Le vite spostate
GIOVANNA BOURSIER CINZIA GUBBINI
ROMA
Via Candoni e Muratella sono due campi-nomadi
romani. Il primo è quello dove qualche settimana fa morì
l'ennesima neonata rom. Il secondo è un luogo orribile, pieno
di topi e di insetti stranissimi, dove sono stipate quasi 500
persone, in gran parte di origine bosniaca, moltissimi
profughi della ex-Jugoslavia. Via Candoni doveva sostituire
Muratella. Nei piani della giunta Rutelli una volta svuotato,
ripulito e riattrezzato con gli ormai famigerati
containers, doveva diventare il luogo dove convogliare
i rom dei due campi messi insieme (ovviamente solo quelli
regolari) per lasciare spazio a Muratella - a sua volta
riallestito - a una parte dei rom cacciati con la chiusura del
campo Casilino 700. E' il solito, complicatissimo, gioco di
pieni e di vuoti. Risultato? Alla fine nei 67 nuovi containers
di via Candoni sono stati mandati i rumeni di Casilino 700 e a
Muratella adesso ci vivono in troppi, "centinaia", e implorano
chiunque si avvicini "di non vivere più con topi e fango", "di
avere l'acqua" e "i documenti", senza "il terrore di essere
cacciati dalla polizia". Insomma, un altro contesto al
limite e un film già visto: tra poco il nome Muratella
sarà la nuova "vergogna di Roma", e istigherà campagne "per la
sicurezza e l'igiene" contro centinaia di persone. Che nel
loro paese non possono tornare.
Muratella è sulla via
Portuense. All'ingresso un cartello: "Lavori per smaltimento
rifiuti speciali, anche tossici e nocivi, stoccati nell'area
in località Infernaccio e bonifica ambientale del sito". Si
entra da un cancello, poi è tutto in salita. La strada,
delimitata da rigagnoli di acqua melmosa, fiancheggia le
baracche e le roulottes, stipate sulla sinistra. C'è puzza,
immondizia e fango. E' il campo che, nell'ultimo anno a Roma,
ha contato il maggior numero di decessi di neonati: quattro,
tutti morti "per rigurgito". I rom sono convinti che uno
spirito maligno giri per il campo a rubare bambini. Qualcuno
giura addirittura di averlo visto. Nonostante ciò di giorno il
campo è vitale, proprio grazie ai bambini. Ci accoglie
Valentino, che sorride in mutande: "vado alla materna".
Arrivano altri ragazzini e tutti chiedono un posto a scuola,
lasciapassare per una vita decente. Assalgono gli operatori
dell'Arci per sapere se possono andarci. E si muovono
scalzi, ma tranquilli, tra lamiere, carcasse di automobili e
immondizia. "Io a scuola ci vado già - sorride Cead - faccio
le medie e mi trovo bene". E' nato a Vlasenica. Ha 13 anni.
Abita in una roulotte che non vuole farci vedere, si vergogna.
Ci dormono in undici. "I miei genitori fanno manghel -
vanno a mendicare, ndr - ma vorrebbero un lavoro. Ai
rom nessuno lo dà". Tra un po' Cead andrà anche in palestra,
"a fare karate, mi hanno iscritto quelli dell'Arci che
vengono ogni mattina a prenderci per la scuola, anche se io
prendo il treno perchè non voglio fare tardi". Mentre
racconta, sua nonna, Nejia, lava i lunghissimi capelli di
Mira. Lo fa con la pompa e la piccola infila la testa in una
specie di tombino. L'acqua è gelata ma non è il peggio, "è
anche piena di sanguisughe". Ovviamente non si può bere e così
tutti, ogni giorno, fanno la spola a una fontanella vicina, o
si arrangiano comprando casse di acqua minerale. I bagni,
invece, sono due o tre gabbiotti chimici, per tutti gli
abitanti. La maggior parte dei rom di Muratella viene da
Bijeljina, una città bosniaca a un pugno di chilometri dal
confine serbo, conquistata dalle armate federali già nel '92.
Sono arrivati in Italia tra il '92 e il '93. Ma c'è anche
qualcuno di Vlasenica, anch'essa ormai parte integrante della
Repubblica Srpska. Come Medo, che è qui in zona da sempre. Ha
una roulotte che divide col resto della famiglia: "Siamo
dieci, con figli e nipoti", e mostra sconsolato materassi
ammassati che di notte si distribuiscono sul pavimento. C'è
anche la grande stufa di ghisa e, naturalmente, tappeti per
terra e alla pareti. Medo ha in mano "la striscia", il
cedolino dell'interminabile sanatoria del '98: "Aspetto sempre
una risposta, e poi chissà se questo basta per andare nel
nuovo campo". Vicino a lui Negip, classe 1931. E' arrivato in
Italia nell'82 e nel '92 gli è scaduto il soggiorno: "non me
l'hanno più rinnovato". Indossa il tipico cappello musulmano.
E' di Sarajevo, ne parla con le lacrime agli occhi, ma non ha
soldi per tornarci. Ha un cancro alla gola e ha venduto la
casa in Bosnia per curarsi. Non ha assistenza sanitaria: "Non
so come fare, una volta venivano quelli della Croce
Rossa, ore più nessuno". Huse, invece, il soggiorno ce
l'ha. E anche il passaporto. Li mostra insieme a un
certificato del Comune di Roma, "Ufficio Immigrazione",
ottobre 1999, che ordina il trasferimento imminente al campo
attrezzato di via Candoni e specifica le modalità di accesso.
Ma Huse sa che "non è più vero". Ha tre bambine e una bella
moglie, Jana, che viene da Praga e che fino a poco tempo fa
lavorava in fabbrica. Si sono sposati in comune, due anni fa.
Lui è nato a Priedor, 50 chilometri da Banja Luka, "dove
c'erano i campi di concentramento". Ha girato tutta l'Europa
dell'est. Ama molto Budapest e Praga, dove ha conosciuto Jana.
Finché entrambi avevano un lavoro sicuro, affittavano una casa
al mare: "Pagavamo 600 mila lire al mese. Ci piaceva e eravamo
amici dei nostri vicini italiani che venivano spesso a
mangiare da noi. Ma poi l'abbiamo dovuta lasciare. Chi ce la
fa con tre bambine, la scuola e il resto?". Huse e Jana sono
ossessionati dalla pulizia, e mentre ci offrono il caffè sotto
una specie di gazebo attaccato alla roulotte, si dilungano su
come sia possibile tener pulito in un posto simile. Starli a
sentire equivale e fare un salto nella storia dello
sgretolamento della Yugoslavia. "Io sono scappato - racconta
Huse - ma molti miei familiari sono stati massacrati. Mi
nascondevo. Dormivo fuori, sulla neve. Essere musulmano
significava essere condannato a morte". Poi tace. Alla fine
aggiunge, mentre accarezza i capelli della figlia: "Non è
possibile dimenticare".
3 - continua. Le
precedenti puntate il 4 e 18 gennaio 2001
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