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Franco Solmi
Qualche tempo fa, scrivendo una nota di presentazione per
una progettata mostra di Sgaravatti, mi auguravo che potesse
verificarsi l'occasione di tentare un discorso unitario (nel
senso di poter ricondurre alla unità stranita e irripetibile
dell'io dell'artista il flusso dilatato e svariante delle
sue immagini) sulla attività di pittore, scultore e
grafico dell'artista padovano che mi sembrava allora, e ancora
mi sembra, complessa al punto da prestarsi ugualmente ed entusiasmi
ed a fraintendimenti anche rilevanti. Prima di tutto avevo
creduto di poter rilevare in lui una propensione allo scarto
più che all'armonia, una tendenza a dar spazio all'inquietudine
più che ad appaganti equilibri e, infine, una sorta
di voracità nei confronti di un reale avvertito soprattutto
come pulsione "fuori misura". Scrivevo in quella
occasione: "Se si potesse in una sola volta mettere a
confronto in una grande mostra antologica tutte le tappe del
lavoro di Sgaravatti, si potrebbe forse verificare come questo
andar per sussulti, questo improvviso arrestarsi di vertigini,
questo dipanarsi del segno fra realtà e memoria, corrispondono
ad altrettanti momenti di una ricerca rigorosa quanto inquieta,
tesa oltre un limite che non sempre lo stesso artista riesce
a sopportare".
Mi accorgo ora, dopo un esame non distratto della lettura
critica su Sgaravatti, che questa ipotesi contrasta con quella
della maggior parte degli studiosi che di lui si sono occupati.
In genere il tumulto espressivo è stato placato, nell'analisi
critica, con l'espediente di ricondurne le ragioni a una armonia
interiore, a quell'equilibrio fra razionale e irrazionale
in cui cessa ogni vivificante ambiguità e si spegne,
nella solare chiarezza dell'arte, ogni tensione dell'essere
e dell'esserci. Ebbene, io continuo a credere che la pittura
e la scultura di Sgaravatti, così come i suoi disegni
e le sue incisioni, valga proprio in quanto riflette l'irrequieto
universo delle contraddizioni in cui l'uomo moderno si trova
irreparabilmente immerso. L'artista ha il compito di non nascondere
gli scompensi sotto il velo di astratte sintesi estetiche,
ma di rivelarli per mezzo di una sensibilità che si
scopre d'improvviso, nel momento più teso dell'ispirazione,
disarmata e coinvolta di fronte all'immenso urgente del magma
esistenziale. Sandro Marini ha scritto, a proposito della
operazione conoscitiva di Sgaravatti che si tratta di "una
introspezione in termini visivi". Difficilmente si potrebbe
definire meglio questo continuo essere in atto dell'immagine,
ma non bisogna dimenticare che introspezione è indagine
che ha il suo movente in una realtà che è contemporaneamente
interna ed esterna, e non può pretendere ad una sintesi
chiusa. I "termini visivi" (l'immagine) restano
quindi legati ai precari equilibri di quella contraddittoria
"logica dell'irrazionale" alla quale Sgaravatti
si è riferito nel titolo di un suo libro e che limpidamente
può dispiegarsi soltanto nella dimensione "improbabile"
della poesia, nell'affioramento appunto degli scompensi, delle
tensioni, delle incongruenze che solo "magicamente"
si ordinano nel fatto plastico e pittorico. "Il più
profondo è la pelle" scriveva Valery, e io credo
che Sgaravatti potrebbe ben riconoscersi, e riconoscere il
proprio lavoro, in questa ambigua definizione.
L'esame di un numero cospicuo di opere che questa mostra consente,
può servire a portare sostegni probanti a questa mia
ipotesi. Innanzitutto sono proprio gli scarti, gli scompaginamenti,
la sensibilità irritata ad emergere ad un esame di
superficie. Anche dal punto di vista del linguaggio, Sgaravatti
sembra voler suggerire la chiave di lettura che già
aveva indicato quando scriveva: "Parlo solo dell'uomo
d'oggi, alle prese con i suoi problemi e la sua cultura, come
appare a me che sono un uomo, oggi, alle prese con le contraddizioni
di una cultura che mi proviene da tutti i tempi e da tutte
le parti del mondo". Non si tratta, è evidente,
di acquisizioni di linguaggi e di forme assunte in un'ottica
aperta e dilatatissima, o non solo di questo. Egli sente in
sé, e vuole tradurre in segni e simboli d'arte, l'urgere
di sollecitazioni anche indefinibili, dove storia e quotidianità
s'incrociano, ove la memoria è "archeologia"
ma del presente, e l'oggi non può essere tale se non
si fonde, e si confonde, in un flusso di temporalità
indistinte. Ecco allora che il suo "uomo d'oggi"
ha i mille volti inconoscibili e familiari degli "uomini
del presente" di Nietzsche e può apparirci nella
realtà più incredulità del linguaggio
espressionistico come nella lievità assurda d'un segno
svanente in atmosfere di pallida arcadia. In questo senso
scrivevo prima che Sgaravatti tende la sua ricerca oltre un
limite che egli stesso non riesce a sopportare, che continuamente
travalica usando, non sdegnando, gli strumenti che le poetiche
del nostro tempo gli consentono di utilizzare, dall'espressionismo
di cui si è detto, a certe reminiscenze dell'informale,
fino alla strutturazione cubistica portata in dialettica con
l'intuizione surrealistica e il più impalpabile lirismo.
Nelle sculture predomina, come è ovvio, la foga apprensiva.
Il contatto con la materia che si torce fino alle più
marcate forme dell'espressione conduce Sgaravatti a una sorta
di violenza che soltanto l'insorgere della memoria d'ormai
disgregate classicità, o l'impietrita suggestione di
certe forbie dell'arcaico popolare può placare.
Ma il segno incredulito e dolente non si cancella neppure
quando, come in alcuni ritratti o in un nudo di fanciulla,
l'artista sembra raccogliersi in più addolcite meditazioni
plastiche. Può darsi che la lezione di Emilio Greco
abbia contribuito a dare a Sgaravatti il senso dell'eleganza
formale che resta al fondo, ma come immagine impossibile,
di questa scultura gettata al tormento plastico. Ma qui l'artista
padovano gioca una partita del tutto personale, portando la
sua sapienza di facitore al rischio dei sensi e dei sentimenti
posti allo scoperto, a fior di pelle. La violenza interiore,
che è anche violenza apprensiva e innamorata, può
esprimersi nelle forme del grottesco ma anche in quelle, dolenti,
di una laica religiosità che si traduce nelle opere
di tema sacro con gli stessi accenti che Sgaravatti imprime
ai ritratti, ai gruppi di famiglia, alle maternità
irrigidite nel silenzio dei simboli. Con queste opere l'artista
padovano assume, e insieme nega, la grande matrice mediterranea
e ci appare uno dei pochissimi scultori del Veneto che sia
riuscito a non restare imprigionato nel cerchio di una tradizione
che da Martini a Marino, fino a Manzù pesa ineluttabile
in ogni ricerca plastica che non abbia travalicato gli ostacoli
di tradizione gettandosi al rischio delle esperienze d'avanguardia.
Viene da chiedersi quanto deve Sgaravatti all'attrito che
la sua formazione mediterranea ha dovuto subire durante le
frequenti permanenze in quel crocevia di culture che è
l'Australia, ma questa è questione secondaria. Ciò
che importa è la sua capacità di cogliere le
indicazioni più svarianti in una immagine che resta,
proprio per questa rapacità del vedere e del sentire,
eminentemente apprensiva ed inquietante. Forse non è
un caso che anche in pittura il momento di più dichiarata
tensione segnica e cromatica sia presente in opere dipinte
quando Sgaravatti avvertiva più acutamente le tensioni
sociali e gettava nel racconto l'empito e la foga di chi sa
e sente di partecipare a momenti coinvolgenti della cronaca
e della storia. Lo soccorre, nel mantenere il linguaggio ad
altissime temperature di tensione strutturale e cromatica,
la grande lezione cubistica che Sgaravatti ha mutuato attraverso
la frequentazione di Saetti all'Accademia veneziana. Ma si
veda come questo artista, così capace di sottili lirismi,
di dolcissimi sogni d'atmosfera che invadono i fogli delle
incisioni e dei monotipi, sappia tradurre in toni assai originali
la lezione del maestro bolognese. Certi ritratti, per esempio,
s'infrangono di fronte alla realtà tangibile e misteriosa
della pazzia quotidiana, anzi, da questa pazzia e dalle sue
segrete motivazioni prendono forma e senso Non sono soltanto
esercitazioni estetiche quelle che Sgaravatti conduce. Egli
ama approfondire i suoi e gli altrui rovelli seguendo le vie
perigliose dell'analisi psicologica che lo condurrà,
oltre che a scrivere saggi di singolare intensità,
a dare immagine a concrete esperienze, come quelle che gli
hanno suggerito la serie dedicata all'analisi di un ragazzo
drogato. Qui il dipinto si scompagina seguendo in vibrazioni
continue e incommensurabili quella "logica delle emozioni"
in cui Sgaravatti vede la metafora nel senso della pazzia.
Il discorso metaforico, comunque, non è mai del tutto
assente nel lavoro dell'artista. Lo si poteva cogliere nella
scultura quando più l'immagine trascorreva dalla realtà
al simbolo, lo si avverte nei dipinti "sociali"
in cui la trasposizione del fatto in ritualità è
pressoché inevitabile, lo si può verificare
ancora di più nella grafica e nella pittura quando
Sgaravatti si rifiuta alle splendide suggestioni di un Dufy
o di un Marquet e s'addentra nei gorghi del simbolismo espressionista
di radice nordica (la memoria del Blanc Reiter è pressoché
ineliminabile in certe opere) o affonda nelle aure sperdute
dell'onirismo e delle memorie d'arcadia.
Cosi i suoi personaggi possono essere i protagonisti del quotidiano,
o stranite emergenze metafisiche, streghe ed elfi, allucinati
cultori della droga o vampiri. L'arco metaforico si estende
alle "situazioni" raccontate in dipinti come "il
sacrificio a Kali" o "L'aereo che ha perso le ali".
Le simbologie dell'inconscio sono esplicite in opere come
"Lotta col padre", o suggerite come modi del comportamento,
come avviene in "Gruppo di globalizzazione" o "Nevrosi
collettiva" dove il linguaggio raggiunge i vortici turbinosi
di certi ampi dipinti dell'ultimo Virgilio Guidi. Questi sono
naturalmente alcuni esempi, per me assai significativi, di
una totale disponibilità di Sgaravatti di fronte alla
necessità, di volta in volta individuata, di trasgredire
norme e regole di linguaggio per restare fedele alla propria
irsuta poetica dell'esistenziale o, al contrario, di rispondere
a una necessità di dilatazione (non di evasione, come
qualcuno ha scritto) dell'immagine oltre i codici del così
detto "reale". In un commento al dipinto "La
vecchia macchina rossa" Sgaravatti ha scritto: "per
me reale è anche una fantasia". Credo che questa
semplice e spaventosamente complessa osservazione costituisca
la miglior dichiarazione di poetica che l'artista potesse
dettare a didascalia unificante di tutto il suo lavoro.
Sgaravatti. Mostra antologica, Villa Contarini, Piazzola
sul Brenta, 1984
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