EDITORIALE Invenzioni dei gagé
MARCO
REVELLI
In ogni periferia metropolitana, ai confini di
ogni città, vicino a una discarica, a un cimitero, a uno
scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di una
tangenziale o di uno svincolo autostradale o di una ferrovia,
o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la
comunità urbana finisce e accumula i propri rifiuti solidi e
umani, si trova un "Campo". Una terra di nessuno dal nome
sinistro (per lo meno nella memoria europea), prodotto di una
sorta di geografia del rifiuto che finisce per accumulare
uomini, donne, bambini - tanti, tantissimi bambini - là dove
la resistenza dei residenti è minore, il rifiuto meno gridato,
l'abitabilità e il valore delle aree ridotti al
minimo. Sono i monumenti post-moderni all'esclusione, che
le nostre amministrazioni comunali - spesso senza distinzione
di colore politico - sono andate costruendo a perenne monito
circa la loro cultura dell'accoglienza. "Il campo non
appartiene alla nostra cultura. Il campo è un'invenzione di
voi gagè", la frase è invariabilmente ripetuta a Tor de'
Cenci come all'Arrivore, alla Giudecca come a Caivano, o a
Parma, a Brescia, a Milano. E non c'è nulla di più vero: nei
"campi" i rom e i sinti non ci sono entrati di propria
volontà. Vi sono stati costretti, a forza, senza che nessuno
ascoltasse le loro ragioni, senza che neppure li si
interpellasse. Perché quella era la strada amministrativamente
e politicamente più semplice (un unico grande contenitore,
un'unica delibera, un solo comitato di protesta da
fronteggiare, una sola "area maledetta" da sorvegliare). E
perché nessuno si è chiesto mai veramente chi fossero e cosa
pensassero coloro che erano destinati a esservi "stoccati"
come merci avariate, o rifiuti tossici. Erano figure e culture
eterogenee, di religioni differenti (cattolici, ortodossi,
islamici), con provenienze differenti (nomadi stabilizzati da
tempo in Italia, come buona parte dei sinti, e poi profughi
dalle tante terre di conquista di questa fine secolo,
bosniaci, croati, kosovari...), con storie e tradizioni
eterogenee. Sono stati trattati come materiali inerti e
omogenei, indifferenti ai problemi di convivenza. In
realtà, se qualcuno si fosse preoccupato di ascoltarli,
avrebbe saputo fin dal primo colloquio che l'unità
fondamentale di riferimento per queste culture è la famiglia
allargata: 30, talvolta 40 persone che conservano rapporti
stretti di mutuo appoggio e di cooperazione. La sistemazione
ideale sarebbe dunque il cascinale, il piccolo insediamento
nel quale il gruppo può gestire la propria autosussistenza.
Non il campo di massa, che esaspera tutte le tensioni, vera e
propria "bomba sociale" per chi vi abita e per chi vi confina.
Ma neppure, in molti casi, l'appartamento d'edilizia popolare.
Piuttosto il villaggio, congruente con le abitudini e la
cultura di chi è destinato a viverci. Là dove si è praticata
questa via, dove si è avviata una qualche forma di
co-progettazione o di progettazione partecipata, con il
coinvolgimento degli utenti, i risultati sono stati
estremamente positivi. A Roma, in via dei Gordiani, dove gli
architetti e i pubblici amministratori avevano lavorato a
stretto contatto con la comunità rom, era stato progettato un
insediamento modello, destinato a offrire una sistemazione
civile, prima che il rancore metropolitano, le speculazioni
dei fascisti, le paure elettorali di Rutelli affossassero
(spero temporaneamente) l'impresa. E' quella la via da
praticare, sia per chi si batte per le ragioni
dell'accoglienza, ma anche per chi si preoccupa per le
questioni della sicurezza. Non serve molto: apertura
all'ascolto, disponibilità a guardare oltre i luoghi comuni,
un pizzico (ma ne basta proprio poca) di fantasia. Molti, tra
gli "operatori di strada" già le posseggono. A quando politici
e
amministratori?
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