancio, così sia alla
buon'ora, e intanto mi getti il suo ferraiuolo sopra le spalle, che io sto
sudando, e non vorrei raffreddarmi, ché questo è il risico in cui
incappano tutti i nuovi disciplinati.”Don Chisciotte secondò le
preghiere di Sancio, e restando in farsetto, lo coprì, ed egli si
addormentò sino a tanto che lo destò il sole, e poi continuarono il
viaggio, il quale per allora ebbe fine in un paese ch'era di là lontano
tre leghe. |