RICORDI

Buon giorno, mi chiamo D. L. D. e sono un giornalista che vive e lavora a Milano; collaboro con varie testate e mi occupo anche di curiosità nel web. Mi sono imbattuto nel suo sito e mi piacerebbe parlarne. Come è nata l'idea, due notizie in più su di lei, come ha curato il portale etc.... Spero di avere sue notizie e le faccio fin d'ora i complimenti.

A presto

D. L. D. 

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Egregio signor D. L.,

                                    questa sua lettera mi mette in imbarazzo. Da un lato titilla il, penso naturale, orgoglio dell’autore di un lavoro non piccolo, dall’altro suscita ritrosia a raccontarsi ad un perfetto sconosciuto. Tenterò di vincere entrambe le tendenze.

Però voglio cominciare da una mia domanda a lei: io ho scritto per i miei alunni e per tutti gli altri alunni che pensano di aver bisogno di una mano per saltare sul primo gradino della fisica. Come posso inquadrare la sua curiosità di giornalista? Spero che voglia rispondere a questa mia curiosità nei suoi confronti.

 

Venendo a quel che mi chiede, le dirò che da molti anni avevo in animo di scrivere di meccanica, ma con la penna ho sempre avuto delle gran difficoltà: il pensiero correva troppo in fretta rispetto alla mano e i continui ripensamenti e aggiustamenti rendevano le mie pagine incomprensibili anche a me stesso. Ricopiare poi in bella il frutto di rifacimenti continui era una vera noia. L’incontro con l’odiato computer avvenuto 4 anni or sono mi ha liberato della fatica fisica lasciando il piacere dello scrivere. Con questo strumento cambiare, aggiungere, correggere è così facile, anche a distanza di tempo, quando i pensieri maturano, che finalmente ho potuto dare sfogo alla voglia repressa per tanti anni.

Ora passo le vacanze estive a scrivere su argomenti che spero possano essere utili agli studenti delle scuole tecniche e in realtà questo desiderio si sta avverando perché mi scrivono molti ragazzi delle scuole medie superiori e addirittura studenti universitari, anche per chiedermi ulteriori delucidazioni su argomenti appena accennati nelle mie pagine. E ciò naturalmente mi consola e mi fa pensare di aver avuto una discreta idea, ripagandomi della fatica non indifferente.

Come ha di certo letto nella prima pagina del sito sono nato ad Escalaplano, un minuscolo, allora ed anche oggi, paesino della Sardegna, il più a sud della provincia di Nuoro. Mio padre, siciliano come mia madre, era il segretario comunale del paese(*). Quando avevo sei anni fummo trasferiti ad Jerzu, non molto lontano da Escalaplano, e lì ho frequentato le scuole elementari, salvo la terza che frequentai a T., vicino Palermo, paese d’origine di mio padre. Durante le scuole medie la mia famiglia si trovava a S. Vito mentre io abitavo in casa di amici a Cagliari (allora le medie non erano dappertutto). Poi i miei si trasferirono prima a Monastir e in seguito a Capoterra e io feci il liceo classico viaggiando ogni giorno. Con il diploma del classico mi iscrissi nel 1957 a ingegneria civile e passarono molti anni: di natura sono un poco pignolo e quindi gli esami tardavano ad accumularsi.

Nel 1966 iniziai il servizio militare, prima come soldato semplice, poi come allievo ufficiale e infine sottotenente nella Brigata Sassari a Trieste. Durante il servizio mi sposai con una “sarda verace” e, una volta congedato, per mantenere la famiglia ho fatto l’assicuratore, il rappresentante di commercio e altro, finché mio padre si offrì di mantenermi ancora qualche anno per raggiungere la laurea, che giunse nel 1974. Da allora insegno e oggi sono sul piede di partenza per la pensione. Ho chiesto di rimanere ancora part-time ma non so se me lo concederanno.

In questi trent’anni di milizia nella scuola ho visto alcune migliaia di ragazzi di tutte le risme con i quali ho sempre avuto ottimi rapporti, salvo due o tre eccezioni. Alcuni li ho incontrati ormai uomini fatti, e m’hanno abbracciato e baciato come un parente e in queste occasioni sono rimasto davvero felice. Io so che noi insegnanti siamo importanti, molto importanti e di conseguenza abbiamo delle grandi responsabilità: essere ricordato con piacere, e gratitudine talvolta, è il premio più importante, è il segno di aver operato almeno senza infamia. Purtroppo negli ultimi anni la qualità degli studenti è molto scaduta (dico degli studenti, non dei ragazzi!): troppi altri interessi, troppo poca voglia di faticare per imparare. La lettura e lo studio sono attività sempre più lontane dalla vita quotidiana. Chiedere ad un alunno “quante ore studi al giorno” e sentirsi rispondere “un’ora alla settimana” fa cascare le braccia!

Vivo in campagna, in un frutteto impiantato da mio padre negli anni 50. Sino a pochi anni or sono mi piccavo di dichiararmi contadino di professione e insegnante per hobby; ora non ho più la forza, e la voglia, di curare la terra e faccio il mestiere di scrittore. Forse quando sarò in pensione mi metterò a scrivere un romanzo, cominciato 50 anni fa!

Credo di aver scritto troppo e di averla annoiata a sufficienza.

La saluto cordialmente e le auguro buon lavoro. 

 

 

(*) le pagine qui sotto le ho scritte qualche mese fa per un forum della rivista Focus.

 

Così si viveva nel passato

1

RICORDO….

Anno 1943, Escalaplano, in provincia di Nuoro, paesino insignificante fra le montagne del Sarrabus.

Fame, fame e soltanto 5 anni. Mangiare? A pranzo fave arrosto, a cena fave arrosto. La domenica, ma anche in qualche altro giorno, gita in campagna a cercare erbe selvatiche da mangiare o da trasformare in caffè (la cicoria). Maiale in casa, nel cortile, per farne strutto, da usare invece dell’olio. Invidia del vicino di casa che può permettersi il pane d’orzo, sottratto all’asino. Agosto aiutare i contadini a raccogliere le mandorle e farne scorpacciate. Mio padre, segretario comunale, che si trasforma in allevatore di maiali allo stato brado nei boschi di quercia (ne avrà tratto beneficio? Non lo so).

Un cavallo malato di antrace. Curato dal fabbro con un ferro arroventato. Il bagno? Una bacinella di fredda acqua in casa. Il wc? In cortile, sotto “s’umbragu”, la catasta di legna disposta su quattro pali, all’aperto. Marzo tuffarsi fra le piantine di fave. Giocare: ammonticchiare un poco di terra contro un muro, scavare un piccolo cono e farci dentro la pipì, poi togliere piano piano la polvere rimasta asciutta ed ecco che al muro rimane attaccato un poco di fango, simile ad un nido di rondini.

Lavoro delle donne che coltivano e macerano e sbattono le piantine di lino (ce n’è più in Sardegna?) e cardano e filano e tessono la dura lana delle pecore. Dormire sulle stuoie di erba palustre ricoperte di pelli di pecora (perché andare in Giappone per conoscere queste cose?). Gli sfollati che vengono da Cagliari per sfuggire ai bombardamenti e che portano altra cultura, altro stile di vita, altre esigenze, che mio padre non può soddisfare perché non c’è nulla da sequestrare ai contadini e agli allevatori.

Può essere utile ricordare queste cose dopo sessant’anni?

2

1946, Jerzu, un altro paesino vicino ad Escalaplano, ma più in alto, a mezza costa sul Montiferru. Ancora fame e mia madre che vende la mia divisa di figlio della Lupa (roba buona, di prima della guerra) per una dozzina di uova. Ad Escalaplano avevamo il cortile e l’orto dietro casa, qui ad Jerzu le case sono una sull’altra, primo piano da una parte e terzo piano dall’altra, i cortili non ci stanno, le strade finiscono su burroni di 20 o 30 metri, quando piove si formano cascate di acqua e fango e pietre. I contadini hanno costruito terrazzamenti portando la terra a dorso d’asino, eppure c’è grano e olivi e agrumi e viti che producono un vino noto con il nome di Cannonau e un’acquavite con il 1000 per cento di alcool.

I commercianti si approvvigionano una volta al mese a Cagliari, 120 km più in là, usando i carri a buoi, una settimana ad andare e un’altra a tornare. C’è il falegname che costruisce i carri, ecco un lunghissimo tronco di non so cosa, già spaccato per metà della sua lunghezza, ecco appoggiata ad un muro una ruota con il suo cerchio di ferro e lì accanto i raggi per costruire l’altra. La strada è di ciottoli di fiume, tondeggianti, e le ruote suonano saltando da un ciottolo all’altro e ci sono i solchi dove scorrono acque più o meno pulite.

Il cinema, siamo nel 1945 o l’anno seguente: ecco che arriva un tizio che fa “gettare un bando”(*): il sindaco fa sapere che oggi alle ore … in via … si terrà uno spettacolo cinematografico. Lo spettacolo costa … lire. Portatevi le sedie. Processione di tutti gli abitanti, donne e bambini, vecchi e giovani, anche pastori che hanno abbandonato le pecore, tanto anche gli abigeatari(**) oggi forse fanno festa. La strada piena di sedie e laggiù in fondo un gran lenzuolo bianco, appeso al muro, un poco svolazzante nel vento che non lascia mai la Sardegna. Ed ecco, nel buio della notte, si formano le prime immagini tremolanti sul lenzuolo tremolante. Di certo per me, che ho sette od otto anni, è la prima volta, ma forse lo è anche per molti adulti: ecco Topolino e la sua banda alle prese con Gambadilegno, che viene tagliato a fette e si ricompone e riprende a fare dispetti a qualcuno!

La scuola, un enorme edificio, al margine del paese, al confine con un meraviglioso bosco di querce secolari, ornato di cisto di mirto di corbezzolo di lavanda e di timo. C’è freddo in inverno ad Jerzu, non freddo di neve ma di ghiaccio con un maestrale che spacca la pelle e ci sono compagni di scuola ai quali i genitori come viatico termico fanno bere un bicchierino di fileferru, l’acquavite che tutti i contadini producono in casa. La maestra, la signora Lia, ci insegna a contare con mazzi di bastoncini di nocciolo legati con lo spago. Ma ha anche bacchette, lunghe e flessibili, con le quali ci minaccia di frustate, e che rompe battendole sui banchi (che hanno un foro per metterci la bottiglietta di inchiostro e noi scriviamo immergendoci una asticciola con il pennino in cima) e sulla cattedra. Un giorno le bacchette finiscono e chiede che qualcuno gliene porti delle altre. Il giorno dopo un compagno di classe arriva in aula tutto orgoglioso, ecco signora maestra, le ha preparate mio padre. Vieni qui lo chiama la signora Lia e sfila una bacchetta e gli da un colpo sul sedere: tu le hai portate per punire i tuoi compagni e tu le provi per primo! L’ho sempre considerata una gran lezione di vita!

Qualche anno dopo, quando ero in quarta, e con me c’era mio fratello, all’uscita dalla scuola, alle 12 e 30, me ne andavo con lui nel bosco, per ore e tornavo a casa alle quattro o alle cinque con un mazzetto di ciclamini e di viole mammole (che colori, che profumi!)  e mia madre me le dava con una fune piegata in quattro e mi mandava a letto senza cena. Ma più tardi veniva la signorina Giuseppina, una sfollata da Cagliari che dal 1943 viveva con noi, e mi portava la minestra. E io, un poco testardo sin da allora, il giorno dopo di nuovo nel bosco.

In bottega c’è, tutto insieme, di tutto, dal pane al vino ai chiodi, la calce insieme alle sardine salate e alla cannella (coloniali, si chiamano!). si compra la pasta lo zucchero la farina, tutto sfuso in grandi fogli di carta pesante come pietra. Anche la “conserva”, il concentrato di pomodoro, si compra sfuso: il commesso ha un gran cucchiaio di legno, raccoglie un poco di conserva, lo versa in un pezzo di carta “oleata” e il gioco è fatto! Tubetti, scatole, barattoli, han da venire, l’igiene oggi tanto di moda è lontana. Un grande enorme altissimo, per me, magazzino, con commessi che corrono da uno scaffale all’altro, di legno, con cassetti e ripiani, dai quali si riversano odori di tutti i tipi. Su un lato una signora con un gran libro su un leggio, si compra a credito, si va con un libretto, si ordina la merce, il commesso scrive sul libretto cosa si è preso e fa la somma. Poi si va dalla signora che trascrive sul suo librone la somma dovuta. Non so perché ma ho sempre avuto vergogna di questo sistema, e ancora oggi mi da fastidio comprare a rate!

 

(*) il bando era, e lo è stato sino a non molto anni or sono, un annuncio pubblico gridato per le strade da un banditore, che si presentava con il suono di un corno. Il bando doveva sempre essere autorizzato dal sindaco. La frase iniziale era sempre “si ghetta custu bandu …” cioè “si getta questo bando”. Oggi si fa lo stesso usando microfoni e altoparlanti.

(**) gli abigeatari sono i ladri di bestiame. Il furto (abigeato) di pecore, di capre, di maiali, di vacche è ancora abbastanza diffuso nei paesi dell’interno della Sardegna, dove la ricchezza è spesso rappresentata dal numero di animali posseduti.

3

La terza elementare l’ho frequentata a T., il paese natale di mio padre, vicino Palermo. Abitavo con mia madre e i miei fratelli in casa della nonna, già anziana, magra come un chiodo magro, che regolava la vita di tutta la famiglia, compresi i figli, grandi e sposati. Quasi ogni mattina andava in campagna e qualche volta l’accompagnavo, 5 chilometri in discesa per andare e 5 chilometri quasi tutti in salita per tornare. A pranzo pane e olive, pane buono, fatto in casa ogni settimana e cotto in un forno comune, in grandi ruote bionde. Nella cantina di casa grandi giare piene di olio, verde, profumato, denso, carico di sapore: una fetta di pane condito con quest’olio, un poco di formaggio grattugiato e un pizzico di sale era un pranzo completo, buono, saporito.

A tavola mia nonna sedeva in disparte perché vedova, mentre gli zii, marito e moglie, mangiavano dallo stesso piatto, grande e lungo per non disturbarsi troppo fra loro.

La divisione dei compiti fra i figli era rigida e ben delineata: il figlio grande, mio padre, a studiare (ragioniere, iscritto all’università ma solo per finta); per il secondo licenza elementare (poi, visto che ne aveva voglia, arrivato anche lui al diploma); per la figlia terza elementare e poi a casa alle faccende domestiche (tanto poi si sposa!); per l’ultimo figlio niente studio, contadino per badare alla “roba” costituita da terra e vacche da governare tutti i giorni, mattina e sera e custodire gelosamente contro i furti.

Ogni tanto gita in montagna dove pascolavano allo stato brado le vacche. La campagna era disseminata di rottami di ferro: bombe d’aereo, proiettili di tutti i calibri, anche non esplosi, ricordo della guerra appena finita: siamo nel 1947. I carretti a cavallo vanno su e giù portando quel ferro e ogni tanto qualcuno ci lascia parti del corpo o la vita. Ci sono i banditi, Giuliano e altri, nei paesi vicini e i carabinieri sono sempre in giro a cercarli. Qualcuno con la furbizia dei contadini, stacca il numero civico dal muro vicino alla porta, per non farsi trovare. Arrivano soldi dai parenti in America, parenti di tutte le risme, ma tutti ricchi.

La sera passano nella strada dove abita mia nonna i maiali che tornano dal pascolo. Noi bambini ci divertiamo a cavalcarli e quelli ci sbattono a terra e noi di nuovo appresso a saltargli in groppa e il divertimento è grande e rumoroso e la gente ci guarda seduta sulla soglia di casa.

A novembre e dicembre c’è la spremitura delle olive, con un vecchio torchio con lunghe stanghe per girare la vite madre. Per noi ragazzini è un gioco e per il padrone del frantoio un aiuto insperato. Ed eccoci lì a spremerci i muscoli per tirar fuori l’olio dalla pasta di olive macinate, sino a produrre un residuo secco e duro dentro i cesti a forma di corona. E la mamma che ci sgrida perché è tardi e dobbiamo fare i compiti.

1949, quinta elementare a Jerzu. Non c’è la scuola media, bisogna andare  Cagliari ma prima ci vuole l’esame di ammissione. La preparazione all’esame comincia a marzo, con ripetizioni ogni giorno a casa di un maestro. Lunghi, lunghissimi compiti di analisi grammaticale e logica (da molto tempo non si usa più o si usa poco). Esercizi a decine, a centinaia, a milioni, sino ad esaurire la fantasia nel comporli, sino a presentarsi con frasi assurde che mi costano lunghi e umilianti rimproveri da parte del maestro e di mia madre. Io sono il primo figlio e per me e per i miei fratelli deve esserci la laurea, per me in medicina (un medico in casa è sempre comodo) oppure da notaio che nei paesi è una vera autorità. E quindi studiare, sempre, senza stancarsi.

Viene il tempo dell’esame e mi portano a Cagliari, ormai ci sono le corriere, non più i carri a buoi, in casa di amici. L’esame lo devo fare nella scuola media Manno, la più famosa e dura della città.

L’esame non lo ricordo ma fui promosso e quindi potevo frequentare l’anno scolastico seguente. Tornato ad Jerzu ecco una cattiva notizia: mentre io ero via i miei compagni avevano fatto l’esame di licenza di scuola elementare e io no!

Ecco la situazione oggi: sono ingegnere ma non ho la licenza elementare!

4

Rileggendo queste pagine dopo qualche giorno mi vengono in mente altri particolari.

1942, Escalaplano, ho 4 anni ma lo ricordo ancora.

Mia madre chiama: Giovanni vieni a pranzo! Mamma, mamma, i carabinieri non mi lasciano entrare! Quali carabinieri? Urla mio padre che è segretario comunale e quindi conosce i carabinieri del paese. E si affaccia sulla soglia, guarda intorno e mi chiede alzando la voce: dove sono i carabinieri? Qui, dico io, e indico verso terra. Conoscete quegli animaletti, del tipo coleotteri che hanno le ali dipinte a strisce rosse e nere come le divise dei carabinieri? Bene, ce n’era una fila intera proprio all’ingresso di casa e siccome noi ragazzini li chiamavamo carabinieri …..

Vi ho raccontato che il wc era all’aperto sotto “s’umbragu”, ma non vi ho detto come veniva ripulito. Non vi scandalizzate e non inorridite. Nel cortile che era anche orto avevamo delle galline alle quali non pareva vero di rimpinzarsi delle nostre scorie. Era allora un modo usuale in campagna di riciclare tutto, nel senso che ciò che è rifiuto per uno è materia prima per un altro. Ma ora pensate che mia madre viene da Palermo, grandissima città, dotata di fogne e di acqua corrente e di case ben costruite ecc ecc e che ha solo 21 anni quando arriva in questo paesino sperduto della Sardegna. Tante volte mi ha detto che per lei la Sardegna era solo una macchia su una carta geografica, che mai avrebbe pensato di venire a vivere fra i “Sardignoli” (così venivano chiamati i Sardi fra i miei parenti a Palermo!).

Un gioco pericoloso che mi è costato parecchio era quello di montare a cavallo del maiale di casa, un bestione di oltre 300 chili. Un giorno però mi disarcionò e mi sbatté con la faccia in un secchio di calce, che mi entrò anche negli occhi e da allora non riesco più a sopportare la luce diretta del sole, devo portare sempre gli occhiali scuri altrimenti piango.

Abbiamo a casa due donne sfollate da Cagliari, l’una è maestra d’asilo, la signorina Anna, che si è messa in testa di insegnarmi a leggere e scrivere quando ho solo 5 anni. Ma io non voglio saperne e vinco la battaglia. Però ogni tanto vado all’asilo, con la mia divisa di figlio della lupa. Mio padre è un fascista convinto, di quelli buoni, che sanno rispettare tutti, anche quelli tiepidi o contrari. Gli piace discutere, tentare di convincere, ma se non ci riesce non importa. In tutti i paesi dove ha prestato servizio per prima cosa dopo la guerra ha fondato la sezione del Movimento Sociale ed è sempre andato d’accordo con tutti i sindaci, meglio se erano comunisti. Il motivo forse è perché mio padre, come tanti comunisti di allora, vedeva nei partiti il mezzo per raggiungere obiettivi di civiltà e progresso per tutti, certo con mezzi diversi, ma con lo stesso scopo.

Torniamo ad Escalaplano, nel maggio 1944. Mia madre ha avuto due gemelli, un maschio e una femmina, ha poco latte e poco da mangiare, una iniezione le è andata in suppurazione, sta malissimo, il maschietto muore credo proprio di fame. Mio padre resta in paese e noi figli con mamma ci trasferiamo a Quartu, in casa di un amico veterinario, dove sono più facili le cure (Quartu è un grosso paese in confronto ed è vicino a Cagliari, la Sardegna è ormai in mano agli americani e quindi non ci sono più pericoli di bombe). Il nostro ospite ha un calesse con il cavallo e un giorno ci porta al mare, al Poetto, passando su una stradina sterrata in mezzo alle saline. Il ricordo di quella gita si ferma qui, il calesse che corre con acqua a destra e a sinistra.

Dopo due mesi mamma non è ancora guarita ma si deve tornare ad Escalaplano: mio padre è stato trasferito a Jerzu. Bisogna smontare la casa: letti, armadi, piatti, bicchieri ecc, avvolgere nella carta, mettere nelle scatole, caricare su un camion, partire. E’ sera, è piovuto e ancora piove, arriviamo su un ponte, che balla sotto l’infuriare del torrente gonfio. Ormai è notte, tutti giù dal camion, a piedi di corsa sull’altra sponda. Il camion va piano piano, attraversa, ed ecco il ponte viene giù subito dietro!

5

1946, Jerzu, chiacchiere fra noi ragazzi. A casa mia c’è una delle poche radio del paese e sento distrattamente una notizia: in America c’è una cosa meravigliosa, alla radio si vedono le figure (era ovviamente la televisione) e io mi faccio bello di sapere una cosa del genere: basta cambiare un paio di manopole e il gioco è fatto! Tutti gli altri mi ascoltano in silenzio pieni di stupore, per molti di loro è già misteriosa la radio.

Si gioca a nascondino, in bande di 15 o 20 ragazzini, sino a buio, finché le mamme cominciano a chiamare e i primi vanno via. Poi si recita la filastrocca “pezza cotta, pezza crua, dogniunu a domu sua”(*) e la compagnia si scioglie. A casa c’è la minestra, oppure la pastasciutta, oppure la pappa americana: farina di ceci e di piselli e latte e arachidi e non so che altro, buona, saporita, da mangiare cotta. Ma per noi ragazzini è ottima anche così nuda e cruda.

L’aia dove si trebbia il grano e le fave è fuori paese, in uno spiazzo che finisce in un gran burrone.

In estate per la festa del santo patrono si svolge una gara fra cacciatori. La strada fa una grande curva: i cacciatori, con i loro fucili sono da questa parte, dall’altra parte, di fronte c’è appeso alla roccia un gallo, vivo, svolazzante e urlante. La gara consiste nell’uccidere il gallo. Tutto il paese è riunito a seguire gli spari e si fa il tifo e si è contenti quando finalmente il gallo viene centrato e si fa festa al coraggioso che ha sparato meglio!

 

(*) carne cotta, carne cruda, ciascuno a casa sua.