Viaggio nei campi "nomadi" della
capitale d'Italia.
Seconda puntata
Case o campi? Campi piccoli o
grandi? "Chiedetelo ai rom" ci risponde l'antropologo Piasere.
Così, dopo le immense baraccopoli della scorsa puntata, eccoci
nel "piccolo è un po'meglio" GIOVANNA BOURSIER
Leonardo Piasere, docente di antropologia
sociale all'università di Firenze, è autore di numerosi libri
sui rom e sui sinti. L'ultimo, in ordine di tempo, è Un
mondo di mondi, titolo azzeccato per dire che il loro
universo raccoglie in sé mondi plurimi costruiti in relazione
ai non rom, che loro chiamano gage. In Italia, è uno
dei pochi studiosi che davvero conoscono i rom.
Chi sono gli "zingari"?
Zingari e gage sono due invenzioni, due
costruzioni sociali edificate nel corso dei secoli da chi non
si riteneva zingaro, da un lato, o gagio,
dall'altro. Ma proprio perchè sono due vicendevoli creazioni
storico-sociali sono anche maledettamente reali: zingari e non
zingari sono convinti dell'esistenza gli uni degli altri e,
quindi, sono anche convinti che gli altri sbaglino
invariabilmente a costruire se stessi.
E arriviamo al problema della generale ignoranza sui rom...
Dal momento che gli zingari vivono tra noi da secoli è
ovvio che sia stata costruita una conoscenza su di loro che è,
però, quasi esclusivamente, basata sulla ripetitività: la
maggior parte degli studiosi non fa ricerca ma crede di sapere
già tutto sui rom. Questo è evidente nel caso della cosiddetta
ziganologia, una disciplina di imitazione, in cui si
rincorrono notizie che ribadiscono un'immagine dei rom,
che continua a omologarli in pregiudizi e stereotipi,
all'occasione solo ritoccati come conviene.
Anche il nomadismo è uno stereotipo?
La diatriba tra nomadismo e sedentarietà è ininfluente.
Come sempre tendiamo a guardare la realtà dal nostro punto di
vista chiedendoci solo se sono o non sono nomadi. E se non
fossero né l'uno né l'altro? La maggior parte di quelli che
vengono definiti nomadi lo sono in rapporto al tempo e allo
spazio geografico, cioè in determinate località e per certi
periodi: conosco gruppi che nomadizzano solo alcune settimane
o mesi dell'anno. In effetti la vera caratteristica del
nomadismo rom è di non esserlo mai completamente. E,
soprattutto, per loro il problema è assolutamente
inessenziale, tanto che in romanes la differenza tra nomadi e
non nemmeno esiste, e l'unica parola traducibile con nomadismo
indica i poveri vagabondi gage. Siamo noi che vogliamo
schematizzare: trattiamo da nomadi quelli che non lo sono mai
stati, come quelli del Kosovo, o di parte della Romania e
della Serbia, e li mettiamo in campi in cui non hanno mai
vissuto. E trattiamo da sedentari quelli che da secoli
praticano la mobilità, come i sinti del nord, i rom
sloveno-croati e i grandi gruppi nomadi internazionali, i
Lovara e i Kalderasa. Assistiamo, quindi, a un curioso
ribaltamento delle situazioni: diamo le case ai sinti di
Mantova che non le vogliono mentre a quelli del Kosovo, che le
chiedono, non gliele vogliamo dare. In più è indubbio che, con
le grandi migrazioni degli ultimi anni dalla ex-Jugoslavia la
maggioranza di quelli che oggi sono nei campi vorrebbe vivere
in case, come era abituata.
Ma i campi hanno ancora senso?
Anche i campi sono creazioni nostre. Nati dalle
rivendicazioni della fine degli anni '60, erano una
possibilità in quel momento di grande immigrazione, ma sono
diventati ghetti giganteschi, con funzioni di controllo,
ricatto e assimilazione. O, come la chiamo io, di
rieducazione forzata. A Torino, all'inizio degli anni
'80, i coordinatori comunali scrivevano con lo spray i numeri
sulle roulottes e pretendevano che le famiglie esponessero le
loro foto, come facevano i nazisti con gli ebrei. I campi sono
davvero tra le più grandi brutture dell'Italia del dopoguerra.
Chi deve preoccuparsi dei rom?
Gli stati nazionali non li hanno mai voluti e infatti sono
sempre stati gli organismi sovranazionali a legiferare per
loro. Anche oggi abbiamo alti statuti a livello europeo e
bassi a livello nazionale. I rom, in qualche modo, sono
vittime storiche del razzismo. Ma la situazione sta
peggiorando, sia dal punto di vista della tolleranza
burocratica, sia da quello della tolleranza istituzionale.
Forse questo è anche dovuto al fatto che quando è cominciato
l'ultimo grande flusso dai Balcani alcuni comuni hanno davvero
provato a fare qualcosa, ma lo hanno fatto continuando a
ragionare solo dal loro punto di vista, con schemi burocratici
fallimentari che hanno diffuso un senso di ineluttabilità.
Invece basterebbe considerarli persone. E parlare con loro.
Basterebbero piccoli progetti, non interventi quadro
fatti solo per togliersi il problema. In certi casi
basterebbero insediamenti piccoli, localizzazioni per gruppi
famigliari. Quando lo si è fatto ha funzionato: per esempio a
Firenze o a Verona dove gruppi di famiglie si gestiscono
benissimo da anni. Ma, con rare eccezioni personali, le
istituzioni non si abbassano a parlare con loro. Al massimo si
rivolgono alle associazioni, che non sono rom e quindi
lavorano per cambiare condizioni di altri utilizzando
categorie proprie. Alla fine i rom scompaiono, con i loro
bisogni. E si aumentano le distanze tra chi impone e chi è
costretto a subire. Per superare i problemi la capacità di
parlarsi tra persone, anche diverse, deve far parte della
cultura del paese. Va tenuto presente che, dal punto di vista
rom, è sempre stato essenziale mantenere il più basso
possibile il grado di conflittualità con le società ospiti.
Siamo noi che abbiamo in testa questo schema d'integrazione.
Noi la trasformiamo in assimilazione. L'integrazione non è
questo: è stabilire modalità di reciproca convivenza e
comunicazione in cui ciascuno mantiene propri codici
identitari e culturali. 2 - continua. La
precedente puntata il
4/1
|