CRITICA
 
A.d.P. | Antonino Bambara | Antonio Tarantino | Carlo Munari | Franco Solmi | Guy Weirlen | Paolo Rizzi
Salvatore Maugeri | Sandro Marini | Silvana Weiller Romanin Jacur | Vittorio Benvenuti

Franco Solmi

Qualche tempo fa, scrivendo una nota di presentazione per una progettata mostra di Sgaravatti, mi auguravo che potesse verificarsi l'occasione di tentare un discorso unitario (nel senso di poter ricondurre alla unità stranita e irripetibile dell'io dell'artista il flusso dilatato e svariante delle sue immagini) sulla attività di pittore, scultore e grafico dell'artista padovano che mi sembrava allora, e ancora mi sembra, complessa al punto da prestarsi ugualmente ed entusiasmi ed a fraintendimenti anche rilevanti. Prima di tutto avevo creduto di poter rilevare in lui una propensione allo scarto più che all'armonia, una tendenza a dar spazio all'inquietudine più che ad appaganti equilibri e, infine, una sorta di voracità nei confronti di un reale avvertito soprattutto come pulsione "fuori misura". Scrivevo in quella occasione: "Se si potesse in una sola volta mettere a confronto in una grande mostra antologica tutte le tappe del lavoro di Sgaravatti, si potrebbe forse verificare come questo andar per sussulti, questo improvviso arrestarsi di vertigini, questo dipanarsi del segno fra realtà e memoria, corrispondono ad altrettanti momenti di una ricerca rigorosa quanto inquieta, tesa oltre un limite che non sempre lo stesso artista riesce a sopportare".

Mi accorgo ora, dopo un esame non distratto della lettura critica su Sgaravatti, che questa ipotesi contrasta con quella della maggior parte degli studiosi che di lui si sono occupati. In genere il tumulto espressivo è stato placato, nell'analisi critica, con l'espediente di ricondurne le ragioni a una armonia interiore, a quell'equilibrio fra razionale e irrazionale in cui cessa ogni vivificante ambiguità e si spegne, nella solare chiarezza dell'arte, ogni tensione dell'essere e dell'esserci. Ebbene, io continuo a credere che la pittura e la scultura di Sgaravatti, così come i suoi disegni e le sue incisioni, valga proprio in quanto riflette l'irrequieto universo delle contraddizioni in cui l'uomo moderno si trova irreparabilmente immerso. L'artista ha il compito di non nascondere gli scompensi sotto il velo di astratte sintesi estetiche, ma di rivelarli per mezzo di una sensibilità che si scopre d'improvviso, nel momento più teso dell'ispirazione, disarmata e coinvolta di fronte all'immenso urgente del magma esistenziale. Sandro Marini ha scritto, a proposito della operazione conoscitiva di Sgaravatti che si tratta di "una introspezione in termini visivi". Difficilmente si potrebbe definire meglio questo continuo essere in atto dell'immagine, ma non bisogna dimenticare che introspezione è indagine che ha il suo movente in una realtà che è contemporaneamente interna ed esterna, e non può pretendere ad una sintesi chiusa. I "termini visivi" (l'immagine) restano quindi legati ai precari equilibri di quella contraddittoria "logica dell'irrazionale" alla quale Sgaravatti si è riferito nel titolo di un suo libro e che limpidamente può dispiegarsi soltanto nella dimensione "improbabile" della poesia, nell'affioramento appunto degli scompensi, delle tensioni, delle incongruenze che solo "magicamente" si ordinano nel fatto plastico e pittorico. "Il più profondo è la pelle" scriveva Valery, e io credo che Sgaravatti potrebbe ben riconoscersi, e riconoscere il proprio lavoro, in questa ambigua definizione.

L'esame di un numero cospicuo di opere che questa mostra consente, può servire a portare sostegni probanti a questa mia ipotesi. Innanzitutto sono proprio gli scarti, gli scompaginamenti, la sensibilità irritata ad emergere ad un esame di superficie. Anche dal punto di vista del linguaggio, Sgaravatti sembra voler suggerire la chiave di lettura che già aveva indicato quando scriveva: "Parlo solo dell'uomo d'oggi, alle prese con i suoi problemi e la sua cultura, come appare a me che sono un uomo, oggi, alle prese con le contraddizioni di una cultura che mi proviene da tutti i tempi e da tutte le parti del mondo". Non si tratta, è evidente, di acquisizioni di linguaggi e di forme assunte in un'ottica aperta e dilatatissima, o non solo di questo. Egli sente in sé, e vuole tradurre in segni e simboli d'arte, l'urgere di sollecitazioni anche indefinibili, dove storia e quotidianità s'incrociano, ove la memoria è "archeologia" ma del presente, e l'oggi non può essere tale se non si fonde, e si confonde, in un flusso di temporalità indistinte. Ecco allora che il suo "uomo d'oggi" ha i mille volti inconoscibili e familiari degli "uomini del presente" di Nietzsche e può apparirci nella realtà più incredulità del linguaggio espressionistico come nella lievità assurda d'un segno svanente in atmosfere di pallida arcadia. In questo senso scrivevo prima che Sgaravatti tende la sua ricerca oltre un limite che egli stesso non riesce a sopportare, che continuamente travalica usando, non sdegnando, gli strumenti che le poetiche del nostro tempo gli consentono di utilizzare, dall'espressionismo di cui si è detto, a certe reminiscenze dell'informale, fino alla strutturazione cubistica portata in dialettica con l'intuizione surrealistica e il più impalpabile lirismo. Nelle sculture predomina, come è ovvio, la foga apprensiva. Il contatto con la materia che si torce fino alle più marcate forme dell'espressione conduce Sgaravatti a una sorta di violenza che soltanto l'insorgere della memoria d'ormai disgregate classicità, o l'impietrita suggestione di certe forbie dell'arcaico popolare può placare.

Ma il segno incredulito e dolente non si cancella neppure quando, come in alcuni ritratti o in un nudo di fanciulla, l'artista sembra raccogliersi in più addolcite meditazioni plastiche. Può darsi che la lezione di Emilio Greco abbia contribuito a dare a Sgaravatti il senso dell'eleganza formale che resta al fondo, ma come immagine impossibile, di questa scultura gettata al tormento plastico. Ma qui l'artista padovano gioca una partita del tutto personale, portando la sua sapienza di facitore al rischio dei sensi e dei sentimenti posti allo scoperto, a fior di pelle. La violenza interiore, che è anche violenza apprensiva e innamorata, può esprimersi nelle forme del grottesco ma anche in quelle, dolenti, di una laica religiosità che si traduce nelle opere di tema sacro con gli stessi accenti che Sgaravatti imprime ai ritratti, ai gruppi di famiglia, alle maternità irrigidite nel silenzio dei simboli. Con queste opere l'artista padovano assume, e insieme nega, la grande matrice mediterranea e ci appare uno dei pochissimi scultori del Veneto che sia riuscito a non restare imprigionato nel cerchio di una tradizione che da Martini a Marino, fino a Manzù pesa ineluttabile in ogni ricerca plastica che non abbia travalicato gli ostacoli di tradizione gettandosi al rischio delle esperienze d'avanguardia. Viene da chiedersi quanto deve Sgaravatti all'attrito che la sua formazione mediterranea ha dovuto subire durante le frequenti permanenze in quel crocevia di culture che è l'Australia, ma questa è questione secondaria. Ciò che importa è la sua capacità di cogliere le indicazioni più svarianti in una immagine che resta, proprio per questa rapacità del vedere e del sentire, eminentemente apprensiva ed inquietante. Forse non è un caso che anche in pittura il momento di più dichiarata tensione segnica e cromatica sia presente in opere dipinte quando Sgaravatti avvertiva più acutamente le tensioni sociali e gettava nel racconto l'empito e la foga di chi sa e sente di partecipare a momenti coinvolgenti della cronaca e della storia. Lo soccorre, nel mantenere il linguaggio ad altissime temperature di tensione strutturale e cromatica, la grande lezione cubistica che Sgaravatti ha mutuato attraverso la frequentazione di Saetti all'Accademia veneziana. Ma si veda come questo artista, così capace di sottili lirismi, di dolcissimi sogni d'atmosfera che invadono i fogli delle incisioni e dei monotipi, sappia tradurre in toni assai originali la lezione del maestro bolognese. Certi ritratti, per esempio, s'infrangono di fronte alla realtà tangibile e misteriosa della pazzia quotidiana, anzi, da questa pazzia e dalle sue segrete motivazioni prendono forma e senso Non sono soltanto esercitazioni estetiche quelle che Sgaravatti conduce. Egli ama approfondire i suoi e gli altrui rovelli seguendo le vie perigliose dell'analisi psicologica che lo condurrà, oltre che a scrivere saggi di singolare intensità, a dare immagine a concrete esperienze, come quelle che gli hanno suggerito la serie dedicata all'analisi di un ragazzo drogato. Qui il dipinto si scompagina seguendo in vibrazioni continue e incommensurabili quella "logica delle emozioni" in cui Sgaravatti vede la metafora nel senso della pazzia. Il discorso metaforico, comunque, non è mai del tutto assente nel lavoro dell'artista. Lo si poteva cogliere nella scultura quando più l'immagine trascorreva dalla realtà al simbolo, lo si avverte nei dipinti "sociali" in cui la trasposizione del fatto in ritualità è pressoché inevitabile, lo si può verificare ancora di più nella grafica e nella pittura quando Sgaravatti si rifiuta alle splendide suggestioni di un Dufy o di un Marquet e s'addentra nei gorghi del simbolismo espressionista di radice nordica (la memoria del Blanc Reiter è pressoché ineliminabile in certe opere) o affonda nelle aure sperdute dell'onirismo e delle memorie d'arcadia.

Cosi i suoi personaggi possono essere i protagonisti del quotidiano, o stranite emergenze metafisiche, streghe ed elfi, allucinati cultori della droga o vampiri. L'arco metaforico si estende alle "situazioni" raccontate in dipinti come "il sacrificio a Kali" o "L'aereo che ha perso le ali". Le simbologie dell'inconscio sono esplicite in opere come "Lotta col padre", o suggerite come modi del comportamento, come avviene in "Gruppo di globalizzazione" o "Nevrosi collettiva" dove il linguaggio raggiunge i vortici turbinosi di certi ampi dipinti dell'ultimo Virgilio Guidi. Questi sono naturalmente alcuni esempi, per me assai significativi, di una totale disponibilità di Sgaravatti di fronte alla necessità, di volta in volta individuata, di trasgredire norme e regole di linguaggio per restare fedele alla propria irsuta poetica dell'esistenziale o, al contrario, di rispondere a una necessità di dilatazione (non di evasione, come qualcuno ha scritto) dell'immagine oltre i codici del così detto "reale". In un commento al dipinto "La vecchia macchina rossa" Sgaravatti ha scritto: "per me reale è anche una fantasia". Credo che questa semplice e spaventosamente complessa osservazione costituisca la miglior dichiarazione di poetica che l'artista potesse dettare a didascalia unificante di tutto il suo lavoro.

Sgaravatti. Mostra antologica, Villa Contarini, Piazzola sul Brenta, 1984




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