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LA MAGA MARGI' 

Un ricco pastore della Val Rendena, mosso dall'avidità di possedere nuovi pascoli, salì un giorno in Val di Fumo; raggiunse il Caré Alto ma, distrattosi, scivolò sul ghiaccio e precipitò sulle rocce. Ferito, lo raccolse la Maga Margì, una donna che viveva, solitaria, su quella montagna. Curò le sue ferite: una volta guarito, il pastore volle tornare a casa per prendere le sue mandrie e portarle nei ricchi pascoli che aveva scoperto, ma la maga lo avvertì: "Non salire mai più su quella montagna, perché chi vi sale senza rispetto e solo per il proprio egoismo, sarà maledetto e la sua stirpe si estinguerà". Sorrise beffardo, pensando alla sua florida Danerba, che certamente gli avrebbe donato molti figli. Così fu: dimenticò la predizione e continuò a far prosperare le sue bestie in quella valle di paradiso. Dapprima ebbe tre figlie: Lena, Ervina e Uzzina (che avrebbero dato i nomi a tre delle malghe locali), dato che Lena pascolava in Val di Leno, Ervina andava verso Re di Castello, Uzzina in Malga Bissina ed in Val di Fumo.

Il suo desiderio di avere figli maschi non si era però avverato;improvvisamente si ricordò della maledizione e corse sulla montagna, per chiedere aiuto ed implorare il suo perdono. Ritrovò la maga, come se lo stesse aspettando. Lo guardò tristemente, lo invitò a sedersi e ad ascoltarla: "Vedi, la superbia è uno dei peccati più gravi. Io stessa sono qui confinata per la medesima ragione. Conosci il pastore Battista Caré, di Valle? Era il mio fidanzato. Giovane e forte, lo incitai a trovare nuovi pascoli, affinché diventasse il più ricco della Valsaviore. Salì sulla cima per esplorare le Valli di Borzago e di Genova ma precipitò dalle rocce, negli abissi della montagna. Anche tu hai irriso a cose più grandi di te e sarai castigato". Egli pianse, pronunciò promesse e pentimenti, ma la maga profetizzò:"Vedo nel futuro altri uomini, che porteranno sulla montagna persino i loro cannoni; anch'essi non prevarranno".

Le figlie si sposarono con tre pastori: Simone di Cimbergo, Tomaso di Paspardo e Bernardo di Valle. Per l'occasione ci fu una festa grandiosa: vino, salame e formaggio per tutti, si accesero fuochi sulle montagne e si ballò fino a notte. Solo il Caré Alto quel giorno restò cupo, avvolto nella nebbia. Qualcuno aveva udito un brontolio, forse un accenno di temporale, ma non vi si badò più di tanto. Il pastore provò un sentimento di disagio ma se ne liberò in fretta, vista l'allegria che lo circondava. Passarono i mesi, passarono gli anni, ma Lena, Ervina ed Uzzina non ebbero prole. Anche agli animali stava succedendo qualcosa di strano: non producevano più latte, non generavano più. Invecchiato, curvato dal peso delle proprie ambizioni, il pastore salì per l'ultima volta sul Caré Alto. Chiamò a lungo la Maga Margì. Invano. Morte le figlie ed i generi, senza più greggi né mandrie, i pascoli in terra trentina, chiamati dai Valsavioresi i Mucch de Laitør, furono lasciati ai comuni di Saviore, Cimbergo e Paspardo. Quando gli Austriaci fortificarono il Caré Alto, durante la prima guerra mondiale, trovarono due scheletri: l'ufficiale medico riconobbe i resti di un uomo e di una donna. Secondo la fantasia popolare, erano quelli del pastore e della Maga Margì.

Di questa leggenda esiste anche una versione trentina, meno tragica:

Nel tardo medio Evo viveva a Daone una famiglia, discendente dai Conti di Lodrone. Tre di queste nobili sorelle un giorno decisero di visitare i loro spaziosi possedimenti. Giunte in Malga Bissina, s’inoltrarono verso il Passo di Campo, percorsero la strada che costeggia il verde Lago d'Arno ed arrivarono a Valle di Saviore. La contessa più anziana, stanca del viaggio, chiese ospitalità ad una famiglia di boscaioli. Le due sorelle più giovani proseguirono fino a Paspardo: anch’esse incontrarono persone generose che le accolsero nella loro casa. Trascorsa la notte, la più giovane decise di avventurarsi nel territorio di Cimbergo e gli abitanti le diedero il benvenuto.  Riposata e rifocillata, ripercorse il cammino all'inverso, riprendendo con sé le sorelle, che, dopo essere tornate a Daone, vollero manifestare la loro riconoscenza verso quelle persone tanto cortesi, donando loro parte dei possedimenti.

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LA CAGNA DELLA TRAARSERA  

Aveva trascorso tutta l’estate nella malga dei Mucch de laitør; i primi colori dell’autunno indicavano che era arrivato il momento di tornare al paese con gli animali. Accanto, la sua cagna, indispensabile per questo duro lavoro: recuperava gli animali che sconfinavano in altri pascoli, correndo su e giù per quei ripidi pendii; di notte guardiana, di giorno unica compagnia nei lunghi momenti di solitudine. Oltrepassato Passo di Campo, il silenzio della vallata del Lago d’Arno, le nevi del Frisozzo: ancora poche ore e sarebbero giunti a casa. La cagna, gravida, cominciava a guaire per i dolori del travaglio. Ma non c’era tempo per fermarsi: di lì a poco sarebbe stato buio e la mandria andava condotta al sicuro, nella stalla. Tanto conosce bene la strada; saprà come ritrovare il padrone. Sola, tra sassi, maròs e rododendri, la cagna lascia che la Natura la aiuti a far nascere i suoi sette cuccioli. Bisogna subito portarli al riparo: non sopravvivrebbero al freddo della notte ed alla fame degli orsi. Ne afferra uno con i denti, dolcemente; corre veloce e leggera per il sentiero pietroso, giù, fino alla stalla, in paese. Lo depone in un angolo, al caldo, tra lo strame. Sale ancora sulla Traarsèra, ne prende un altro, torna giù; poi torna su. Uno per volta, i cuccioli si ritrovano al sicuro. La cagna è stremata: spinge l’ultimo cucciolo accanto ai fratelli, col muso e, chinato il capo, muore.

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I PAGA' (Valle) 

I Pagani erano le persone che si rifiutavano d’abbracciare la nuova religione cattolica; quando il Cristianesimo divenne il credo prevalente, essi furono costretti a trovare rifugio fuori dal paese, presso le antiche miniere di rame chiamate Tambe dei pagà, per continuare a celebrare in pace i loro riti, antichi di millenni. Il capo dei pagani aveva una lunga barba bianca; talvolta tornava a Valle e si riposava, taciturno, lungo i gradini della chiesa, sempre nel solito posto. Osservava la gente che andava e veniva da quel tempio nuovo, che occupava il luogo sacro ai suoi progenitori. Si narrava che avesse il potere di evocare demoni e di stregare animali e raccolti, attraverso conoscenze ereditate da un antico sapere, camuno o celtico. Per questo era tollerato, protetto da un’aura di magico timore. Un giorno alcuni ragazzi gli giocarono uno scherzo: riscaldarono con dei carboni la pietra sulla quale soleva sedersi. Il capo dei Pagani si scottò il posteriore; tale fu l’offesa che non tornò mai più a Valle.

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LA CRUS DELA PORA MARGARITA (Saviore)

In piedi al levar del sole, poi al bàit, tutto il giorno, a lavorare duro. La stessa vita di sua madre, di sua nonna, delle sue figlie. Una sera, di ritorno verso il paese, vide qualcosa che luccicava, in fondo alla strada: un fagotto bianco, da cui uscivano decine e decine di marenghi d’oro! Margherita frustò il cavallo, perché corresse veloce verso quel miracolo, ma il tesoro sembrava irraggiungibile. Dal profondo del bosco, una voce: “Margarita… al treàca la preàla” (Margherita, si rovescia il carro); lei ignorò la voce, voleva raggiungere quella fortuna e batteva il cavallo ancora più forte. “Margarita… al treàca la preàla…”. Così fu. Il carro si capovolse, Margherita, caduta, morì: lungo la strada che dal Plot de la Campana porta a Casintìa una croce di legno, appesa al tronco di un abete, ricorda ai passanti che l’avidità, talvolta, non porta cose buone.

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FURA SES E FURA SPI'

DELITTI DI CARNEVALE

La leggenda è narrata anche in altri paesi della Valle Camonica, con alcune varianti. A Carnevale i giovani inscenavano situazioni buffe nelle stalle, caldi luoghi di ritrovo, per ottenere in cambio formaggio, salame e latte o, meglio, vino. Una sera arriva un allegro gruppo di ragazzi mascherati, che fingono di essere barbieri: sbarbano un loro amico, seduto sulla sedia, lo prendono in giro, cantano, prendono i regali ed escono ringraziando. L’amico seduto però non si alza. “Mascherina, i tuoi amici se ne sono andati!”. Una donna si alza per capire la ragione del suo tacere: lo scuote, gli scopre il viso e riconosce suo figlio. Il ragazzo è stato assassinato; non sarà mai possibile conoscere il nome gli autori del delitto di Carnevale.

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 LA BIMBA E L'ORSO

A Valle, poco lontano dal cimitero, sulla vecchia strada di Ponte, c’è una lapide che ricorda la morte di una persona, GMC, nel 1795. In questo  posto la neve non si ferma: anche A. Morandini e GM. Bonomelli riportano la medesima osservazione ed io stessa ho potuto verificarne la veridicità. Per un metro e mezzo circa la strada rimane asciutta. Ho potuto verificare il fenomeno di persona, durante una nevicata. Anche don Andrea Morandini e G. Maria Bonomelli riportano la medesima osservazione. C’è anche una lapide della fine del Settecento che ricorda la morte di una persona, GMC, nel 1795, conservata dopo il ripristino della strada. Certamente esiste una spiegazione scientifica del fenomeno, anche se quella data dalla cultura popolare è più affascinante. Nelle vicinanze di questo luogo c’era la Cø del Gob, rimasto vedovo con la figlia; in una fredda sera invernale, un orso affamato riuscì ad entrare nella casa. La bimba, atterrita, fuggì, ma l’orso la raggiunse e la sbranò. Il sangue caldo bagnò la terra, che da allora rifiuta la neve, in ricordo della piccola montanara. Attenzione a non aggirarvi per i boschi della Valsaviore, soprattutto di notte, poiché recentemente è stato avvistato un esemplare di orso bruno in Val Salarno.

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LA SIGNORA DELL'ADAME'

In Adamé, nella malga di proprietà dei pastori di Grevo, talvolta, a mezzanotte, tra il timoroso stupore dei  pastori, accade un fatto assai strano: gli animali improvvisamente non fanno più rumore, quasi spaventati da qualcosa di misterioso. Si sente un leggero calpestio di zoccoli e la porta, anche se chiusa con un catenaccio, si apre. Entra una vecchia signora, con il capo coperto da una mantellina nera: in silenzio, fa girare la caldaia sulla sigàgna (il perno), guarda tutti negli occhi, sorride e se ne va, senza mai parlare. Si tratterebbe della donna che ha lasciato la malga in eredità ai Grevesi, che torna per non far dimenticare il suo gesto generoso.  

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IL PRATO DEL GATTO

Tra Ponte e Saviore c’è una prato, detto “del gatto”, perché vi accadde un fatto sconcertante. Un cacciatore, che perdeva messa ogni festa per andare a caccia, vide uno strano movimento dietro un cespuglio. Si precipitò nei suoi pressi, per vedere se ci fosse una preda. Vide un gatto: nero, con grandi occhi gialli attraversati da una fessura, anch’essa nera, un grosso gatto, ma proprio grosso, così non ne aveva mai visti, ma che gatto grosso come un… un cane, no, un vitello, oddìo, ma questo non è un gatto… pum! E non moriva. Aripum! Questa è una strega, o il diavolo in persona, in persona di gatto e … aaaagh! Tale fu lo spavento che il cacciatore morì.  

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LE FIAMMELLE DEL CAMPANILE

“Quando l’atmosfera carica di vapori minaccia tempaccio o procella da imporre alla campagna nell’oscurità della notte si scorgono vari lumicini di diverso numero e variato movimento che si spiccano dalle crocette dell’antico campanile e si portano sulle crocette della nuova chiesa, dove dimorano più o meno senza estendere il loro chiarore al di là del loro volume, e poi si levano nell’atmosfera e allontanandosi svaniscono all’occhio osservatore”. Il fenomeno sarebbe stato osservato anche dallo scettico vescovo Nava, in visita nel 1810. L’interpretazione popolare li identificava con i segni miracolosi attraverso i quali S. Giovanni Battista teneva lontani i pericoli. La stessa leggenda si riscontra a Cimbergo e a Vione ed è indicata da Gregorio Brunelli. E’ possibile che questa leggenda sia connessa a credenze pagane, coincidendo la festa del patrono con il solstizio d’estate.

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CICIOES E CAVRA BESULA

RE DI CASTELLO, PIAN DELLA REGINA

Nella leggenda, Re di Castello è così detto per la presenza di una roccaforte difensiva. ”Diffatti ancor vi scorgono certe vestigia d’antiche fabbriche che rendono probabile questa tradizione”. Ciò è assolutamente possibile, essendo stata per secoli una zona confine di grande rilevanza strategica. Nel castello dimorava un re. Forse il toponimo deriva dalla conformazione orografica, che nulla toglie alla magia di questa montagna. Il Pian della Regina si chiama così perché in un tempo antico vi passò un’invasione di barbari. La bella regina che accompagnava il re di quel popolo, d’animo troppo gentile per restare con quei rudi aggressori ed assistere agli orrori della guerra, si ritirò con la sua corte di paggi e donzelle in quel magnifico posto, indulgendo ad attività più spirituali. Secondo un’altra versione, la regina Teodolinda, passando dalla Valsaviore con l’esercito longobardo, vi avrebbe sepolto il suo favoloso tesoro, che si troverebbe ancora lì. Per altri, sarebbe salita in Valle Camonica negli ultimi anni della sua vita, accompagnata dal vescovo bresciano S.Felice, ad estirpare i residui del paganesimo. Gregorio Brunelli parla invece di un’erba regia, che mangiata dai camosci, “produceva delle glandole il cui umore era adoperato per guarire infallibilmente le malattie respiratorie”, chiamata dai locali erba camossa. Alcuni studiosi fanno risalire l’etimologia all’espressione "della caccia regina", zona di caccia grossa per orsi ed in tempi più lontani anche lupi. Piccola curiosità: Andrea Morandini parla di una raccolta di fondi, negli anni 20, da parte di “una comitiva di allegri studenti”, per costruirvi una cappella, che però non è ancora stata iniziata…

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IL CUORE DELLA STREGA

Una madre aveva un bimbo malato, molto malato. Non sapendo più a che santo votarsi, si rivolse a Minighina, un'anziana donna del paese, che si diceva avesse poteri magici. La vecchia stava ritta davanti al fuoco, in silenzio; all'improvviso alzò il capo:"Uno dei vostri figli mi ha chiamata strega: quella parola non la voglio". Intanto aveva preso una scodella, vi aveva messo acqua pura ed aggiunto erbe, biascicando parole sibilline. Il bimbo, che prima strillava senza pace, bevve la mistura, smise di piangere e si addormentò. 

Minighina era stata fatta crescere da una zia, avendo perso entrambi i genitori prima di poterli conoscere. A scuola non l'avevano mandata. Si arrangiava come poteva: filava la lana per pochi soldi, raccoglieva un po' di legna per venderla. A vent'anni aveva sposato Pepino, il carbonaio; per un po' di tempo le cose erano andate bene, poi lui aveva cominciato a frequentare cattive compagnie. Una sera che aveva bevuto troppo, lo riportarono a casa morto accoltellato. Aveva avuto tre figli: due morti piccini, di tisi. L'unica figlia rimasta le regalò due nipotini, ma anch'ella morì giovane, mentre stava nascendo un altro bambino. Minighina crebbe i ragazzi, che se ne andarono poi in Francia per lavorare e non li vide più. Restò sola al mondo: piccola, scarna, con due occhiaie che le segnavano lo sguardo, infagottata in quattro stracci che non avevano forma, divenne lo spauracchio del paese. La buona gente l'aiutava, quella cattiva sparlava di lei attribuendole le morìe del bestiame, le malattie e l'infertilità.

Era quasi mezzanotte: una notte limpida e gelida, con tutte le stelle appena sopra la testa, come sono le notti d'inverno in Valsaviore. In una stanza stretta e poco illuminata agonizzava una povera donna; ogni tanto passava il curato, ma gli altri ignoravano quella misera. "Ho sete...", sussurrava e Minighina le porgeva un sorso di caffé caldo, accompagnato da parole di conforto: "Raccomandatevi al Signore, Bigì". Anche lei non aveva più nessuno: non aveva figli, suo marito era in prigione da tanti anni ormai. Una sera, all'osteria, aveva accoltellato Pepino, il carbonaio.

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I CUSPI'

 

RAGAZZE SCOMPARSE

Il Castello Merlino di Saviore sarebbe stato dato alle fiamme dopo il ratto di fanciulle e donne, durante una processione da parte dei castellani. Da allora le donne procedono sempre davanti agli uomini. Nelle leggende ricorre il tema della fanciulla rapita dai banditi o scomparsa improvvisamente. Una di loro, una sera, stava giocando al gioco dell’anello nella stalla dei Cèi, famiglia saviorese; per penitenza doveva uscire a cantare il Martinàsso. Poco dopo non si sentì più la sua voce: di lei non rimase traccia, nonostante fosse stata cercata ovunque.

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LA MOROSA DEL BANDITO

La bella nipote del prete di Valle, don Stefano Zendrini, discendente dalla famiglia del grande matematico Bernardino, si era invaghita del capo dei briganti della zona ed era scappata con lui, nonostante la contrarietà della famiglia. Il bandito, costretto poi a fuggire da quei luoghi, per evitare la cattura da parte delle Cernide, aveva abbandonato la ragazza, la quale tornò a Valle, cercando il perdono per ciò che aveva commesso. Lo zio, sceso pazzo dopo essere scampato ad un naufragio nel Lago di Garda, la pugnalò al cuore in chiesa, davanti all’altare maggiore, incapace di accettare un affronto tanto grave per il nome della propria onorevole famiglia. Resosi immediatamente conto della gravità del delitto, tentò di affogarsi ma fu fermato dai parrocchiani. Trascorse il resto della sua lunghissima vita (morì a novant’anni) rinchiuso in una stanza della Cà de le Siòre, a Valle.  

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IL PASTORE ED IL VENTO

Pirlì era un ragazzo di quindici anni, con le guance rosse ed un giubbetto di velluto verde. Faceva il pastore, ormai da molto tempo: in Valsaviore, come del resto in molte vallate alpine, i bimbi venivano mandati a fare il famøi, il famiglio, fin da quando avevano otto o nove anni, per non gravare sulla miseria dei genitori. Una strana malattia aveva annientato il suo gregge e così, costretto dalla fame, aveva dovuto abbandonare il suo paese per cercare lavoro altrove. Si era rivolto ad un pastore trentino che, vedendolo forte e allegro, gli aveva affidato i suoi animali. "Però io non porto le bestie al pascolo, quando c'è brutto tempo" aveva detto, determinato. Il pastore accettò. Pirlì, solo, con un cane e qualche belato per compagnia, ogni giorno portava le capre in alto, molto in alto, dove c'era l'erba migliore. Ciò che parve strano al pastore, era che il ragazzo usciva anche quando pioveva a dirotto, addirittura quando nevischiava. "Sarà un po' tocco", pensò tra sé. Un mattino, il cielo era così azzurro da sembrare un lago, non si fermava una nuvola; era già passato da tempo il momento di salire al pascolo con le capre e Pirlì dormiva ancora. "Che razza di lazzarone! Ah, ma ora vado io a levarlo!": andò furibondo verso la stalla, dove il ragazzo dormiva. Lo tolse dal letto a calci ma questi, non appena capì da dove arrivavano le pedate, si ribellò."Ehi, amico: eravamo d'accordo che quando ci fosse stato brutto tempo, non sarei uscito!". Sorpreso, il pastore tuonò: "E che cosa ti sembra questo? Non vedi che giornata?". Sebbene più vecchio di lui, non aveva ancora imparato che in montagna, quando c'è vento, è peggio di quando piove o nevica. Pirlì glielo spiegò con pazienza e, ricevute a mo' di scusa una pagnotta ed una formaggella, riprese a sognare.

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LA ROCCIA DEI PE' DE CAVRA

In una baita sopra Saviore viveva un montanaro, una persona schiva, che evitava ogni contatto con la gente per via del suo carattere scontroso. Non scendeva mai in paese, nemmeno per andare a messa: era allergico al fumo delle candele. Tutti lo temevano, perché il suo volto barbuto, quasi satiresco, ricordava il diavolo in persona. Quando perdeva la pazienza, tirava in ballo tutte le saracche conosciute e tutti i Santi del paradiso, percotendo con un grosso bastone i poveri animali che avevano la sfortuna di stargli accanto. Un giorno d’autunno, mentre scendeva in paese con le mucche, il suo cane lo fece inciampare. La sua ira raggiunse il limite: cominciò ad imprecare ed a sferrare calci, finché disse: “Almeno ci fosse qui il diavolo, batterei anche lui!”. Appena detto ciò, gli comparve davanti un essere orribile avvolto in un fumo atro che gli usciva dalle corna: gli occhi di brace, lingue di fuoco che saettavano dalla sua bocca, il corpo umano ed i piedi di capra. Il montanaro mise le gambe in spalla e corse giù, al Plot dela Campana, poi fino alla chiesa, dove chiese perdono al Signore per il suo comportamento. A stento riuscì a riprendere il sentimento ed a raccontare quanto era accaduto: dapprima nessuno gli credette, ma quando tornarono a recuperare la mandria, videro che su una roccia il diavolo aveva lasciato le impronte dei suoi piedi. Da allora, sulla strada che porta in Casintìa, appena sopra il Plot, la roccia dei Pé de cavra porta ancora i segni del suo diabolico visitatore.

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IL VENTO BURLONE

La leggende è liberamente tratta dal libro "Leggende di Val Camonica e Val di Scalve" di Giorgio Gaioni.

Una famiglia di Berzo si trovava nel prato di Féit, tra Sonico e Malonno, a rivoltare il fieno, in una bella giornata di giugno. Ad un tratto cominciò a spirare un venticello: dapprima fastidioso, poi insistente, diveniva sempre più forte, fino a sollevare il fieno, spargendolo di nuovo per terra. Stanchi e accaldati, i contadini lo seguivano con i rascoi, forconi bidenti e cercavano di tagliarlo con un falcetto, gridando indispettiti: “Prendi, vento della malora!”. Il vento, all’istante, cessò, allontanandosi verso la Valtellina. Il falcetto però non si trovava più: sembrava sparito nel nulla. Passarono gli anni; un bel giorno, uno dei contadini si recò in Valtellina per comprare dei vitelli. Era una giornata particolarmente ventosa; concluso l’affare, entrò in un’osteria a bersi un bicchiere di vino e vide, seduto in un angolo, un uomo, con in mano il suo falcetto. Si avvicinò, chiedendogli da dove provenisse quello strumento. L’uomo rispose:”Ti ringrazio del favore che mi hai fatto. Il tuo gesto mi ha liberato dallo spirito che mi tormentava, trascinandomi per monti e vallate durante la raccolta del fieno”. Il contadino, ripreso il suo falcetto, tornò a Berzo, pensando che anche nel vento, così come nella natura, possono esserci presenze ignote.  

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LA DONA DEL ZÖCK

Tra Cevo e Saviore, al Bàit dei Sàncc (Fienile dei Santi), di notte si sente la Dòna del zöck, la Signora del gioco, residuo di antiche divinità pagane, forse una volgarizzazione di Erodiade o Diana; tale entità è citata nel Canon Episcopi, apportatrice di danni e paure. Secondo la tradizione saviorese, in questo fienile ridde di demoni d’ogni sorta intessevano danze sabbatiche: talvolta i giovani del paese venivano invitati a festeggiare da avvenenti creature, che rivelavano poi la loro natura, mostrando ripugnanti piedi di capra. Chi osasse avvicinarsi vedrebbe “un lume in basso quando si trova in alto, in alto quando si trova in basso”. Quando la Dòna del zöck giungeva nei pressi di baite isolate, faceva impazzire gli animali, graffiava porte e finestre, lasciava i prati ricoperti d’escrementi; si potevano vedere i segni della stregoneria sugli animali (come i crini intrecciati dei cavalli) che di lì a poco sarebbero morti.

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 LE STRIE DE L'ANDROLA

A Cevo si parla delle  Strìe de l’Andròla, che avrebbero dimorato nelle antiche miniere di rame lì presenti, il cui accesso era custodito da un serpente che sulla coda recava un anello d’oro; celebravano il sabba infernale durante i temporali. E’ probabile che anche le streghe valsavioresi, viaggiando a bordo di capre, gatti e quant’altro, si unissero ai “barilotti” che avevano luogo al Tonale, deputato al ritrovo dei demoni di Valle Camonica, Valtellina e Val Seriana, anticamente dedicato al culto della divinità pagana Tonante Pennino.

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LE STRUITINE DE SAN SIST

Il ragazzo era molto emozionato: era la prima volta che scendeva con la mandria in Bresciana, per trascorrervi l'inverno. Si partiva per il lungo viaggio quando era ancora buio, dopo aver mangiato polenta abbrustolita e latte fresco. Ci volevano cinque o sei giorni per attraversare la Valle Camonica: il primo giorno,, "stal dela Sciàniga"; il secondo, "Stal dela Culumbera"; la terza fermata, "stal de El"; infine, "Stal de Isé", per proseguire verso la pianura. Le mucche, in autunno, erano stanche e magre e faticavano assai a percorrere un buon centinaio di chilometri ma era consuetudine, in Valsaviore, transumare dopo la Madonna di settembre. Anche lui risentiva delle fatiche della fienagione estiva, ma era forte, molto forte, come suo padre, sua madre ed i suoi dieci fratelli. Si stava facendo sera ed in lontananza scorse un lume, appeso all'esteno di una locanda. Pensò di entrare per gustarsi un bicchiere di vino e quando entrò rimase sorpreso, vedendo che vi erano solo ragazze, anzi, bellissime ragazze. "Buonasera, giovane...entrate, siete il benvenuto!". Il ragazzo sedette, timido, su uno sgabello di legno. "Da dove venite?" interrogò una di esse. "Dalla Valsaviore", fu la risposta. Le fanciulle presero a ridere e ad ammiccare tra loro:"Certo, la Valsaviore: sapeste quante botte abbiamo preso lì!". "Botte? E chi mai fu ad oltraggiare anime tanto gentili?". "Oh, non furon cristiani, ma le campane di San Sisto". Il giovane rimase sbigottito davanti ad un'affermazione tanto strana:"Le campane di San Sisto? A mia memoria non hanno mai fatto male a nessuno!". Le ragazze risero ancora, ma questa volta il loro viso si deformò in un ghigno sinistro:"Quando veniamo a far festa nel prato delle Tese con i nostri amici diavoli, il baccano disturba i Cevesi che per mandarci via suonano le campane a distesa. Sapessi che male che fanno! E' come se il nostro corpo fosse percosso da fruste sottili e da bastoni nodosi e ci dobbiamo allontanare al più presto per avere requie!". Streghe...erano delle streghe! I suoi occhi caddero sui loro piedi, che prima erano nascosti dalle lunghe vesti ed ora invece poteva scorgere in tutta la loro mostruosità: piedi di capra. Fece per scappare, ma le streghe si avventarono su di lui, trascinandolo per i capelli in un tetro sabba di morte.

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L'ANIMA CONFINATA

Il nonno aveva un fienile sopra Musna: vi trascorreva tutta l'estate, ma talvolta doveva scendere in paese, a Cevo, per fare delle commissioni. Quando rientrava era ormai buio. Una sera cominciò ad udire, in lontananza, uno strano cinguettio. Che strano, passeri di sera. Man mano che avanzava, il suono mutava forma e diventava come un lamento di gatto. Ormai non aveva dubbi: non si trattava di una suggestione, era proprio un rumore distinto, quasi una supplica di persona. Impaurito, il nonno raggiunse lesto il suo fienile. Quella notte non riuscì a chiudere occhio: pensava a quel fatto che gli aveva lasciato nel cuore tanta paura ma anche un pensiero di pietà. (continua...)

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