FONTI

Qui di seguito trovate i brani del Don Chisciotte riferiti agli episodi citati nello spettacolo di Franco Branciaroli
L'INIZIO DEL ROMANZO

CAPITOLO I

 DELLA CONDIZIONE E DELLE OPERAZIONI DEL RINOMATO IDALGO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA.

Viveva, non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami, un idalgo di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia. Egli consumava tre quarte parti della sua rendita per mangiare piuttosto bue che castrato, carne con salsa il più delle sere, il sabato minuzzoli di pecore mal capitate, lenti il venerdì, coll'aggiunta di qualche piccioncino nelle domeniche. Consumava il resto per ornarsi nei giorni di festa con un saio di scelto panno di lana, calzoni di velluto e pantofole pur di velluto; e nel rimanente della settimana faceva il grazioso portando un vestito di rascia della più fina. Una serva d'oltre quarant'anni, ed una nipote che venti non ne compiva convivevano con esso lui, ed eziandio un servitore da città e da campagna, che sapeva così bene sellare il cavallo come potare le viti. Toccava l'età di cinquant'anni; forte di complessione, adusto, asciutto di viso; alzavasi di buon mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il soprannome di Chisciada o Chesada, nel che discordano gli autori che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può presupporre che fosse denominato Chisciana; il che poco torna al nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta non ci scostiamo un punto dal vero.
Importa bensì di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era ozioso (ch'erano il più dell'anno), applicavasi alla lettura dei libri di cavalleria con predilezione sì dichiarata e sì grande compiacenza che obbliò quasi intieramente l'esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla manìa d'erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a spropriarsi di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria. Di questa maniera ne recò egli a casa sua quanti gli vennero alle mani; ma nissuno di questi gli parve tanto degno d'essere apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva, la nitidezza della sua prosa e le sue artifiziose orazioni gli sembravano altrettante perle, massimamente poi quando imbattevasi in certe svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava scritto: La ragione della nissuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende sì debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza. E similmente allorché leggeva: Gli alti cieli che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che meritatamente attribuito viene alla vostra grandezza.
Con questi e somiglianti ragionamenti il povero cavaliere usciva del senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato che lo stesso Aristotele non avrebbe mai potuto deciferare, se a tale unico oggetto fosse ritornato tra i vivi. Non gli andavano gran fatto a sangue le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che di buon diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste impresse e vestigia e cicatrici, per quanto accuratamente foss'egli stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l'autore perché chiudeva il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche stimolato le molte volte dal desiderio di dar di piglio alla penna per compiere quella promessa; e senz'altro l'avrebbe fatto giungendo allo scopo propostosi dal suo modello; se distratto non l'avessero più gravi ed incessanti divisamenti. Ebbe a quistionar più volte col curato della sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato miglior cavaliere o Palmerino d'Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era peraltro d'avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niuno al mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galeorre fratello di Amadigi di Gaula, da che nulla fu mai d'inciampo alle sue ardite imprese; e non era sì permaloso e piagnone come il fratello, a cui poi non cedeva sicuramente in valore. In sostanza quella sua lettura lo portò siffattamente all'entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì, il dì dalla notte; di guisa che pel soverchio leggere e per il poco dormire gli s'indebolì il cervello, e addio buon giudizio. Altro non presentavasi alla sua immaginazione che incantamenti, contese, battaglie, disfide, ferite, concetti affettuosi, amori, affanni ed impossibili avvenimenti: e a tal eccesso pervenne lo stravolgimento della fantasia, che niuna storia del mondo gli pareva più vera di quelle ideate invenzioni che andava leggendo. Sosteneva egli che il Cid Rui Diaz era stato bensì valente cavaliere, ma che dovea ceder la palma all'altro dall'ardente spada, il quale d'un solo manrovescio avea tagliati per mezzo due feroci e smisurati giganti. Più gli piaceva Bernardo del Carpio per avere egli ucciso in Roncisvalle l'incantato Roldano, valendosi dell'accortezza d'Ercole allorché soffocò fra le sue braccia Anteo figlio della Terra. Celebrava il gigante Morgante perché discendendo egli da quella gigantesca genìa, che non dà che scostumati e superbi, pure egli solo porgevasi affabile e assai ben creato. Dava però a Rinaldo di Montalbano sopra ad ogni altro la preferenza, e segnatamente quando lo vedeva uscire dal suo castello, a far man bassa, di quanto gli capitava alle mani, derubando in Aglienda quell'idolo di Maometto che era tutto d'oro secondoché riferisce la sua storia. Avrebbe egli sacrificata la sua serva, e di vantaggio pur la nipote alla smania che tenea d'ammaccare a furia di calci il traditor Ganelone.
In fine perduto affatto il giudizio, si ridusse al più strano divisamento che siasi giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e necessario per l'esaltamento del proprio onore e pel servigio della sua repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli esercizii tutti dei quali aveva fatto lettura. Il riparare qualunque genere di torti, e l'esporre sé stesso ad ogni maniera di pericoli per condursi a glorioso fine, doveano eternare fastosamente il suo nome; e figuravasi il pover'uomo d'essere coronato per lo meno imperadore di Trebisonda in merito del valore del suo braccio. Immerso in tali deliziosi pensieri, ed alzato all'estasi dalla straordinaria soddisfazione che vi trovava, si diede la più gran fretta onde porli ad esecuzione. Applicossi prima di tutto a far lucenti alcune arme di cui si erano valsi i bisavoli suoi, e che di ruggine coperte giacevano dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che gli fu possibile, poi s'accorse ch'era in esse una essenziale mancanza, perocché invece della celata con visiera, eravi solo un morione; ma; supplì a ciò la sua industria facendo di cartone una mezza celata, che unita al morione pigliò l'apparenza di celata intera. Egli è vero che per metterne a prova la solidità trasse la spada, e vi diede due colpi col primo dei quali, in un momento solo, distrusse il lavoro che l'aveva tenuto occupato una settimana; né gli andò allora a grado la facilità con cui la ridusse in pezzi; ma ad oggetto che non si rinnovasse un tale disastro, la rifece consolidandola interiormente con cerchietti di ferro, e restò così soddisfatto della sua fortezza che senza metterla a nuovo cimento rinnovando la prova di prima, la ebbe in conto di celata con visiera di finissima tempra.
Si recò da poi a visitare il suo ronzino, e benché avesse più quarti assai d'un popone e più malanni che il cavallo del Gonella — che tantum pellis et ossa fuit gli parve che non gli si agguagliassero né il Babieca del Cid, né il Bucefalo di Alessandro. Impiegò quattro giorni nell'immaginare con qual nome dovesse chiamarlo, e diceva egli a sé stesso che sconveniva di troppo che un cavallo di cavaliere sì celebre non portasse un nome famoso; e andava perciò ruminando per trovarne uno che spiegasse ciò che era stato prima di servire ad un cavaliere errante, e quello che andava a diventare. Era ben ragionevole che cambiando stato il padrone, mutasse nome anche la bestia, ed uno gliene fosse applicato celebre e sonoro; e quindi dopo aver molto fra sé proposto, cancellato, levato, aggiunto, disfatto e tornato a rifare sempre fantasticando, stabilì finalmente di chiamarlo Ronzinante, nome a quanto gli parve, elevato e pieno di una sonorità che indicava il passato esser suo ronzino, e ciò ch'era per diventare, vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo.
Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s'applicò fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima storia, che debba essa chiamarsi indubitamente Chisciada e non Chesada, come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro eroe che il valoroso Amadigi non erasi limitato a chiamarsi Amadigi semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula. Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere decise d'accoppiare al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e la patria, e davale onore col prendere da lei il soprannome.
Rese di già lucide l'arme sue, fatta del morione una celata, stabilito il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere errante senza innamoramento è come arbore spoglio di fronde e privo di frutta; è come corpo senz'anima, andava dicendo egli a sé stesso. — Se per castigo de' miei peccati, o per mia buona ventura m'avvengo in qualche gigante, come d'ordinario intraviene ai cavalieri erranti, ed io lo fo balzare a primo scontro fuori di sella, o lo taglio per mezzo, o vinto lo costringo ad arrendersi, non sarà egli bene d'avere a cui farne un presente? laonde poi egli entri, e ginocchioni dinanzi alla mia dolce signora così s'esprima colla voce supplichevole dell'uomo domato: — Io, signora, sono il gigante Caraculiambro, dominatore dell'isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza celebrato cavaliere don Chisciotte della Mancia, da cui ebbi comando di presentarmi dinanzi alla signoria vostra, affinché la grandezza vostra disponga di me a suo talento. Oh! come si rallegrò il nostro buon cavaliere all'essersi così espresso! ma oh quanto più si compiacque poi nell'avere trovato a chi dovesse concedere il nome di sua dama! — Soggiornava in un paese, per quanto credesi, vicino al suo, una giovanotta contadina di bell'aspetto, della quale egli era stato già amante senza ch'ella il sapesse, né se ne fosse avvista giammai, e chiamavasi Aldolza Lorenzo; e questa gli parve opportuno chiamar signora de' suoi pensieri. Dappoi cercando un nome che non discordasse gran fatto dal suo, e che potesse in certo modo indicarla principessa e signora, la chiamò Dulcinea del Toboso perché del Toboso appunto era nativa. Questo nome gli sembrò armonioso, peregrino ed espressivo, a somiglianza di quelli che allora aveva posti a sé stesso ed alle cose sue.

L'EPISODIO DEI MULINI A VENTO
IL RITROVAMENTO DEL LIBRO DI DON CHISCIOTTE
SANCIO LEGA LE ZAMPE A RONZINANTE
L'AVVENTURA DEL RAGLIO DELL'ASINO
LA FOLLIA DI DON CHISCIOTTE
L'INCANTAMENTO DI DULCINEA
LE FRUSTATE DI SANCIO

 

DEL FORTUNATO COMPIMENTO CHE DIEDE IL VALOROSO DON CHISCIOTTE ALLA SPAVENTEVOLE E NON MAI IMMAGINATA AVVENTURA DEI MULINI DA VENTO (VIII)

Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove, sono i giganti? disse Sancio Pancia. — Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d'essi le ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che colà si discoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. — Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.» Detto questo, diede de' sproni a Ronzinante, senza badare al suo scudiere, il quale continuava ad avvertirlo che erano mulini da vento e non giganti, quelli che andava ad assaltare. Ma tanto s'era egli fitto in capo che fossero giganti, che non udiva più le parole di Sancio, né per avvicinarsi arrivava a discernere che cosa fossero realmente; anzi gridava a gran voce: «Non fuggite, codarde e vili creature, che un solo è il cavaliere che viene con voi a battaglia.» In questo levossi un po' di vento per cui le grandi pale delle ruote cominciarono a moversi; don Chisciotte soggiunse: «Potreste agitar più braccia del gigante Briareo, che me l'avete pur da pagare.» Ciò detto, e raccomandandosi di tutto cuore alla Dulcinea sua signora affinché lo assistesse in quello scontro, ben coperto colla rotella, e posta la lancia in resta, galoppando quanto poteva, investì il primo mulino in cui si incontrò e diede della lancia in una pala. Il vento in quel mentre la rivoltò con sì gran furia che ridusse in pezzi la lancia, e si tirò dietro impigliati cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare buon tratto per la campagna.
S'affrettò Sancio Pancia a soccorrerlo quanto camminava il suo asino, e quando il raggiunse lo trovò che non si poteva movere; così fieramente era stramazzato con Ronzinante. «Dio buono! proruppe Sancio, non diss'io alla signoria vostra che ponesse mente a ciò che faceva, e che quelli erano mulini da vento? Li avrebbe riconosciuti ognuno che non ne avesse degli altri per la testa. — T'acqueta, amico Sancio, rispose don Chisciotte; le cose della guerra sono più delle altre soggette a continuo cambiamento; massimamente perché stimo, e così senza dubbio dev'essere, che il savio Frestone, il quale mi svaligiò la stanza e portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per togliermi la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l'inimicizia ch'egli mi porta! ma alla fine dei conti non potranno prevalere le male sue arti contro la bontà della mia spada. — Faccia il signore quello che sia per il meglio,» rispose Sancio Pancia, e l'aiutò ad alzarsi ed a montare sopra a Ronzinante che stava mezzo spallato.
Quindi proseguendo il ragionamento sulla seguìta vicenda si avviarono a Porto Lapice, dove don Chisciotte diceva che non
sarebbero mancate avventure, per esser luogo di gran passaggio: se non che gli dava gran pensiero quel trovarsi privo della lancia; e facendone parola collo scudiere, gli disse: «Ben mi sovviene di aver letto che un cavaliere spagnuolo, chiamato Diego Perez di Vargas, essendosegli rotta in un combattimento la spada strappò da una quercia un pesante ramo, o forse il tronco, e con esso operò tai prodigi in quel giorno e schiacciò tanti Mori, che gli fu posto il soprannome di Schiaccia; e per tal guisa sì egli che i suoi discendenti si chiamarono da quel giorno in poi Vargas e Schiaccia. Ciò ti dico perché dalla prima quercia o rovere in cui m'abbatta, voglio staccare un ramo sì forte come se lo figura la mia immaginazione, e tentare con esso tali prodezze che tu abbia a chiamarti ben avventuroso che ti sia dato in sorte di vederle e di essere testimonio a cose che mai saranno credute. — Alla buon'ora, disse Sancio, io credo quanto vossignoria mi dice: ma di grazia, si raddrizzi un cotal poco, che sembra ch'ella pieghi soverchiamente da questo lato; forse per effetto della sua caduta. — Così è veramente, rispose don Chisciotte, e se non mi lagno del dolore che sento, egli è perché non è lecito ai cavalieri erranti il dolersi per nessuna ferita, quand'anche uscissero loro le budella dal corpo. — Se la cosa è a questo modo non so che replicare, rispose Sancio; ma sa Dio che io non troverei punto sconveniente che vossignoria si lagnasse quando è addolorata nella persona. Io per me, le dico che mi lagnerò di ogni piccolo male, se già non s'intende che al pari dei cavalieri erranti anche i loro scudieri si debbano astenere dal lamentarsi.» Non lasciò di ridere don Chisciotte della semplicità del suo scudiere, e gli dichiarò che potea lamentarsi a suo grado, e comunque gli tornasse in acconcio, non avendo letto negli ordini di cavalleria proibizione alcuna sopra di ciò. Sancio avvertì il padrone che si avvicinava l'ora del pranzo, ed esso gli rispose che non ne avea voglia per allora ma che mangiasse pure a suo grado. Ottenuta questa licenza, Sancio si accomodò il meglio che poté sopra il suo giumento, e cavando dalle bisacce la provvisione di cui le aveva riempite, andava dietro al suo padrone camminando e mangiando molto posatamente; e di tanto in tanto attaccava la borraccia alla bocca con soddisfazione sì grande da mettere invidia anche nel meglio provveduto oste di Malaga: e così bevendo a quel modo erangli uscite di mente le promesse del suo padrone, né gli pareva più faticosa professione; ma piuttosto una specie di passatempo andare cercando avventure, per quanto pericolose si fossero.
In fine passarono quella notte in mezzo agli alberi, da uno dei quali staccò don Chisciotte un ramo secco, che gli potea in qualche modo servire di lancia, appiccandovi il ferro di quella spezzata che gli era rimasto. Non dormì in tutta la notte un momento solo, tenendo sempre il pensiero alla sua signora Dulcinea per non iscostarsi un puntino da ciò che aveva letto nei libri suoi, che i cavalieri passassero le notti vegliando nelle foreste e nei deserti, trattenendosi colla memoria delle loro signore. Non la passò però in questo modo lo scudiero Sancio Pancia, che avendo lo stomaco pieno e non già d'acqua di cicoria, consumò la notte intiera, in un sonno solo, e se il suo padrone non lo avesse chiamato, non lo avrebbero potuto svegliare i raggi del sole che lo ferivano nel viso, né il canto dei molti uccelli che giocondamente salutavano il nascere del nuovo giorno. Nell'alzarsi stese la mano alla sua borraccia, e trovandola assai più leggiera di prima se ne afflisse molto, sembrandogli che la strada allora battuta non dovesse condurlo sì tosto dove poter di nuovo riempirla. Don Chisciotte non volle assaggiar nulla, perché, come s'è detto, erasi già pasciuto delle dolci rimembranze della sua diva.

 

RITROVAMENTO DEL LIBRO DI DON CHISCIOTTE (IX)

Questo pensiero mi scaldava la fantasia, e facevami sempre più desideroso di saper con ogni leal verità la intiera vita e i prodigi del nostro famoso spagnuolo don Chisciotte della Mancia, luce e specchio della mancega cavalleria, ed il primo che nell'età nostra e in tempi sì disgraziati si applicasse all'esercizio ed al travaglio dell'arme cavalleresche, a disfar torti, a soccorrere vedove, a difender fanciulle, di quelle s'intende, che armate dello scudiscio sui loro palafreni andavano di monte in monte e di valle in valle con tutta la loro verginità; e se non era qualche malvagio cavaliere o villano armato o smisurato gigante che le oltraggiasse, benché nel corso di ottant'anni alcune non dormissero mai una volta al coperto, pur sembrerebbero morte intatte come la madre che le aveva partorite. Dico dunque e per questo e per molti altri rispetti, che il nostro don Chisciotte è degno di memorabili ed eterne lodi; le quali a me pure sono dovute per averne con tanta cura ricercata la dilettevole vita. Ringraziato sia il cielo e la buona fortuna, senza il cui favore al mondo sarebbe mancato lo squisito diletto che potrà gustare per quasi due ore chiunque voglia leggere con qualche attenzione. Or ecco in qual maniera mi riuscì di scoprirla.
Trovandomi un giorno nella strada di Alcanà in Toledo, capitò un giovanotto a vendere scartafacci vecchi ad un mercante di seta ed io che ho per costume di leggere ogni pezzo di carta, anche di quelle che ritrovo per via, tratto da questo mio istinto presi uno degli scartafacci che il ragazzo vendeva, e vidi che era scritto in caratteri che riconobbi essere arabici. Ma non sapendo leggerli, mi posi in attenzione per vedere se passasse per quella strada qualche Morisco spagnolizzato né mi fu difficile ritrovare siffatto interprete; perciocché andandomene in cerca ne avrei trovati anche di quelli per una lingua più antica e più santa. In fine la sorte me ne presentò uno al quale spiegai il mio desiderio nell'atto di consegnargli il libro, egli lo aperse, e leggendone un poco si mise a ridere. Gli domandai perché ridesse ed egli mi rispose che era per causa di una annotazione scritta in un margine. Lo pregai che mi facesse sapere; che cosa diceva ed egli, ridendo ancor più soggiunse: “In questo margine è scritto così: Si dice che questa Dulcinea del Toboso, nominata sì spesso nella presente opera, avesse miglior mano di ogni altra donna della Mancia nell'insalare i porci. Quando intesi dire Dulcinea del Toboso rimasi attonito e fuori di me, persuadendomi immantinenti che in quegli scartafacci si contenesse la storia di don Chisciotte. Con questa bella idea nella mente, pregai subito subito il morisco che mi leggesse il principio del libro; ed egli assecondando il mio desiderio, e traducendo l'arabico in castigliano, disse, che stava scritto: Storia di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cid Hamet Ben-Engeli, storico arabo. Durai molta fatica a dissimulare il contento che provai nel sentire il titolo di quel libro; e togliendolo di mano al setaiuolo, comprai dal ragazzo tutti i fogli e gli scartafacci per mezzo reale: che se quegli avesse potuto conoscere a fondo il mio desiderio, me li avrebbe fatti pagare anche sei reali.
Ridottomi con quel Morisco nel chiostro della chiesa maggiore, lo ricercai che mi traducesse in lingua castigliana tutto ciò che riguardava don Chisciotte, senza farvi la menoma alterazione, offrendogli quella mercede che avesse chiesta. A prezzo di cinquanta libbre d'uve passe e di due staia di grano mi promise di farne una buona e fedel traduzione, ed in tempo assai breve; ond'io per agevolar quest'affare e non lasciarmi sfuggir di mano sì bella fortuna, lo condussi a casa mia, dove in poco più di un mese e mezzo tradusse la storia al modo stesso come qui vien riportata.
Trovavasi nel primo scartafaccio dipinta al naturale la battaglia di don Chisciotte col Biscaino, e in attitudine, come parla il libro, di tener la spada in aria, l'uno coperto colla rotella, e l'altro col guanciale; e la mula del Biscaino espressa al vivo per modo da scorgere anche a un tiro di balestra ch'era mula da vetturino. A piede del Biscaino stava scritto: don Sancio d'Aspezia, ché doveva esser questo il suo nome, e in un altro cartello leggevasi a piè di Ronzinante: don Chisciotte. Vedevasi Ronzinante dipinto meravigliosamente tutto lungo, stirato, estenuato, debole con il filo della schiena, sì asciutto ed etico dichiarato a tal punto, che mostrava a tutta evidenza con quanta ponderazione e proprietà gli fosse stato posto il nome di Ronzinante. A lui dappresso stava Sancio Pancia, che tenea l'asino pel capestro, ed appié dello stesso eravi la iscrizione: Sancio Zanca, essendo ciò derivato perché teneva, a quanto mostrava la dipintura, una grossa pancia, statura piccola, stinchi lunghi, ond'è che fu chiamato Panza e Zanca; ed appunto con questi due soprannomi vien talvolta menzionato nella storia.
Avrei da notare alcune altre minuzie, ma sono di poca importanza, e non risguardano la relazione veritiera della storia, che non può essere cattiva se contien verità; e se pure vi fosse qualcosa da opporre alla veracità sua, non potrà ciò derivare se non se dall'essere arabo l'autore che l'ha scritta, essendo la bugia assai propria di quella nazione; benché, come dichiarata nemica nostra, è da credere che abbia detto piuttosto poco che troppo. Ed io sono appunto di questo avviso, perciocché quando doveva quell'autore impegnar la sua penna nelle lodi di sì buon cavaliere, sembra anzi che maliziosamente ne taccia; cosa mal eseguita e peggio pensata, dovendo gli storici avere la verità per primo scopo, e non lo spirito di parzialità: e l'interesse, il timore, l'odio e l'affezione non debbono sviarli dal sentiero della verità, la cui madre è la storia emula del tempo, deposito delle azioni umane testimonio del passato, esempio e specchio del presente, e ammaestramento per l'avvenire. Ed io so che in questa si troverà tutto ciò che d'aggradevole puossi desiderare; e se vi mancasse qualche cosa di buono sarà per colpa del cane del suo scrittore, non per mancanza mai del soggetto. In fine, la sua seconda parte, stando attaccati alla traduzione, cominciava in questa maniera: [In pratica Cervantes racconta la fine dell'episodio che stava narrando come se fosse contenuto nel libro che ha trovato, quindi crea un libro nel libro, come se la fine l'avesse fornita l'aver ritrovato quel libro]
Inalberate le taglienti spade quei valorosi e inveleniti combattenti pareva che minacciassero il cielo, la terra e l'abisso: sì eccessivi erano l'ardire e lo sdegno di cui avvampavano. Il primo a scaricare il suo colpo fu l'inviperito Biscaino, e fu sì grave e furioso che se non avesse piegata per aria la spada, bastava quel solo a dar fine a sì acerba contesa e ad ogn'altra ventura del nostro cavaliere; ma la buona sorte, che lo riserbava a fatti più luminosi, piegò la spada del suo nemico in guisa che sebbene cadesse sull'omero sinistro, non gli produsse altro male che di lasciarlo disarmato interamente da quel lato, tagliandogli gran parte della celata, e con essa metà dell'orecchio. Tutto questo cadde per terra con ispaventevol rovina, e don Chisciotte rimase malconcio. Deh, chi sarà mai che possa pienamente descrivere la rabbia ch'entrò allora nel cuore del nostro Mancego vedendosi a tale ridotto? Basti dire che si rizzò nuovamente sopra le staffe, e prendendo la spada a due mani tempestò con sì gran furia sopra il Biscaino, cogliendo in pieno sul guanciale e sulla testa che ad onta della sua buona difesa, come se gli fosse caduta sul capo una montagna, cominciò a perdere il sangue per le narici, per la bocca e per gli orecchi, ed a barellar con la mula, da cui sarebbe caduto se non si fosse aggrappato strettamente al collo. Gli uscirono però i piedi dalle staffe, poi sciolse anche le braccia; laonde la mula impaurita pel terribile colpo, si pose a correre per la campagna e a tirar calci, e dopo alquanto barcollare stramazzò insieme col suo padrone. Stavasi don Chisciotte con molta gravità guardandolo, ma come lo scorse a terra smontò da cavallo, e lestamente a lui appressatosi, nel presentargli la punta della spada agli occhi, gli disse che s'arrendesse, o che gli verrebbe troncata la testa. Il Biscaino tutto confuso non potea risponder parola, e sarebbe finita male per lui, tanto il furore aveva acciecato don Chisciotte, se le signore del cocchio, che fino a questo punto aveano veduto con grande spavento quella contesa, non gli fossero corse incontro, e non lo avessero pregato con ogni istanza che per grazia e per loro intercessione donasse la vita a quel povero scudiero. E don Chisciotte con tono grave e maestoso rispose: “Sono assai soddisfatto, belle signore, di compiacervi, ma a patto però che questo cavaliere mi dia parola di recarsi al Toboso, di presentarsi per parte mia alla signora Dulcinea, e di lasciarla arbitra del suo destino.” Le impaurite e sconsolate signore, senza cercare d'intendere, quello che don Chisciotte volesse dire, e senza domandare chi fosse questa Dulcinea, gli promisero che lo scudiere avrebbe eseguito a puntino i comandi suoi. “Ebbene, soggiuns'egli, sulla fede di questa promessa io non gli farò altro male, benché se lo abbia assai meritato.” 

 

SANCIO LEGA LE ZAMPE DEL CAVALLO (XX)

“In questi dintorni, per l'indizio che ce ne danno queste freschissime erbe, deve, senza dubbio, trovarsi o una fonte o un ruscello che le inverdisca; e sarà bene, diceva Sancio, che camminiamo un poco; ché noi troveremo certamente il mezzo di estinguere la sete orribile che ci crucia e ci strazia assai più della fame.”
Piacque a don Chisciotte il consiglio, e prendendo egli per le redini Ronzinante, e Sancio, il suo asino pel capestro, dopo averlo caricato degli avanzi della cena, si posero a camminare a tastone qua e là per lo prato, poiché l'oscurità della notte non lasciava loro discernere cosa alcuna. Non ebbero fatto duegento passi, quando giunse loro all'orecchio un gran rumore d'acqua che pareva precipitasse da qualche balza. Questo rumore grandemente li rallegrò; e fermatisi per accertarsi d'onde partiva, un altro ne udirono d'improvviso, ma di natura tale che fece obbliare l'allegrezza dell'acqua scoperta, specialmente a Sancio che per sua natura era timido e di poco cuore. Consisteva in certe botte a battuta, accompagnate da stridore di ferri e catene, che frammisto al furioso rombazzo dell'acqua, avrebbe messo paura in ogni altro cuore che non fosse stato quello di don Chisciotte. Era, come si è detto, oscura la notte, e il caso li portò fra alberi altissimi, le cui fronde, mosse dal vento, producevano un altro mormorio piacevole e pauroso ad un tempo; di qualità che tutt'insieme la solitudine, il sito, l'oscurità, il susurro delle acque, lo stormir delle foglie, tutto cagionava orrore e spavento. E tanto più poi considerando che né le botte cessavano, né il vento taceva, né il giorno era vicino, né oltre a questo sapevano in che luogo si trovassero.
Don Chisciotte però, animato dall'intrepido suo cuore, salì sopra Ronzinante, e imbracciando la rotella dié di piglio al suo lancione, dicendo: — Sancio mio, hai da sapere che io nacqui per favore del cielo in questa età nostra di ferro per fare rivivere quella dell'oro o l'età dorata siccome noi siamo soliti nominarla. Quegli son io a cui riserbati sono i perigli, le alte imprese ed i memorabili avvenimenti; quegli son io cui si aspetta di far rinascere i tempi della Tavola Rotonda, dei dodici paladini di Francia, dei nove della Fama; quegli per cui debbono essere obbliati del tutto i Platiri, i Tablanti, gli Olivanti, i Tiranti, i Febi ed i Belianigi con tutta la caterva de' famosi cavalieri erranti della antica età, facendo in questa nella quale mi trovo tanto grandi azioni, tanto straordinarie cose e fatti d'arme da oscurarne i più celebri finora uditi.
Poni ben mente, fedele ed accorto scudiere mio, alle tenebre di questa notte, al suo silenzio profondo, al sordo e confuso rombare di questi alberi, allo strepitoso mormorare di quell'acqua che siam venuti cercando, e che sembra precipitarsi dagli alti monti della luna, ai colpi incessanti che ci feriscono con tanta pena gli orecchi; cose tutte qui raccolte, ognuna delle quali saria bastante da per sé sola metter tema, paura e spavento nel petto istesso del dio Marte, e tanto più dunque in quello di chi non è avvezzo a così fatti avvenimenti ed incontri. Or bene; tutte queste cose che io ti vengo mettendo in considerazione, sono incentivo e stimolo all'animo mio; e già il cuore mi si gonfia nel petto pel desiderio che ho di affrontare quest'avventura per quanto pericolosa si mostri; perciò restringi un poco le cinghie a Ronzinante, poi rimanti con Dio, ed aspettami qua non più di tre giorni; compiti i quali, se non mi rivedi, torna alla nostra terra, e giunto che vi sarai, ti prego per favore e per grazia di recarti al Toboso, dove dirai alla incomparabile signora mia Dulcinea, che il cavaliere suo schiavo è morto per essersi accinto ad imprese che lo rendessero degno di chiamarsi suo prigioniere.”
Quando Sancio sentì parlare in tal guisa il padrone, si mise a piangere colla maggior commozione del mondo, e gli disse: — Signore, io non so perché mai vossignoria voglia mettersi a sì tremendo cimento;
adesso è notte, qua non si trova anima viva, e noi possiamo andare per un'altra strada e schivare il pericolo, a costo di camminare tre giorni senza trovare una goccia d'acqua per bere; e poiché non v'è chi ci vegga, meno vi sarà chi ci accusi codardi e poltroni. Sovvengomi di aver sentito parecchie volte predicare il curato della nostra terra, ben conosciuto da vossignoria, e dire che chi si espone nel pericolo, nel pericolo cade; né è bene stuzzicare il cane che dorme e mettersi in un cimento da cui l'uomo non possa uscire se non per mero prodigio; e le basti quello che ha fatto il cielo preservandola dall'essere, come avvenne a me, sbalzato per aria colla coperta, e concedendole vittoria sopra quei tanti nemici che accompagnavano il morto; e quando tutto questo non bastasse a movere l'indurato suo cuore, lo mova almeno il pensiero che tosto vossignoria si sarà di qua allontanata, a me uscirà l'anima per la paura e mi resterò qua tutto basito. Sono partito dal mio paese, ho abbandonato la moglie e i figliuoli per venir a servirla, pensando di dover diventarne da più e non da meno: ma siccome il soprappiù rompe il sacco, così mi veggo tolte le speranze quando io le nutriva più vive, di pervenire al governo di quella malaugurata isola infelicissima che le tante volte mi fu proposta da vossignoria; e in cambio e in compenso ora ella si determina di abbandonarmi in un sito così appartato dal genere umano? La prego per carità, padrone mio, di non lasciarmi desolato e deserto, o se non vuole la signoria vostra desistere, rimetta per lo meno il suo viaggio fino alla mattina; che per le cognizioni ch'io ho preso sin da quando era pastore, non possono mancare tre ore all'alba; perché la bocca dell'Orsa minore sta sopra la testa della croce e fa la mezzanotte in braccio sinistro. — Come puoi tu Sancio, disse don Chisciotte, vedere dove sia questa linea né dove questa bocca o questa collottola che vai dicendo, mentre la notte è sì oscura, che non si scorge pur una stella nel cielo? — La cosa è com'io l'ho detta, rispose Sancio, e la paura ha molti occhi e giunge a vedere fino sotterra allo stesso modo come vede fino al cielo; ed è il fatto che poco ci manca allo spuntare del giorno. — Manchi quello che può mancare, replicò don Chisciotte, non si dirà mai di me verun tempo che lagrime o preghiere tolto mi abbiano dall'eseguire il debito di cavaliere; perciò pregoti, Sancio, che altro tu non soggiunga, perché Dio che mi ha posto in cuore di imprendere senza ritardo una non più veduta e ardimentosa avventura, mi guiderà a salvezza e conforterà il tuo dolore; assetta bene le cinghie a Ronzinante, e rimanti qui, che, vivo o morto, presto sarò a te di ritorno.” Vedendo Sancio la decisa volontà del padrone, e le sue lagrime, i suoi consigli e i suoi prieghi essere inefficaci, si avvisò di correre all'astuzia per tentar pure ch'egli aspettasse il giorno; e così nello stringere le cinghie al cavallo, con avvedutezza e senza fare il menomo strepito legò colla cavezza del suo asino i piedi di dietro di Ronzinante, di maniera che quando don Chisciotte si accinse di partire gli fu impossibile perché il cavallo si moveva soltanto a salti. Vedendo Sancio il buon successo dell'arte usata, disse: — Ecco, o signore, che il cielo commosso dalle mie lagrime e dalle mie preghiere ha disposto che Ronzinante non possa moversi, e se ella perfidierà a voler che cammini a furia di sproni e di percosse, sarà uno stancare la fortuna e, come suol dirsi, dar delle pugna all'aria.” Disperavasi don Chisciotte, e più che spronava il cavallo meno lo faceva muovere; laonde senza sospettare della legatura, tenne per il più savio partito di mettersi in quiete ed attendere che facesse giorno e che Ronzinante potesse moversi; né mai pensando che quell'inciampo provenisse dalla malizia di Sancio, gli disse: — Poiché, o Sancio, Ronzinante non può muoversi, sono contento di aspettare lo spuntar dell'alba, benché io pianga questo tempo che ho da perdere fin ch'ella sorga. — Qui non c'è da piangere, rispose Sancio, perché io intratterrò vossignoria col racconto di qualche novella finché si fa giorno, se pure non volesse ella piuttosto smontare e mettersi un po' a dormire su quest'erba, alla maniera de' cavalieri erranti, per trovarsi più agile domattina e più forte a sostenere l'incomparabile avventura che nuovamente lo aspetta. — Che parli tu di scendere o di riposare? disse don Chisciotte. Son io forse di que' cavalieri che cercano riposo prima di affrontare i pericoli? Dormi tu, che sei nato per dormire, o fa quello che ti piace, ch'io mi applicherò a quanto esige la circostanza in cui mi ritrovo. — Non si adiri per questo vossignoria, rispose Sancio, che io non ho parlato a tal fine.” Ed accostandosi a lui pose una mano sull'arcione dinanzi e l'altra sul posteriore per modo che abbracciò la coscia sinistra del suo padrone, senza osare di staccarsi un puntino da lui; e ciò fece per lo spavento da cui fu colto udendo nuovo strepito con nuovo alternar di percosse. Don Chisciotte gli disse che raccontasse qualche novella per trattenerlo secondo la sua promessa; e Sancio rispose che fatto l'avrebbe se glielo permettesse la paura di quello che sentiva. — Contuttociò, soggiunse, mi sforzerò a contare una storia, che se potrò dirla, e me la lasciano dire, sarà trovata la più bella del mondo. Stiami attento vossignoria, e do principio.
“Era ciò ch'era, il bene non viene per tutti e il male per chi ne va in cerca; ed avverta vossignoria che gli antichi non principiavano le loro favole all'impazzata, ma fu una sentenza di
Caton Zonzorino romano, che dice: E venga il malanno a chi se lo va a buscare, che qui torna a proposito come anello al dito, e tanto più a proposito quantoché vossignoria dovrebbe star qui fermo e non andar in cerca di guai; anzi piuttosto mutiamo strada, da che nessuno ci obbliga a seguire questa ch'è piena di tanti spauracchi.
— Prosegui il tuo racconto, disse don Chisciotte, e lascia il pensiero a me della strada da battere.
— Dico pertanto, proseguì Sancio, che in un paese della Estremadura vi era un pastore capraio, dir m'intendo di quelli che guardano capre, il qual pastore capraio, come sto raccontando, chiamavasi Lope Ruiz, e questo Lope Ruiz era innamorato di una pastorella, nominata Torralva, la qual pastorella nominata Torralva, era figliuola di un ricco pastore, e questo ricco pastore...
— Se tu vai narrando a questo modo la tua novella, disse don Chisciotte, e vuoi ripetere due volte tutto quello che dici, non ti basteranno due giorni: raccontala di seguito e da uomo di giudizio, o diversamente non dir altro.
— Nella stessa maniera che la racconto, rispose Sancio, si raccontano nel mio paese tutte le novelle, né io so fare altrimenti, né mi pare ben fatto che vossignoria mi costringa di prendere nuove usanze.
— Dilla come t'è a grado, rispose don Chisciotte, e seguita pure, giacché vuol la mia stella che io resti ad ascoltarti.
— Ora dunque, o signore dell'anima mia, proseguì Sancio, come di già le ho detto, questo pastore era innamorato di Torralva, ch'era una giovane piuttosto rozza e selvatica, ed aveva un poco dell'uomo, perché le spuntavano un po' di mustacchi, che mi sembra propriamente di averli sott'occhio.
— La conoscesti tu? disse don Chisciotte.
— Io veramente non la ho conosciuta, rispose Sancio, ma chi mi ha fatto questo racconto, mi assicurò che questa cosa era indubitabile e che, facendone io ad altri il racconto, potrei affermare e giurare di averla veduta tal quale. Ora dàlli un giorno, dàlli un altro, il diavolo che non dorme e che va imbrogliando ogni cosa, fece in modo che l'affetto che portava il pastore alla giovane si cambiasse in odio e trista volontà; e ciò nacque (a quanto ne sparsero le male lingue) da un poco di gelosia che ella gli diede, e tale che passando il segno produsse tanto odio nel pastore verso di lei,
che per non vederla si tolse da quel paese per andare dove i suoi occhi non la vedessero più. La Torralva che si vide sprezzata da Lope, cominciò a volergli bene più che mai.
— Questo è naturale istinto nelle donne, disse don Chisciotte, sprezzar chi le ama, e amar chi le odia; ma tira pure innanzi, o Sancio.

— Accadde, disse Sancio, che il pastore eseguì ciò che avea determinato di fare, e mettendosi alla testa delle sue capre, s'incamminò verso le campagne della Estremadura con intenzione di passare nel regno di Portogallo. La Torralva che lo seppe, gli tenne dietro a piedi scalzi da lontano, portando in mano un bordone ed al collo un paio di bisaccie nelle quali aveva posto, a quanto vien detto, un pezzo di specchio, un mezzo pettine, e non so che vasetto di empiastri pel viso; ma si portasse pure quello che meglio le pareva, ch'io non voglio stare adesso a cercarne conto; il fatto si è che il pastore arrivò colla sua mandra al passaggio del fiume Guadiana, il quale era sì gonfio in quella stagione che non si trovava né barca né battello, né battelliere per tragittare né lui né la sua mandra. Di che provò molto fastidio, perché già le pareva di avere alle calcagna la Torralva ad annoiarlo colle sue preghiere e colle sue lagrime: andò nondimeno guardando finché trovò un pescatore che aveva una barca tanto piccola che appena potea capirvi una persona e una capra, ma con tutto questo fece contratto con lui perché lo tragittasse colle trecento capre che conduceva con sé. Entrò il pescatore nella barchetta e tragittò una capra; tornò e ne tragittò un'altra; ritornò ancora e tornò a tragittarne un'altra... Tenga conto vossignoria delle capre che il pescatore va tragittando, perché se una gliene scappa di mente terminerà la novella, e non sarà possibile di
proseguirla. Io proseguo dunque il racconto, e dico, che la riva opposta del fiume era piena di fango e sdrucciolevole molto, sicché tardava il pescatore ad andare e tornare; contuttociò tornò per tragittare un'altra capra e poi un'altra e un'altra poi...
— Fa conto che sieno passate tutte, disse don Chisciotte e non ti perdere a dire così pel minuto ogni andata ed ogni ritorno, ché non finiresti di farle passare in un anno.
— Quante ne sono passate finora? disse Sancio.
— Come diavolo vuoi tu ch'io lo sappia? rispose don Chisciotte.
— Ah! poveretto di me, disse Sancio, la ho pure avvertita di tenerne esatto conto, e adesso come farò ad andare avanti?
— E come può darsi ciò? rispose don Chisciotte; tanto essenziale è a questa istoria di saper per l'appunto quante capre erano passate, che sbagliandone il numero non possa andar avanti la storia?
— No, signore, a verun patto, rispose Sancio; perché come io dimandando a vossignoria quante capre erano passate, ella mi rispose che non lo sapeva, così in quel punto stesso scappò a me di mente quanto mi restava da raccontare, ch'era pure fino e gustoso!
— Dunque, disse don Chisciotte, è compita la storia?
— Compita come mia madre, rispose Sancio.
— Per dirti il vero, replicò don Chisciotte, tu mi hai sciorinato uno de' più nuovi racconti, istorie o novelle che si possano immaginare al mondo, ed una forma di raccontarlo e di finirlo come la tua non ha esempio, ma altro non dovea attendermi dal tuo bel modo di ragionare; e poi non me ne maraviglio perché questi colpi che non cessano mai debbono averti turbato l'intelletto.
— Sarà vero, rispose Sancio, ma io so che niente si può aggiungere alla mia istoria che termina dove comincia a perdersi il conto del passaggio delle capre.
— Non importa, replicò don Chisciotte; vediamo se Ronzinante si può movere.”
Tornò a dar degli sproni, e quello a far nuovi salti senza movere un passo: tanto bene l'avea Sancio legato. Frattanto, o per il freddo della mattina che s'accostasse, o perché Sancio avesse mangiato a cena qualche cosa di lenitivo, o perché naturalmente fosse chiamato (ciò ch'è più verosimile) gli venne voglia di fare ciò ch'altri non potea fare per lui; ma tanto grande era la sua paura che non osava scostarsi un passo dal suo padrone. E poiché gli era impossibile di non servire alla sua stringente necessità, per conciliare ogni cosa, levò via la mano diritta dell'arcione di dietro, e sciolto di cheto un cappio scorsoio con cui teneva allacciati i calzoni, alzò il meglio che poté la camicia per fare le sue occorrenze. Ma parendogli poi di non poterne riuscire senza far qualche strepito che lo tradisse, cominciò a stringere i denti e a raggricchiarsi nelle spalle,
trattenendo il fiato il più che poteva; e tuttavolta non valse a impedire che nascesse un cotal rumore diverso da quello che gli aveva messa già tanta paura. Lo sentì don Chisciotte, e disse: — Sancio, che strepito è questo? — Nol so, rispos'egli; qualche altra novità, perché le avventure e le disavventure non vengono mai sole:” e nel dire queste parole il povero Sancio si trovò libero del fardello che gli aveva recato tanto fastidio. Siccome don Chisciotte avea sì perfetto il senso dell'odorato come quello dell'udito, e Sancio gli era sì vicino e tanto immedesimato che quasi per la linea retta salivano in su i vapori, non poté impedire che questi non gli entrassero per le narici; si affrettò di turarle bene con due dita, e parlando così nel naso, disse: — Parmi, Sancio, che tu abbia gran paura. — Per l'appunto, diss'egli; ma donde arguisce vossisignoria ch'io tema più adesso che prima? — Perché adesso più che prima mandi un odore che non è d'ambra, rispose don Chisciotte. — Così può ben essere, replicò Sancio; ma non è mia la colpa, bensì della signoria vostra che mi fa seguitarla in ore insolite e per queste strade deserte. — Tirati in là tre o quattro passi, amico, (disse don Chisciotte senza levar le dita dal naso) e da qui innanzi ricordati di quel rispetto ch'è dovuto alla mia persona, né la molta domestichezza trapassi in noncuranza. — Scommetterei, disse Sancio, che vossignoria crede ch'io abbia fatto qualche cosa fuor del dovere. — Meglio sarà non rimescolare questa faccenda, rispose don Chisciotte.
In questi somiglianti ragionamenti, padrone e scudiere passarono la notte; ma vedendo Sancio che il giorno si avvicinava, cheto cheto slegò Ronzinante e si allacciò di nuovo i calzoni. Quando Ronzinante si trovò sciolto, benché di natura non punto furioso, parve che si risvegliasse, e cominciò a battere i piedi, che di corvette (con buona pace) non ne sapeva far troppe. Vedendo don Chisciotte che Ronzinante si moveva, l'ebbe per buon augurio e come un segnale di doversi accingere alla pericolosa avventura. L'alba intanto finì di spuntare e scorgendosi distintamente le cose, vide don Chisciotte che trovavansi allora tra alti castagni, l'ombra dei quali era molto opaca, e sentì pure che non cessava il rumore dei colpi. Senz'altro indugio die' degli sproni a Ronzinante, e tornando a prendere commiato da Sancio, gli ordinò di aspettarlo in quel sito tre giorni al più, come gli aveva detto già prima; dopo il qual tempo se non lo avesse riveduto, tenesse per certo che il cielo avea disposto ch'egli lasciasse la vita in quella perigliosa avventura. Tornò a ripetergli l'ambasciata che far dovea da sua parte alla sua signora Dulcinea, e che quanto al pagamento dovuto ai servigi suoi non si prendesse pensiero, mentre avea fatto il suo testamento prima di partire dal paese, in vigore del quale si troverebbe compensato di ciò che gli doveva a titolo di salario secondo il tempo che aveva impiegato a servirlo; ma se per favore del cielo uscisse vittorioso da quel pericolo, tener per cosa fuor d'ogni dubbio il possedimento dell'isola che gli avea promessa.
Sancio si mise di nuovo a piangere, udendo le sconsolate parole del suo buon signore, e deliberossi di non abbandonarlo fino al termine, qualunque fosse per essere, di quella ventura. — Da queste lagrime e da questa onorata risoluzione di Sancio Pancia cava l'autore della presente istoria argomento per credere ch'egli fosse uomo ben nato, o almeno cristiano vecchio. Quell'affezione commosse anche il suo padrone, ma non sì però che mostrasse debolezza alcuna; anzi dissimulando alla meglio cominciò a camminare verso il luogo da cui gli parve che partisse il rumore dell'acqua e dei colpi. Sancio seguitavalo a piedi tenendo al solito per la cavezza il giumento perpetuo compagno della sua prospera e contraria fortuna; ed essendosi buona pezza inoltrati fra quei castagni e le altre ombrose piante giunsero in un praticello sotto un'alta balza da cui precipitava un grandissimo volume d'acqua. Stavano pure a pie' della balza pochi rustici casolari mal costrutti, che sembravano rovine di edifizî anziché case, dall'interno dei quali si accorsero che partiva il formidabile fracasso di quelle botte che pur non cessavano.
Si spaventò Ronzinante al rumore dell'acqua e dei colpi, e don Chisciotte, facendogli carezze, a poco a poco lo avviò verso le case, raccomandandosi di tutto cuore alla sua signora, e supplicandola che in quella terribile giornata ed impresa non gli mancasse di favore, e nel tempo medesimo si mise sotto la protezione del cielo. Sancio procurava di non istargli lontano allungando quanto poteva il collo e gli occhi tra le gambe di Ronzinante per vedere la causa di quel fracasso che incuteva sì gravi sospetti e spaventi. E dopo un altro centinaio di passi allo svoltar di una roccia apparve chiara e patente la causa (ché altra non poteva essere) di quanto la scorsa notte gli avea tenuti sì altamente sospesi e impauriti. Procedeva dunque (se hai voglia, o lettore, di venirne a cognizione) da sei magli di gualchiere i quali coll'alternare dei colpi producevano tanto strepito. Quando don Chisciotte conobbe ciò ch'era ammutolì e parve basito da capo a piedi. Sancio lo guardò, e si accorse che tenea la testa china, confessando di essere stato troppo corrivo. Don Chisciotte ancora guardò Sancio, e vide che avea gonfie le gote per la voglia di ridere con evidente segno di dar presto in un grande scoppio. Ciò, ad onta del suo rincrescimento, lo sforzò a ridere egli medesimo. E Sancio, veduto che il suo padrone lo secondava, proruppe in tali scrosci che dovette stringersi i fianchi colle pugna per non iscoppiarne davvero. Quattro volte si ristette, ed altrettante tornò a ridere con la veemenza di prima, lo che fece poi incollerire don Chisciotte, in cui si accrebbe la stizza, vedendo che Sancio in atto di quasi deriderlo, ripeteva le parole: Hai da sapere, amico Sancio, ch'io nacqui per favore del Cielo in questa età di ferro per far rivivere quella dell'oro: quegli son io cui son riserbati i pericoli, le grandi imprese, gli strepitosi avvenimenti; e qui tornava a ripetere quanto il padrone aveva detto la prima volta che uditi si erano gli spaventevoli colpi. Ma don Chisciotte vedendo che Sancio si burlava di lui, montò in tanta furia che, alzato il lancione, gli diede con esso due sì grandi picchiate che se, come le ricevette nelle spalle, gli fossero arrivate alla testa, non avrebbe riscosso altro salario, ma sarebbe toccato ai suoi eredi. Conoscendo Sancio che quella beffa gli costava troppo cara, e temendo che il suo padrone non andasse anche più avanti, gli disse umilmente: — Si quieti la signoria vostra, ché le giuro ch'io burlava. — E se tu burli, io faccio davvero, rispose don Chisciotte; vien qua, ser burlone, pare a te che se questi non fossero stati magli di gualchiere, ma una nuova pericolosa ventura, io non avessi però mostrato cuore bastante, da imprenderla e gloriosamente condurla a fine? Sono io forse obbligato per essere cavaliere, di conoscere e distinguere ogni fracasso e sapere quali sono quelli di gualchiera o d'altro? E potrebbe anche darsi (com'è in fatti) che io non avessi vedute altre gualchiere, mentre tu ne avevi già vedute altrove, per essere un villano nato e allevato tra queste basse cose. Del resto, fa se puoi, che questi sei magli si trasformino in sei giganti; che vengano uno per volta, o tutti uniti, meco a battaglia, e se io non li farò tutti volare in aria, allora ti permetterò di farti beffe della mia persona. — Non vada altro avanti, signor mio, replicò Sancio, che confesso di essermi troppo abbandonato alla mia allegrezza; ma dicami la signoria vostra; ora che ci siamo rappacificati (e Dio la faccia uscire da tutte le avventure che fossero per accaderle sano e salvo com'è uscito da questa) dicami non fu cosa da ridere o da raccontare la gran paura che abbiamo provata, od almeno quella che ho provata io; mentre, so benissimo che la signoria vostra non conosce né sa che cosa sia paura? — Non voglio negare, rispose don Chisciotte, che la non sia cosa da ridere; non però è degna da raccontarsi, che tutti pigliar non sanno le cose pel giusto verso. — Ben seppe, rispose Sancio, la signoria vostra pigliare pel giusto verso il lancione, drizzandomelo alla testa e misurandolo sulle mie spalle; e sien grazie al Signore, ch'io sono stato a tempo di schermirmene, ma tutto andrà a luogo suo, ché intesi dire: chi ti fa piangere ti vuol bene; oltreché sogliono i grandi signori far seguitare il regalo di un paio di calzoni ad un rabbuffo dato ai loro servitori. Non so poi quello che loro soglion donare dopo averli bastonati; ma potrebbe essere che i cavalieri erranti compensassero le bastonate col donativo d'isole o regni nella terraferma.

 

L'AVVENTURA DEL RAGLIO DELL'ASINO (XXV)

Don Chisciotte spasimava di sentire le maraviglie che il portatore delle armi aveva promesso di raccontargli. Andò a cercarlo dove l'oste gli disse che si trovava; e tosto gli espose che era assai voglioso di sapere quello che avesse a narrargli intorno alle vicende accennate durante il cammino. Quell'uomo gli rispose:
— Con comodo e non su due piedi si ha ad udire un racconto ch'è molto singolare; lasci, cortese signor mio, che io termini di governare la mia bestia, e le dirò poi cose che la faranno stupire.
— Non si metta indugio per questo, disse don Chisciotte, che io vi aiuterò a compiere le vostre faccende: e lo fece in effetto vagliandogli la biada e nettandogli la mangiatoia: umiltà che impegnò quell'uomo a soddisfare di tutto buon cuore la sua curiosità. Sedutosi pertanto su di un muricciuolo, e don Chisciotte, accanto a lui, avendo per uditore il giovane, il paggio, Sancio Pancia e l'oste, cominciò in tal guisa a parlare.
— Hanno a sapere, vossignorie, che al giudice di un paese quattro leghe e mezza di qua discosto, per accortezza ed inganno di una ragazza sua fante (e questa sarebbe cosa lunga da dire) mancò un asino, né più fu potuto trovarlo per quante diligenze avesse usate. Dovevano essere passati quindici giorni da che l'asino mancava, quando standosene sulla piazza detto giudice, un altro giudice dello stesso paese, gli disse:
— Datemi la mancia, compare, ché il vostro asino si è ritrovato.
— Ve la darò, e buona, compare, l'altro rispose; ma a buon conto vorrei prima sapere ove fu ritrovato.
— Io lo vidi, soggiunse l'altro, in questa mattina sul monte che aggiravasi per la selva senza bardella o altro arnese, e così assottigliato che moveva pietà a guardarlo: gli passai dinanzi per fermarlo e ricondurvelo, ma si è fatto tanto selvatico ed intrattabile, che quando gli giunsi addosso si diede a fuggire, e si nascose nel più folto del bosco: ora se vi piace che ci rechiamo tutti e due a cercarlo, lasciate prima che rimeni a casa questa mia asinella, e io vi sarò compagno nel viaggio. — Ne avrò gran piacere, disse quello dell'asino, e mi studierò di compensarvi di eguale mercede. Con tutte queste circostanze, e uguale in tutto a questo mio racconto, è quanto depongono tutti coloro che sono informati della verità del fatto. In sostanza i due giudici, marciando a piedi a poco a poco giunsero alla montagna, ed arrivati al sito dove credevano di trovar l'asino, nol rinvennero punto, né per diligenza che si facesse si poté mai vedere in tutti quei contorni. Poiché dunque non si trovava, quel giudice che avealo veduto disse all'altro: — Badate a me, compare, che mi è venuto in testa un modo d'imbatterci infallantemente in questo animale, quand'anche si fosse cacciato nelle viscere della terra non che in quelle della selva; ed il modo è questo: io so ragliare a perfezione, e se voi ancora ne sapete un poco vi do la cosa per bella e fatta. — Se ne so un poco? disse l'altro; per vita mia, compare caro, che non la cedo a nessuno, e neppure agli asini stessi. — Dunque alla prova, rispose l'altro: io ho fatto pensiero che voi ve n'andiate per una parte della montagna ed io per l'altra, in maniera che l'attornieremo e gireremo tutta; e di tratto in tratto raglierete voi e raglierò io, e sarà impossibile che l'asino, se sta sulla montagna, non ci senta e non ci risponda.”
Disse il padrone dell'asino: — Sono persuaso, o compare, che ottimo sia il modo da voi trovato, e degno della vostra gran mente.” Si separarono ambedue giusta l'accordo fatto, ed avvenne che ragliarono entrambi quasi ad un tempo stesso, ed ingannato ciascuno dal raglio dell'altro corsero a cercarsi, pensando che già l'asino si fosse trovato: e nel rivedersi disse quegli che lo aveva perduto: — Com'è possibile, compare, che il raglio che ho inteso non sia stato quello del mio asino?
— Non lo fu, e sono stato io, rispose il secondo giudice. — Vi dico bene in verità, soggiunse il primo, che da voi ad un asino, compare, non passa alcuna differenza, perché non udii in tutta la vita mia un ragliare più al naturale. — Queste lodi ed esagerazioni, rispose quello della invenzione, quadrano meglio e più convengono a voi, compare, che a me; e per quel Dio che mi ha creato, che voi potete dare due ragli di vantaggio al più esperto ragliatore del mondo, poiché il suono acuto che vi esce di gola, la voce sostenuta a battuta, le cadenze molte e preste, e in somma tutto è tale ch'io mi do per vinto, e vi lascio la bandiera in questa sorta di abilità. — Or bene, disse il padrone dell'asino, d'ora innanzi mi terrò uomo da qualche cosa, poiché ho in me sì felice disposizione e sì buon garbo: io già sapevo di ragliare bene, ma non avrei mai creduto di essere giunto a quell'apice che voi dite.
— Oh sappiate, rispose il secondo, che nel mondo si trovano dei begl'ingegni che non sono stimati, e talvolta si vedono mal collocate le grazie in chi non ne sa profittare.
— Le nostre, rispose il padrone dell'asino, non ci possono esser di giovamento se non in occasioni simili a questa, e Dio voglia che anche in questo caso ci sieno proficue.” Detto ciò, tornarono a dividersi e tornarono ai ragli, e ad ogni tratto s'ingannavano, e tornavano a riunirsi, fino a tanto che si diedero per contrassegno che per intendere ch'erano essi e non l'asino, avrebbero ragliato due volte di seguito. Fatto questo accordo, raddoppiando ad ogni passo i ragli, girarono tutta la selva senzaché il giumento rispondesse in modo alcuno. Ma come potea rispondere il meschino e malcapitato, se poi lo trovarono nel più folto di un bosco quasi divorato dai lupi? Nol vide appena il suo padrone che disse: — Mi meravigliava io bene che non rispondesse; che se non fosse stato morto avrebbe senza dubbio ragliato se ci avesse sentiti, o non sarebbe stato asino: basta, compare, poiché ho sentito voi a ragliare con tanta grazia, fo mio conto di aver bene spesa la fatica sostenuta cercandolo, quantunque adesso lo trovi morto e mangiato.
— Così dico anche io, compare, l'altro rispose; che se il prete canta bene non si porta male né anche il chierico.”
Sconsolati e rauchi ritornarono ambidue al loro paese, e raccontarono agli amici, vicini e conoscenti ciò ch'era accaduto cercando dell'asino, esagerandosi dall'uno la grazia dell'altro in ragliare, il che si riseppe e andò per le bocche di tutti nei luoghi circonvicini. Il diavolo poi che non dorme, come desideroso di seminare e spargere rancori e discordie ove può, e di mettere chimere e triste voglie nei cervelli fece che le genti degli altri paesi al vedere qualcuno del nostro paese ragliassero, quasi volendo rinfacciare il raglio dei nostri giudici. Se ne accorsero anche i ragazzi, e la fu una disperazione, perché sempre più il raglio si diffuse di uno in altro paese, di maniera che sono adesso distinti i naturali del nostro paese dal raglio come sono differenziati i mori dai bianchi: e tanto innanzi andarono le pessime conseguenze di questa beffa, che più volte coll'arme alla mano e in ben ordinato squadrone i burlati sono venuti in zuffa coi burlatori senza che abbiano potuto apporvi rimedio né re, né rocco, né timore, né vergogna.
Credo che dimani o l'altro abbiano ad uscire in campagna i miei paesani, che sono quelli del raglio, contro quelli di un paese discosto due leghe dal nostro, e ch'è appunto il paese che più ci perseguita; ora per armare bene i combattenti io porto queste lancie e queste alabarde. Ed ecco, o signore, le meraviglie che ho promesso di raccontarvi; che se non vi paiono tali io non ne so di altra sorta.”

(la follia di Don Chisciotte)

LETTERA DI DON CHISCIOTTE A DULCINEA DEL TOBOSO. 

Sovrana ed alta signora!

Il ferito di punta d'assenza, ed il piagato nelle tele del cuore, dolcissima Dulcinea del Toboso, t'invia quella salute che affatto a lui manca. Se mi dispregia la tua bellezza, se il tuo merito non si rivolge a favorirmi, se gli sdegni tuoi sono il mio annichilimento ad onta che sia esemplare la mia sofferenza, non mi prometto di sostenermi più a lungo in questa infelicità; che oltre all'essere aspra fuor di misura, minaccia di essere di una intollerabile lunghezza. Sancio, mio fedele scudiere ti darà piena relazione, o bella ingrata, o adorata nemica mia, dello stato in cui per tua colpa mi trovo. Se ti piacerà di porgermi aita sarò tuo; se no, fa pure quanto ti è a grado, che col terminare di mia vita io avrò soddisfatto alla tua crudeltà e al mio desiderio.
Tuo fino alla morte

Il cavaliere dalla Trista Figura” 

— Per l'anima di mio padre, disse Sancio udendo la lettera, che questa è la più gran lettera ch'io abbia mai intesa. Oh corpo di Bacco! come la signoria vostra chiaramente dice ciò che desidera, e come ci affibbia maravigliosamente nella sottoscrizione Il Cavaliere dalla Trista Figura! Dico il vero: vossignoria è lo stesso diavolo in persona, né vi ha cosa ch'ella non sappia.— Tutto questo è necessario, replicò don Chisciotte, per adempiere compiutamente il carico che mi sono imposto. — Su via, disse Sancio, scriva in quest'altra carta l'ordine per i tre asini e lo firmi nettamente sicché non succedano difficoltà. — Ben volentieri, disse don Chisciotte: e quando ebbe finito di scrivere lesse quanto segue.
“Piacerà a vossignoria per questa prima di asini, signora nipote, di consegnare a Sancio Pancia mio scudiere, tre dei cinque che ho lasciati in mia casa affidati alle sue cure; i quali tre asini gli si daranno per altrettanti qua ricevuti di contante, e ritirandone la ricevuta saranno ben consegnati.

Fatta nelle viscere di Sierra Morena nel giorno 17 di agosto dell'anno corrente.” 

— Va bene, disse Sancio, ed ora la sottoscriva vostra signoria. — Non occorre, disse don Chisciotte; basta soltanto ch'io vi apponga la mia cifra, che per tre asini e per trecento ancora è bastante. — Io mi rimetto a lei, rispose Sancio, ed ora mi permetta che vada a sellare Ronzinante, e vossignoria si apparecchi a darmi la sua benedizione che ho divisato di partire subito subito senza vedere le pazzie che ella ha da fare, ma dirò di averne veduto a far tante che nulla più. — Almeno, o Sancio, io desidero, ed anzi è necessario che tu mi vegga ignudo a fare una o due dozzine di pazzie, che le farò in meno di una mezz'ora: perché avendole tu vedute cogli occhi tuoi potrai nelle altre che vorrai aggiungere di più giurare in buona coscienza; e posso assicurarti che non ne dirai tante quante sono quelle che penso mandare ad effetto.
Per amore di Dio, mio signore, non faccia ch'io la vegga ignudo, perché non potrei per gran compassione trattenermi dal piangere; e dopo il pianto che ho sparso nella scorsa notte pel mio asino, ho ancora sì gran male alla testa, che non mi trovo ora in grado di sgorgare nuove lagrime. Se vuole vossignoria ch'io vegga alcune delle sue pazzie le faccia bello e vestito, sien brevi, e come più le torna a comodo; ma già non occorrono con me queste cerimonie; e tanto più che questo farebbe ritardare il mio ritorno a lei, che dovrà seguire col recarle nuove quali le brama e le merita. Io la prevengo che se mai la signora Dulcinea non mi rispondesse a dovere, giuro per tutti i miei santi avvocati che le caverò dallo stomaco una buona risposta a calci e a pugna; perché come si può tollerare che un cavaliere errante tanto celebre come la signoria vostra impazzisca senza verun motivo, e non per altro che per una?... Non me lo lasci dire la signora... ch'io son tale da non tenerla fra i denti, tuttoché ciò sia molto prudente. Ella non mi conosce bene: che se sapesse chi io mi sia, tremerebbe a sentirmi nominare.
— Affé, Sancio, disse don Chisciotte, tu non sei troppo più savio di me. — Non sono tanto pazzo, bensì più iracondo: ma lasciamo a parte queste cose, e mi dica di grazia: di che si ciberà ella fino al mio ritorno? pensa forse di andare alla strada come Cardenio? — Non ti pigliare siffatte brighe, rispose don Chisciotte, perché quand'anche fossi fornito di vettovaglie non mangerei se non erbe e frutta di questi prati e di questi alberi: giacché il merito della mia risoluzione non consiste nel pascere il ventre, ma nel patire.” A questo rispose Sancio: — Sa ella, vossignoria, di che temo io? temo di non saper trovare la via da tornarmene a lei per essere questo un luogo troppo fuori dell'abitato e deserto! — Poni mente a' segnali; che io avrò cura di non allontanarmi da questi contorni, disse don Chisciotte, ed anzi procurerò di mettermi nelle alture di queste balze per veder se ti scopro quando ritornerai: e poi, la più diritta sarà, affinché tu non erri e non ti scosti dal cammino, che io ti fornisca di queste ginestre, che, come vedi, qua non ne mancano, e tu le spargerai come segnali ad ogni tanti passi, finché ti troverai in campagna aperta, ed esse ti serviranno di guida al ritorno, a guisa del filo usato da Perseo nel labirinto. — Così farò, rispose Sancio;” e tagliandone alcune e domandata la benedizione al suo signore, prese da lui licenza non senza sparger molte lagrime l'uno e l'altro. Montò Sancio su Ronzinante, che gli fu raccomandato dal padrone come un altro se stesso, e si pose subito in viaggio spargendo di tanto in tanto i rami delle ginestre, a tenore del consiglio datogli dal suo signore; e così se n'andò benché don Chisciotte lo pregasse da capo che stesse a vedere qualche sua segnalata pazzia.
Non si era Sancio scostato cento passi, che tornato indietro disse a don Chisciotte: “Capisco o signore, ch'ella disse benissimo che per poter giurare senza aggravio della coscienza di averla veduta a fare delle pazzie, sarà bene che gliene vegga a far una, quantunque una potesse dirsi anche quella della sua risoluzione di restarsene qua solitario. — Non tel diss'io? soggiunse don Chisciotte: attendi: attendi, o Sancio, che in un momento te le farò vedere.” E trattisi immantinente gli abiti diede due sgambettate, e fece due capriole con le gambe per aria; e Sancio, volte le redini a Ronzinante, si mostrò contento e soddisfatto di poter giurare che avea veduto di fatto una delle pazzie del padrone. Noi lo lasceremo adesso andare per la sua strada, fino al suo ritorno che sarà in breve.

CONTINUAZIONE DELLE PRODEZZE CHE FECE LO INNAMORATO DON CHISCIOTTE IN SIERRA MORENA (XXVI)

E continuando il racconto di ciò che fece il cavaliere dalla Trista Figura quando si trovò solo, dice la storia che dopo avere fatto i capitomboli, e rivoltatosi mezzo ignudo e mezzo vestito, e dopo aver veduto che Sancio s'era partito senza curarsi di essere presente a nuove pazzie, salì sopra la vetta di un alto masso, ed ivi tornò a volgere in pensiero ciò che altre volte aveva ideato, ma senza averne mai pigliata una ferma deliberazione. Pensava se fosse stato per lui più a proposito l'imitare le straordinarie follie di Orlando o le celebri malinconie di Amadigi; e ragionando fra sé medesimo così diceva: — Se Orlando fu cavaliere sì degno, come tutti vogliono far credere, che meraviglia? alla fine dei conti egli era incantato, né avrebbe potuto essere ucciso da chicchesia se non cacciandogli un sottilissimo spillo nella pianta di un piede; per questo poi usava di portare sempre le scarpe con sette suola di ferro, benché ciò poco gli giovasse a fronte di Bernardo del Carpio, il quale, avvedutosi, lo soffocò in Roncisvalle colle proprie braccia. Ma senza parlare del suo valore passiamo a considerarne la pazzia, che fu verissima in lui per avere saputo degli amori di Angelica con certo Medoro, moretto, ricciuto di capelli e paggio di Agramante.
Ora s'egli tenne questo fatto per vero, o se la sua signora gli fe' sì grave torto, non è gran cosa ch'egli abbia dato in frenesia: ma io come potrò imitarlo nelle follie se manco della causa che in lui si mosse? io potrei giurare che la mia Dulcinea del Toboso non vide mai in tutta la sua vita alcun moro vivo e parlante, e che essa è innocente come una bambina; e le farei offesa manifesta se altrimenti presupponendo mi applicassi al genere di pazzia professata da Orlando Furioso. Veggo pure dall'altra parte che Amadigi di Gaula, senza perdere il giudizio e senza farneticare, si meritò tanta celebrità d'innamorato da non aver pari; e quello che fece, secondo che la istoria racconta, il fece solo per vedersi rifiutato dalla sua signora Oriana, la quale gli avea comandato di non comparirle dinanzi finché a lei non fosse piaciuto: per la qual cosa si ritirò nel Pegnapobre in compagnia di un eremita, ed ivi non lasciò di piangere, finché piacque al cielo di trarlo dai suoi travagli e dalle sue infelicità. Se questo è vero, come è verissimo, perché debbo io darmi fastidio collo spogliarmi adesso ignudo ed importunare questi alberi che non mi recarono danno alcuno? E perché intorbiderò la limpid'onda di questi ruscelli che debbono somministrarmi di che estinguere la sete allorché io n'abbia d'uopo? Viva pure la memoria di Amadigi, e don Chisciotte della Mancia lo imiti in tutto per quanto si può: e si dirà di lui ciò che si disse dell'altro, che se non operò gran meraviglie seppe però morire per intraprenderle: e se io non sono né disprezzato né discacciato dalla mia Dulcinea, basterà, come ho detto, che me ne stia lontano da lei. Orsù dunque, mano all'opera: tornatemi a mente, o gesta di Amadigi, ed insegnatemi ciò che debbo eseguire per imitarvi: la maggiore delle sue occupazioni era il fare orazione, e così farò anch'io.” Si mise allora don Chisciotte a pregare, valendosi per rosario di certe gallozze di sughero che infilzò a dieci a dieci. Gli doleva di non trovare un altro eremita che lo confessasse e con cui consolarsi: e però limitavasi a passeggiare pei prati scrivendo e intagliando nelle cortecce degli alberi e nella minuta arena molti versi analoghi alla sua tristezza ed alle lodi della sua Dulcinea. Quelli che si trovarono interi e si poterono leggere non furono che i seguenti.
“Alberi, erbe e piante; che siete in questi luoghi sì elevati verdeggianti e splendidi, se non vi diletta il mio male, ascoltate le mie sante querele. Il mio dolore non mi nuoca per quanto sia terribile; poiché in premio del soggiorno qui pianse don Chisciotte la lontananza da Dulcinea del Toboso.
E questo è il luogo dove il più leale amante della sua donna si nasconde, venuto a tanta sventura senza saper come o perché. Un amore avverso lo travaglia e si piglia giuoco di lui; e però don Chisciotte sparse qui tante lagrime da empirne una botte piangendo la lontananza da Dulcinea del Toboso.
Mentre egli andava cercando avventure per aspre roccie maledicendo un cuore più aspro di quelle, senza trovare fra i rischi e balze altro mai che infortunii, lo sferzò Amore tanto aspramente che don Chisciotte qui pianse la lontananza da Dulcinea del Toboso!”

L'Incantamento di Dulcinea e le frustate di sancio (XXXV)

Intanto a cadenza di soavissima musica videro che avanzavasi un carro di que' che si chiamano trionfali, tirato da sei mule bigie coperte di bianca tela; e sopra di ognuna stavasene un disciplinante, vestito pure di bianco e con in mano grande torcia di cera accesa che lo rendea risplendente.
Era il carro due o tre volte volte maggiore dei già descritti, e tutt'all'intorno v'eran seduti altri dodici disciplinanti, bianchi come la neve e tutti con torce accese: apparato che recava abbagliamento e stupore insieme. Sopra elevato trono era collocata una ninfa ammantata tutta di vesta di tocca argentina assai brillante e con in testa infinite foglie d'oro falso, che la rendevano, se non ricca, almeno di superbo aspetto, e teneva il viso velato da mezzo zendale così trasparente che lasciava scorger al di sotto bellissima faccia di donzella, la cui vaghezza ed età tra i diciassette e i venti anni, chiaramente apparivano mercé lo splendore dei tanti lumi. Stavale accanto altra figura vestita di zimarra, di quelle lunghe e strascinanti fino ai piedi, e coperta il capo di nero velo.
All'istante in cui arrivò il carro dirimpetto ai duchi e a don Chisciotte, cessò la musica dei pifferi e subito dopo quella delle arpe e dei flauti; ed alzatasi la figura dalla zimarra lasciatala sciolta dai due lati, ed indi toltosi il velo dalla faccia, scoprì patentemente ch'era la figura della morte scarnata e brutta: figura che dispiacque assai a don Chisciotte, che infuse spavento in Sancio, e che lasciò fingere anche nei duchi un senso di vero timore. Rizzatasi questa Morte viva, con voce come sonnolenta, e con lingua non molto sciolta, in questa guisa si espresse:


“I' son Merlin ch'ebbe a padre il diavolo,
(Se non menton l'istorie: e se pur mentono,
Degli anni il corso accreditò la favola)
Sommo della magia monarca e principe,
Archivista del senno zoroastrico,
Rival del tempo e degl'ingordi secoli,
Che l'alte geste d'oscurar procacciano
De' cavalieri erranti, razza intrepida.
Per la qual proprio mi disfaccio in zucchero.

E benché ne' stregoni e ne' malefici
E ne' seguaci lor perversa l'indole
Appaia sempre e il cuor crudele e perfido,
Io però dolce son, soave, affabile,
E a tutti cerco riuscir benefico.

Mentre là negli oscuri spechi d'Erebo
Stommi con l'alma assorta, e tutto m'applico
In formar certi rombi e arcane cifere,

Ratto mi giunse della bella ed unica
Dulcinea del Toboso il mesto gemito.
Seppi la sua sventura e l'incantesimo,
Che di dama gentil cambiolla in zotica
Paffuta villanzona. Dolor presemi
E tosto dell'orribil metamorfosi
Mi diedi ad indagar l'occulta origine;
E poiché stetti centomila a svolgere

Tomi ripieni del saver diabolico,
Ecco che a sì reo duolo, a mal sì critico
Or acconcio rimedio a porre accingomi.
O tu, gloria e splendor di quanti vestono
Lucido acciaro e adamantine tuniche,
Lume, fanal, sentiero, polo e mentore
Di quanti abborron di poltrir nell'ozio
E il grave uffizio degli Erranti imprendono;

A te annunzio, o baron, non mai qual meriti
Lodato assai, a te del par magnanimo
Che saggio don Chisciotte, onor di Mancia,
Di Spagna stella, che se brami rendere
Al primiero esser suo la bella ed unica
Dulcinea del Toboso, è necessario
Che Sancio tuo scudier tremila diasi
Trecento scudisciate in sulle solide

Chiappe scoperte all'aria, e con tale impeto
Che si ammacchin, si rompano, si scuoino.

Sol con questo avverrà che in fumo vadano
Quanti del mal di lei fùro gli artefici.
È questo, miei signor', verace annunzio.”

— Per la vita mia, soggiunse subito Sancio, non tremila frustate, ma tanto io me ne darei tre sole come tre pugnalate. Ché il canchero roda l'inventore di questo bel modo di trarre d'incanto: e viva Dio che non hanno niente a che fare gl'incantesimi colle mie natiche innocenti; e se questo signor don Merlino non ha altre strade per disincantare la signora Dulcinea del Toboso, io per me non mi oppongo ch'ella vada incantata anche in sepoltura.
— Oh la finirà, disse allora don Chisciotte a Sancio Pancia, che io ti piglierò, pezzo di villano distruttore di agli, e ti legherò ad un albero, nudo come sei nato; e se non bastano tremila e trecento, ben seimila e seicento frustate ti regalerò, e sì sode che varranno per tre mila e trecento strappate; né mi stare a replicare sillaba, se non vuoi che io ti cavi il cuore.”
Merlino allora soggiunse:
— No, non ha ad essere così, perché le frustate debbono essere ricevute dal buon Sancio volontariamente e giammai per forza, e nel tempo che più gli tornerà a grado, che non gli si prescrive termine fisso: gli resti anzi concesso che volendo ridurre alla metà il travaglio di questa flagellazione, possa lasciarsela affibbiare per mano altrui, purché la mano sia pesante.

— Né per mano altrui, né per propria, né pesante, né da pesare, replicò Sancio, e nessuno mi toccherà. Sono forse stato io che ho partorito la signora Dulcinea, perché il male che hanno fatto i suoi occhi abbia ad essere pagato dal mio corpo? Questo è debito del mio padrone, questa è parte sua, a lui tocca, a lui, che ad ogni passo la chiama vita mia, anima mia, mio sostegno, mia sicurezza. Egli si faccia frustare per lei, e faccia quanto è necessario affinché si disincanti; ma che io frusti me? abernunzio.
Non avea appena terminato Sancio di dire queste parole, che rizzatasi in piè l'argentata ninfa che stava accanto allo spirito di Merlino, e toltosi il sottil velo dal viso, si lasciò a tutti vedere, tale che parve più che mezzanamente bella e di grazia piuttosto virile. Con voce non molto donnesca, rivolgendo il discorso direttamente a Sancio, gli disse:
— O malavventurato scudiere! animalaccio, cuore di sughero, viscere di macigno, di acciaio! Se ti fosse comandato, o ladrone, o prepotente, di gittarti dall'alto al basso di una torre; se si esigesse da te, nemico dell'uman genere! che avessi ad ingoiarti una dozzina di rospi, due ramarri e tre serpenti; se ti avessero persuaso di ammazzare tua moglie e i tuoi figli con truculenta ed acuta scimitarra, non sarìa maraviglia che ti mostrassi schifo e restìo; ma reca bene sorpresa e sdegno e terrore al pietoso animo di chi ti ascolta e di quanti vivranno dopo di noi, l'udire che tu muovi difficoltà, e ti dai gran pensiero di tremila e trecento frustate, mentre non vi ha bambino di dottrina, per furfantello che sia, che in ogni mese non ne pigli altrettante! Volgi, o miserabile e indurito animale, volgi, ripeto, quei tuoi occhi di muletto ombroso, nelle pupille di questi miei, che sono tante roteanti stelle, e li vedrai a filo a filo, a matassa a matassa, sgorgare lagrime, facendo solchi, carriere e sentieri pei campi delle mie gote. Muovati, volpone e mostro malintenzionato, questa fiorente età mia, che sta nella decina e nella unità, non avendo ancora venti anni, e vedila come si consuma e appassisce sotto la scorza di razza villana. Ella è sola mercede segnalatissima del signor Merlino, che qua è presente, ch'io tale non sembri per solo fine d'intenerirti colla mia vaghezza, mentre le lagrime di beltà desolata convertono in bambagia le rupi e le tigri in agnelli. Ah batti, batti quelle tue carnacce, bestione indomito: spoltra quella tua anima, che pare nata per mangiare e per divorare; inclinati una volta a dare libertà a queste liscie mie carni, alla soavità del mio spirito, alle attrattive del mio sembiante, e se io non valgo ad addolcirti ed a condurti a termini ragionevoli, fallo almeno per quel misero cavaliere che ti sta accanto: fallo per quel tuo padrone, che tiene l'anima attraversata alla gola e non lontana dieci dita dai labbri, e che non aspetta altro fuorché barbara o dolce risposta per uscirgli dalla bocca o ritornargli dentro allo stomaco.” Dopo questi rimproveri, don Chisciotte si tastò la gola, e volgendosi al duca, disse:
— Giuro, o signore, che Dulcinea ha detto la verità, mentre io tengo appunto l'anima attraversata alla gola, come una noce di balestra.
— Ebbene, soggiunse la duchessa a Sancio, che rispondete voi adesso?
— Io rispondo, egli disse, quello che ho già detto, che alle frustate abernunzio.
Abrenuncio, dovete dire, Sancio mio, replicò il duca.
— Per carità, la grandezza e celsitudine vostra mi lasci stare, rispose, che ho altro adesso per la testa che badare a sottigliezze, o se le lettere vadano a puntino al proprio luogo. Costoro mi fanno stare tutto sconvolto, e queste frustate che vogliono affibbiarmi o che debbo regalarmi da me medesimo, sono faccenda tale, che io non so più né quello che mi dica né quello che mi faccia. Ma vorrei sapere dalla mia signora Dulcinea del Toboso, chi è stato colui che le insegnò questi modi di pregare? Vuole che io mi diserti le carni a frustate, e in aggiunta mi favorisce dei titoli di animalaccio, di bestione indomito, con una sequenza di perfidi nomi che non li tollererebbe il demonio? Crede ella ch'io abbia le carni di bronzo? che importa a me ch'ella s'incanti o si disincanti? e poi che compenso mi dà? dov'è almeno una cesta di biancheria o di cuffie o di calzette (quantunque io non ne porti) che possa mitigarmi, senza passare da uno in altro vituperio? Si sa bene il proverbio che un asino carico d'oro monta leggermente sopra una montagna: che i donativi spezzano i sassi; che aiutati che io ti aiuterò; che più vale un prendi che un ti do: e il mio signor padrone, che dovrebbe lisciarmi la coda e incoraggirmi perché mi facessi di lana o di bambagia scardassata, aggiunge ancora egli che se mi piglia, mi lega nudo ad un albero e mi raddoppia la pietanza delle frustate! Dovrebbero considerare, questi sconsolati signori, che non solamente ora dimandano che si frusti uno scudiere, ma un governatore, e che questo non è mica bere un bicchiere di vino di visciole. Imparino, imparino, in loro malora, a saper pregare, a saper domandare e ad avere creanza: che i momenti non sono uguali, né gli uomini si trovano sempre di buon umore. Io sono qua coll'anima tutta amareggiata per vedere in brani il mio vestito verde, e vengono a dimandarmi che mi frusti di quella piena volontà che non ho e non avrò mai!
— In verità, amico Sancio, disse il duca, che se non v'intenerirete più che fico maturo, non arriverete mai a mettere le mani sulle redini d'un governo. Sarebbe egli giusto che io mandassi ai miei isolani un governatore di animo crudele, di viscere pietrine, che non si commuove al pianto delle sconsolate donzelle, né ai prieghi dei discreti, imperiosi ed antichi incantatori e savi? In sostanza, mio Sancio, o dovete frustarvi o dovete lasciarvi frustare; senza di ciò non diventerete mai governatore.
— Signor mio, ripigliò Sancio, non mi si potrebbe dare due giorni di termine per pensar al mio meglio?
— No, in verun modo disse Merlino: questo è affare che va deciso subito, in questo istante e in questo luogo medesimo: o Dulcinea tornerà alla grotta di Montésino, ed al suo pristino stato di villana, oppure sarà portata, nella forma nella quale ora sta, ai Campi Elisi, ed ivi starà attendendo che compiasi l'intera flagellazione.
— Or via, Sancio buono, disse la duchessa, buon animo e buona corrispondenza al pane che vi ha dato a mangiare il vostro signor don Chisciotte, cui noi tutti dobbiamo servire e piacere per le sue eccellenti qualità e per le sue esimie cavallerie: pronunziate il sì, figliuol mio, di questa frustatura; si sperda il diavolo e muoia la viltà, ché forte cuore, come voi ben sapete, scaccia la mala ventura.”
Dopo queste insinuazioni, Sancio si rivolse a Merlino, e così lo interrogò:
— Mi dica la signoria vostra, signor don Merlino, quando è venuto qua il diavolo corriere, e fece al mio padrone l'ambasciata del signor Montésino, ordinandogli da parte sua che lo attendesse in questo sito, disse che sarebbe venuto egli stesso a ordinar quanto occorreva per disincantare la signora Dulcinea del Toboso, ma sino ad ora non si è veduto né Montésino, né niente che lo somigli.
Merlino gli rispose:
— Il diavolo, amico Sancio, è un ignorantone ed un grandissimo furbo. L'ho mandato io stesso in traccia del vostro padrone non con l'imbasciata di Montésino, ma a nome mio, perché Montésino sta sempre nella sua grotta, credendo vicino, o a meglio dire, aspettando il suo disincanto, né altro gli resta tuttavia che la coda da scorticare. Se qualche cosa vi dee consegnare, o voi avete di che trattare con lui, io nel trarrò fuori, e lo farò arrivare dove più vi piaccia, ma per adesso finite di dare il di questa disciplina, e credetemi che ridonderà a grande vostro giovamento, tanto per l'anima, atteso l'atto caritatevole che siete per eseguire, quando pel corpo, perché io so che siete di complessione sanguigna e non potrà recarvi nocumento il levarvi un poco di sangue.
— Gl'incantatori sono forse anche medici? replicò Sancio. Orsù, giacché tutti vanno ribattendo il chiodo sebbene non vi concorra la mia volontà, dirò che sarò contento di darmi le tremila e trecento frustate, a condizione per altro che me le darò come e quando mi verrà voglia, senza che mi sia segnalato limite nei giorni e nel tempo. Io procurerò d'uscir del debito il più presto che per me si potrà, affinché goda il mondo della bellezza e vaghezza della grande signora donna Dulcinea del Toboso, che per quello che s'è veduto, tuttoché io ne pensassi diversamente, ella è bellissima. Io voglio poi un altro patto, ed è che io non posso essere obbligato a disciplinarmi a sangue, e che se mi darò qualche frustata per cacciare via le mosche, mi si dovrà porre a conto: item che se sbagliassi nel numero il signor Merlino, che sa tutte le cose, ha da aver cura di contare le frustate e di dirmi o quante ne manchino o quante ne avanzino.
— Dell'avanzo non occorrerà avvisare, disse Merlino, mentre compito il prescritto numero, seguirà d'improvviso il disincanto della signora Dulcinea, la quale, mossa da gratitudine, si recherà in traccia del buon Sancio a ringraziarlo ed anche a premiarlo per la eccellente opera che avrà compita. E perciò non occorrono scrupoli sull'avanzo, ma stare attenti al mancamento, che non ingannerò mai alcuno al mondo, se bene si trattasse d'un pelo della testa.
— Ebbene alle mani disse Sancio: io consento al mio malanno, e voglio dire che accetto la penitenza colle condizioni sopraccennate.”
Non aveva appena Sancio terminato di proferire queste ultime parole, che tornossi a sentire suoni di pifferi e di tamburi e a sparar infiniti archibugi, e don Chisciotte abbandonatosi al collo del suo scudiere, lo baciò mille volte in fronte e nelle guancie. La duchessa, il duca ed i circostanti tutti diedero segno di avere provato sommo contento: il carro riprese il cammino, e la vezzosa Dulcinea, passando, inchinò la testa dinanzi ai duchi e fece a Sancio una profonda riverenza.
Già venia per le poste l'alba lieta e ridente; i fiorellini nei campi spuntavano e germogliavano, e i liquidi cristalli dei fonti, collo scorrere mormorando tra bianca e bigia ghiaia, andavano a dare tributi ai fiumi che li attendevano. La terra allegra, il cielo placido, l'aere puro, la luce serena, ognuno di per sé e tutti congiuntamente mostravano ad evidenza che un giorno preceduto da sì vaga aurora, bello e risplendente dovesse riuscire.
Soddisfatti i duchi della caccia e della felice e avveduta riuscita del loro divisamento, tornarono al castello, proponendo seco medesimi di procedere nelle burle, in paragone delle quali non poteva esservi cosa fondata sul vero, da cui ritrarre potessero maggior diletto.

LE frustate di Sancio (LXIX )

— Tu hai ragione, amico Sancio, rispose don Chisciotte, e Altisidora si è portata male assai nel non darti le promesse camicie, ma pensa che la virtù che possiedi è gratis data, perché non ti costò veruno studio, ché non si vuole studio di sorta per farsi martoriare la persona: ti dirò ben io che se tu avessi voluto essere pagato per le frustate indispensabili al disincanto di Dulcinea, io ti avrei dato il più generoso guiderdone, quando però non mi fosse venuto il sospetto che il premio non avesse resa inefficace la medicina: ma già mi pare che non si perderà niente a farne la prova. Orsù, veniamo a patti, Sancio mio caro, guarda quanto pretendi, e frustati subito e pagati in moneta sonante, giacché tu hai i miei danari nelle tue mani.” Sancio spalancò gli occhi ed allungò il collo a questa offerta, ed in cuor suo stabilì di frustarsi di molta buona voglia, sicché disse al padrone: — Penso di dare gusto a vossignoria in quello che desidera con mio utile; perché l'amore che porto a Teresa Pancia ed ai figliuoli è causa che mi abbia a dimostrare interessato. Ora mi dica a quanto mi pagherà ogni frustata. — Se ti avessi a pagare, o Sancio, rispose don Chisciotte, nella misura che merita la grandezza e qualità di questo rimedio, sarebbero poca cosa i tesori di Venezia e le miniere del Potosi, ma fa conto su quello che tieni di ragion mia, e metti tu stesso la tassa ad ogni frustata. — Sono, rispose Sancio, tremila trecento e tante: cinque, me ne ho date a conto, e restano le più; e entrino tra le tante le cinque, e riduciamoli a tremila e trecento, che ad un quarticello per una (che non ne vorrei meno se tutto il mondo me lo comandasse) ammontano, per le tremila, a tremila quarticelli che sono mille e cinquecento mezzi reali, che vengono a formare settecento cinquanta reali, e le trecento fanno centocinquanta mezzi reali, che vengono ad essere settantacinque reali, i quali aggiunti ai settecentocinquanta, sono in tutto ottocento venticinque reali. Questi io li diffalcherò da quelli che tengo di ragione di vossignoria, e provveduto e contento tornerò in casa mia, comunque bene frustato; ché già non si può avere il male senza le mosche. — O Sancio benedetto! Sancio amabile! rispose don Chisciotte, oh quanto ci troveremo obbligati, Dulcinea ed io, a servirti nei giorni tutti che ci donerà il cielo di vita! Se torna Dulcinea al primiero suo essere (che non è possibile che non torni) fortuna si potrà dire la sua disgrazia, felicissima e trionfante la mia passata sconfitta. Ora pensa tu quand'è che vuoi dare principio alla disciplina, che io per abbreviarne il termine ti aggiungo dieci reali. — Quando? disse Sancio: in questa notte senza alcun fallo; e procuri vossignoria che ci troviamo in campagna a cielo scoperto, che io diserterò queste mie povere carnGiunse la notte attesa da don Chisciotte colla maggiore ansietà, sembrandogli che le ruote del carro di Apollo si fossero fracassate e che si allungasse il giorno oltre l'usato; al modo appunto che accade agli innamorati, i quali non aggiustano mai la partita dei loro desiderii. Penetrarono finalmente in un albereto poco distante dalla strada maestra, dove lasciando vôta la sella e la bardella di Ronzinante e del leardo, si coricarono sulla verde erba, e cenarono della provvisione che seco portava Sancio; il quale, facendo del capestro e della cavezza del leardo una forte e pieghevole disciplina, si scostò dal suo padrone intorno a venti passi, e andò presso alcuni faggi. Don Chisciotte che lo vide andare con animo risoluto ed ardito, gli disse: — Bada, amico, di non maltrattarti soverchiamente; lascia tempo tra una frustata e l'altra, né accelerarne troppo il corso, affinché sul bel mezzo non ti venga a mancare il fiato; e voglio dire che le frustate non sieno tanto terribili che ti abbia a mancare la vita prima che si compia il numero stabilito: ma perché tu non pecchi nel troppo né nel troppo poco, io starò qui in un canto e conterò con questa corona le frustate che ti darai; ed ora il cielo ti secondi conformemente al merito della tua buona intenzione.
— Al buon pagatore non gli dolgono i pegni, disse Sancio, ed io penso di disciplinarmi in maniera da sentire il dolore, ma senza ammazzarmi, che in questo appunto deve consistere la sostanza del miracolo.” Si spogliò dalla cintola all'insù, e acchiappata la funicella, cominciò a flagellarsi, e don Chisciotte a noverare le frustate. Doveva aversene date Sancio intorno a sei o otto, che gli parve troppo brutto il giuoco e troppo vile il prezzo, e fermandosi un poco disse al padrone, che protestava di essersi ingannato, perché ognuna di quelle frustate meritava mezzo reale, e non un solo quartuccio. — Tira pure innanzi Sancio mio, non perderti di animo, gli rispose don Chisciotte, che raddoppierò la posta. — Se così è, disse Sancio, piovano le frustate;” ma il volpone in vece di battersi le spalle andava battendo gli alberi, e mandava di tanto in quanto certi gemiti sì lunghi che ad ognuno di essi pareva che l'anima dovesse scappargli fuori. Don Chisciotte, ch'era tenero di cuore e timoroso che Sancio non lasciasse la vita, e in conseguenza non potesse egli giungere al suo intento per la imprudenza dello scudiere, si fece a dirgli: Per vita tua, amico, non tirare più innanzi, che questa medicina mi pare crudele, e sarà bene dar tempo al tempo, che Roma non si costrusse in un'ora: ti sei date, se non ho contato male, più di mille frustate, e bastino queste per ora, ché l'asino sopporta il carico, ma non il sopraccarico. — No, no, signor mio non voglio che si dica di me: Chi paga innanzi è servito dopo; si scosti un poco, e mi lasci dare non meno di altre mille frustate, ché a due levate di queste avremo saldata la partita ed anche ne sopravanzeranno. — Poiché sei in sì buona disposizione, replicò don Chisciotte, il cielo ti aiuti, e continua pure che io mi metto d'accanto.” Tornò Sancio al suo giuoco con tanto fervore, che aveva già levata la corteccia al tronco dell'albero: sì grande era la violenza con cui frustava; ed una volta con voce sonora dando una fortissima scudisciata ad un faggio, disse:
— Qua morrai, Sansone, e quanti sono con te.”
All'udire questo doglioso accento, e al colpo della strepitosa percossa volò don Chisciotte e prendendo il torto capestro che servì a Sancio per istrumento di disciplina, gli disse:
— Non permetta la sorte, o Sancio amico che per soddisfar me, tu perda una vita che deve servire per sostentare la tua moglie e i tuoi figliuoli; aspetti pure Dulcinea migliore congiuntura, che io mi conterrò nei limiti di una propinqua speranza, e attenderò che nuove forze tu riacquisti, perché abbia termine questo negozio con soddisfazione di tutti i noi.

— Poiché così piace a vossignoria, rispose Sancio, così sia alla buon'ora, e intanto mi getti il suo ferraiuolo sopra le spalle, che io sto sudando, e non vorrei raffreddarmi, ché questo è il risico in cui incappano tutti i nuovi disciplinati.”Don Chisciotte secondò le preghiere di Sancio, e restando in farsetto, lo coprì, ed egli si addormentò sino a tanto che lo destò il sole, e poi continuarono il viaggio, il quale per allora ebbe fine in un paese ch'era di là lontano tre leghe.